Tel Aviv e Gaza, gli
omicidi mirati e i kamikaze, lo Zahal e Al-Aqsa. E poi ancora Usa, Ue, Anp,
opinione pubblica internazionale, conflitto “non convenzionale”.
Queste le parole-chiave della presentazione del libro “Israele e la
guerra al Terrorismo” di Beniamino Irdi Nirenstein, svoltasi venerdì
26 Maggio alla Luiss Guido Carli e trasmessa da Radio Radicale, con un panel
di particolare spessore: il Generale Carlo Jean, l’editorialista del
Corriere della Sera Ernesto Galli Della Loggia, il direttore dell’Istituto
Diplomatico Maurizio Serra, moderati dal presidente della Fondazione Magna
Carta Gaetano Quagliariello. Il dibattito, così come il libro, è
partito dalla strategia che il governo israeliano ha messo in atto dal 2000
al 2004 per contenere il terrorismo palestinese, che aveva raggiunto un
nuovo apice dopo la seconda Intifada. In quel quadriennio sono stati organizzati
in Israele 23mila attentati, 430 dei quali hanno provocato circa un migliaio
di morti. Se per ipotesi tutti gli attentati fossero andati a segno ci sarebbero
state circa 35mila vittime, che su una popolazione di 6 milioni di abitanti
avrebbero avuto lo stesso peso che 300mila morti in Italia. Il peso cioè
di un dramma sociale di dimensioni tali da raggiungere quello che, come
ha sottolineato Jean, è l’obiettivo ultimo del terrorismo palestinese:
spaventare gli ebrei al punto da spingerli a tornare al sicuro negli Usa
o in Europa, lasciando tutta la Palestina agli arabi.
Di
fronte a questa minaccia all’esistenza stessa dello stato d’Israele,
si comprende come i vertici militari e governativi israeliani giudichino
irrilevante la condanna della Corte Internazionale di Giustizia alla costruzione
della barriera difensiva, che separa i territori israeliani da quelli al
momento controllati dai palestinesi. Mentre, come ha fatto notare Galli
Della Loggia, gli europei sembrano disabituati a pensare i problemi internazionali
anche in termini di uso della forza armata, perchè assorbiti ormai
dall’ottica ideologica del politically correct e dalla prospettiva
giuridica del diritto internazionale. Ottica e prospettiva che spesso in
Medio Oriente, come ogni telespettatore può vedere ogni giorno, contano
assai meno di un razzo Kassam o di un elicottero Apache. A questa miopia
di gran parte della classe politica dell’Europa continentale si affianca,
sembra desumersi dalle parole di Quagliariello, una specie di strabismo
per cui si tende a giustificare la violenza attuata da strutture terroristiche
palestinesi, mentre si condanna senza appello quella decisa dalla democrazia
israeliana. Non cogliendo anzi il merito del popolo israeliano di aver continuato
a credere nelle proprie istituzioni e nella loro capacità di reagire,
senza lasciarsi quindi andare a violente reazioni spontanee, quali per esempio
si sono avute in Olanda con il rogo di 31 moschee in risposta all’omicidio
di Theo van Gogh.
Le
istituzioni israeliane, governo, intelligence ed esercito innanzitutto,
hanno risposto perseguendo due obiettivi in contrasto tra loro: da un lato
colpire basi e fiancheggiatori dei kamikaze per limitare gli attentati e
soprattutto le vittime provocate, dall’altro risparmiare i civili
palestinesi per non rendere politicamente impossibile una pace con l’Anp.
Per mediare tra questi due scopi si è accettato un alto numero di
perdite, nella battaglia di Jenin, 38 soldati israeliani morti a fronte
di 53 terroristi palestinesi uccisi, pur di non utilizzare aviazione e artiglieria
pesante come hanno fatto gli americani a Falluja. Per comprendere il comportamento
dell’esercito israeliano inoltre non bisogna dimenticare il contesto
giuridico e culturale in cui si colloca, come ha ricordato Serra: lo Zahal
nasce come esercito di popolo, pur acquisendo subito la professionalità
e la disciplina di recente mostrata al mondo con lo sgombero di Gaza, ed
è regolato da “leggi fondamentali” che rispecchiano una
cultura giuridica nazionale che in parte differisce da quella europea, ad
esempio vietando categoricamente ogni forma di tortura mentre è più
sfumata la posizione sugli omicidi mirati.
Dalla
lettura del libro si può concludere che le operazioni offensive per
catturare o uccidere gli organizzatori degli attentati, unite al filtro
difensivo costituito dal tanto contestato “muro”, e ovviamente
all’incessante opera svolta dall’intelligence israeliana, hanno
limitato così drasticamente l’effetto degli attentati negli
ultimi anni da far sì che essi non abbiano né raggiunto l’obbiettivo
di smobilitare lo stato israeliano, né abbiano influenzato le decisioni
politiche del governo, tanto che lo storico ritiro da Gaza è stato
deciso e condotto unilateralmente e da una posizione di forza. Ma questa
vittoria tattica, ha concluso l’autore, non si è tradotta in
una vittoria in senso “clausewitziano”, cioè non ha portato
a una pace: perché essa possa esserci è necessario che si
giunga a un accordo con la controparte su un nuovo status quo della regione.
Ma perché ciò avvenga, si potrebbe aggiungere, ci sarebbe
bisogno di “una” controparte palestinese e non di una guerra
civile strisciante tra Hamas e Fatah per il controllo del potere.
(c)
Ideazione.com (2006)
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