Il processo di pace in Medio Oriente si è fermato sei anni fa con il fallimento del vertice di Camp David in cui si sarebbe dovuto decidere l’assetto del futuro Stato palestinese e dei suoi confini. Da allora, dopo l’esplosione della “seconda Intifada”, ogni trattativa è stata di fatto congelata. Tuttavia, anche in tutto questo arco di tempo la diplomazia ha tentato di far ripartire i negoziati presentando una serie di progetti che però non sono riusciti nell’obiettivo. Ecco qui di seguito un resoconto in ordine cronologico dei piani avanzati e del loro contenuto, anche per comprendere come in questi anni sia cambiato l’atteggiamento della comunità internazionale nei riguardi del problema mediorientale.
I
PARAMETRI DI CLINTON
Illustrati il 7 gennaio 2001 in un discorso pronunciato davanti all’Israeli
Policy Forum dal Presidente americano pochi giorni prima della scadenza
del suo mandato, questi prevedevano il diritto di entrambi i paesi a vivere
entro confini sicuri e garantiti, la presenza di un contingente internazionale
lungo il Giordano e la nascita di uno Stato
palestinese demilitarizzato e territorialmente contiguo. Per la sua sicurezza,
Israele avrebbe potuto annettere alcuni insediamenti ebraici in Cisgiordania,
a condizione però di incorporare il minor numero possibile di abitanti
palestinesi, mentre Gerusalemme sarebbe diventata la capitale di entrambi
gli Stati.
PIANO
DI PACE SAUDITA
Presentato dal principe ereditario saudita Abdullah nel marzo 2002, prevedeva
il ritiro di Israele dai territori occupati dopo la guerra del 1967 in cambio
della normalizzazione dei rapporti con i Paesi arabi e per un breve periodo
suscitò l’attenzione dei commentatori senza tuttavia ottenere
risultati concreti.
LA
ROAD MAP
Disegnata dal Presidente americano George W. Bush nella primavera 2003 anche
allo scopo di riavvicinare gli Stati Uniti al mondo arabo dopo le tensioni
seguite al conflitto iracheno, il piano si articolava in tre diverse fasi
che avrebbero dovuto condurre alla nascita dello Stato palestinese indipendente.
La prima, da realizzarsi entro maggio del 2003, prevedeva un periodo durante
il quale i palestinesi si impegnavano a porre fine a qualsiasi atto di ostilità
contro Israele, che comunque era invitato a migliorare le condizioni di
vita dei residenti nei territori e ad avviare alcune riforme del sistema
politico. La seconda stabiliva un periodo di transizione di sei mesi da
giugno a dicembre 2003 per giungere all’istituzione di uno Stato palestinese
autonomo con frontiere provvisorie. Per arrivare a questo stadio, la dirigenza
dell’ANP avrebbe dovuto riacquistare la sua credibilità agendo
contro il terrorismo e costruendo delle istituzioni democratiche basate
sui principi dello Stato di diritto. L’avvenuto adempimento di quanto
prescritto nella prima fase ed il passaggio a quella successiva doveva essere
valutato dal Quartetto internazionale – formato da Stati Uniti, Russia,
Unione Europea e Nazioni Unite – sulla base del comportamento di ambedue
le parti in questione. Subito dopo si sarebbe dovuta convocare una conferenza
internazionale per il raggiungimento di una pace stabile in Medio Oriente,
i Paesi arabi che avevano relazioni diplomatiche e commerciali con Israele
avrebbero dovuto riallacciarle ed i colloqui sullo sviluppo economico della
regione, sugli armamenti ed il problema dei profughi sarebbero dovuti ripartire.
Infine, realizzato anche quanto prescritto nella fase due, tra il 2004 ed
il 2005 una seconda conferenza internazionale ed una risoluzione del Quartetto
avrebbero definito i confini dello Stato palestinese, lo status della città
di Gerusalemme e degli insediamenti israeliani presenti nei territori. Formalmente,
costituisce ancora il documento ufficiale di riferimento per una ripresa
delle trattative, ma allo stato attuale è ben difficile che i suoi
principi possano trovare applicazione.
PIANO
DI PACE DI GINEVRA
Firmato a Ginevra nel dicembre 2003 da venticinque esponenti palestinesi
e del partito laburista israeliano, tra cui l’ex ministro della Giustizia
Yossi Beilin, prevedeva la nascita di uno Stato palestinese indipendente
e smilitarizzato al quale erano attribuiti i quartieri arabi di Gerusalemme
che doveva diventare la capitale di entrambi i paesi. Il problema dei luoghi
sacri veniva risolto riconoscendo la sovranità israeliana sul Muro
del Pianto e quella palestinese sulla Spianata delle Moscheae, mentre la
sicurezza e la libertà di accesso sarebbero stati assicurati da una
forza internazionale. Israele invece, in cambio della cessione ai palestinesi
di 137 Kmq di territorio situato nelle zone di Gaza e Gerico, si annetteva
il 2,5 per cento della Cisgiordania con gli insediamenti esistenti vedendosi
riconosciuto il possesso dei quartieri ebraici di Gerusalemme e di alcune
colonie limitrofe nonché il diritto per le sue unità militari
di stazionare per altri tre anni lungo il Giordano ma a condizione di essere
poste sotto un comando internazionale. Infine, per quanto riguarda i profughi
palestinesi, il diritto di fare ritorno ai loro luoghi d’origine veniva
concesso solo a 30.000 di essi.
Una delle cause dell’insuccesso dei piani di pace presentati risiede anche nella mