Il
lungo curriculum di Martin Stiglio, attuale direttore dell’Istituto
italiano di Cultura di Toronto, comincia a Mogadiscio, dove il professore
milanese, allora neolaureato, fu chiamato prima ad insegnare soltanto e
poi a coordinare i corsi propedeutici all’ammissione all’Università
nazionale somala, uno dei più ambiziosi progetti di cooperazione
internazionale mai messi in piedi dal governo italiano. Una referenza, quella
di Stiglio, che già di per sé avrebbe potuto essere sufficiente
per chiedergli un parere su quel che sta accadendo, da qualche mese a questa
parte in quel martoriato paese del Corno d’Africa. Basta però
rivolgergli la prima domanda per capire che, oltre al curriculum, Stiglio
a Mogadiscio ci ha lasciato un pezzo di cuore, tra «i ricordi di una
gente straordinaria e di anni per me molto belli» e, cosa di non secondaria
importanza, «una moglie somala».
In
queste settimane le Corti islamiche, in Occidente indicate da molti come
le “cellule” del fondamentalismo in Somalia e - pertanto - potenzialmente
vicine ad Al Qaeda, hanno di fatto preso il potere nel paese. Battaglie
a parte, come siamo arrivati a questo punto?
Premetto che sono molti anni che non torno a Mogadiscio, anche
perché le condizioni di sicurezza del paese, col passare degli anni,
si sono andate via via deteriorando. La Somalia la conobbi nel settembre
del 1974, quando giunsi a Mogadiscio per partecipare al grande progetto
dell’Università nazionale somala, quando il potere era saldamente
in pugno a Siad Barre. Al di là delle sciocchezze sul “socialismo
scientifico” che tanto piacevano al dittatore, Barre aveva avuto il
merito di aver superato il sistema delle kabile, i clan nei quali si divide
la nazione somala. Un merito che però è andato di pari passo
con alcuni demeriti che sono alla base della situazione odierna: proprio
mentre arrivavo a Mogadiscio, infatti, Barre diede vita a una commissione
di saggi con il compito di elaborare per la prima volta una lingua somala
scritta, fino ad allora soltanto orale e la cui letteratura popolare veniva
tramandata dai cantori nei villaggi, come nella Grecia arcaica di Omero.
Stiamo
andando un po’ lontano, non le pare?
Niente affatto, la chiave di volta del caos attuale è proprio
lì, nell’affermarsi di una lingua somala scritta e nel quasi
contemporaneo divieto che il dittatore impose allo studio delle lingue straniere,
allora assai diffuse in Somalia. E non soltanto l’italiano e l’inglese,
ex lingue coloniali usate anche nei documenti pubblici: non esistendo fino
a pochi anni prima un’università nel paese, tanti giovani somali
partivano per l’estero per studiare e tornavano con un grande bagaglio
culturale. Si trattava, è chiaro, di giovani dei ceti abbienti, ma
questo permetteva a tutto il paese, anche solo di riflesso, di avere idea
di come fosse il mondo all’esterno dei confini somali. Il divieto
di studiare le lingue, a fronte di un somalo scritto completamente sprovvisto
di testi scritti, fecero invece il danno: all’improvviso il paese
perse la consapevolezza di far parte del mondo. Esistevano soltanto la lingua
locale e i pochi testi della propaganda di regime pubblicati in somalo.
Insomma,
il medioevo all’improvviso.
Esattamente, un danno incalcolabile a quello che era uno dei paesi più
avanzati culturalmente dell’intero Continente africano. Ma questo
fattore da solo non basta del tutto a spiegare cosa accadde.
E
cos’altro?
Siad Barre, come quasi tutti i dittatori di questo mondo, aveva mire espansionistiche,
e nello specifico ne aveva sull’Ogadén, una regione incuneata
nel cuore della Somalia finita sotto il controllo del governo di Addis Abeba.
Un ottimo pretesto per rinfocolare la secolare rivalità con gli etiopi
e dare libero sfogo alla “volontà di potenza” del regime.
Ma anche una mossa che alienò le simpatie dell’Unione Sovietica
nei confronti della Somalia, della quale i russi - come anche dell’Etiopia
- erano stati fino ad allora alleati. Il venir meno del principale riferimento
geopolitico di Mogadiscio proprio mentre cominciavano le ostilità
portò Barre alla disfatta militare. E un dittatore che perde, lo
sappiamo anche noi italiani, ha vita breve.
I
somali, insomma, che già cominciavano a perdere l’orizzonte
culturale, perdettero anche quello politico. Giusto?
Andò esattamente così. Il sistema basato sulla kabila,
sulla tribù, cominciò a tornare alla ribalta: ci volle una
dozzina d’anni perché emergesse compiutamente, ma alla fine
lo fece con il golpe dei “signori della guerra”. Il resto, dal
1990 al 1995, almeno, lo conosciamo un po’ tutti: l’emergenza
umanitaria, l’arrivo delle truppe occidentali, tra cui italiani e
americani, il “mai più” di Clinton dopo l’operazione
fallita della Delta Force e la Somalia che resta, sola, inghiottita nel
suo caos.
Fino
a quando non si viene a sapere che le truppe dell’Unione delle Corti
islamiche - e siamo a marzo - non stanno marciando verso Mogadiscio...
Sì, ma cos’è successo nel frattempo? Quella
che era un tempo la classe dirigente del paese è fuggita all’estero:
prima tentando la carta dell’asilo in Italia, spesso non riuscita,
e poi provando con più successo proprio con il Canada. Quelli che
scappavano erano i somali della vecchia cultura, i soli - al contrario dei
trentenni di oggi di Mogadiscio - che si erano formati su testi colti e
non soltanto sulle sure del Corano mandate a memoria in un arabo che, per
il resto, in pochi conoscono. Perché chi è rimasto, con l’orizzonte
culturale azzerato e quello politico anche, non ha potuto far altro che
finire dritto dritto nelle braccia della religione e, come spesso accade
in questi casi, degli imam più radicali.
Ed
eccoci alle Corti.
Sì. A un paese che viene abbandonato da tutti, dall’Onu, dagli
americani, dagli italiani che per motivi di sicurezza nel 1985 decisero
di sospendere i progetti della cooperazione senza mai più riprenderli,
non resta che la consolazione della fede. Intendiamoci: i maestri islamici
delle Corti sono uomini molto pii, ma come accadde con i talebani in Afghanistan,
esiste un serio rischio di strumentalizzazione di tanta religiosità:
l’orizzonte della Kabul di dieci anni fa e quello della Mogadiscio
di oggi non potrebbero essere più simili.
C’è
un rischio talebano e, di conseguenza, anche terroristico, in Somalia, pertanto?
A mio avviso sì, purtroppo. E questo ritorno al medioevo sul piano
dei diritti umani (basti pensare alle uccisioni nei cinema per chi guardava
la partita dell’Italia) rischia di apparire come l’unica via
di uscita dal caos della guerra civile. Forse è vero, ma il prezzo
da pagare - come già accaduto agli afgani, per l’appunto -
rischia di essere enorme. La comunità internazionale deve muoversi,
e non lasciare scorrere altri dieci anni. Quelli appena trascorsi sono la
dimostrazione di quanto ci costi quell’inerzia, oggi.
Riconoscerebbe
Mogadiscio, oggi in mano alle milizie islamiste, se potesse tornarci?
Temo proprio di no, e lo dico con tanta amarezza, perché amo tanto
la Somalia. Non soltanto Mogadiscio dove lavoravo, ma anche le regioni più
interne e remote, dove ho visto paesaggi incredibili e conosciuto gente
meravigliosa. I somali sono persone solari,
accoglienti, simpatiche: a me, milanese, ricordavano un po’ la gente
del nostro Sud Italia, a volte un po’ indolente ma con un cuore immenso.
Ricordo i balli, i canti e le immersioni in un mare meraviglioso. Ma ancora
di più ricordo di quanto fosse rimasta - strano ma vero, in positivo
- la traccia del passaggio degli italiani: forse a Mogadiscio ho bevuto
il miglior espresso fuori dall’Italia della mia vita, e credo che
solo in Somalia - e nemmeno nella capitale, ma addirittura tra i pastori
dell’interno - si potesse assistere a una vera e propria disputa,
davvero accesa, su quale fosse l’esatto punto di cottura degli spaghetti.
In quella terra io mi sono sentito a casa come soltanto nel mio paese mi
è capitato. Vederlo oggi sprofondare nel medioevo mi fa male al cuore.
(c)
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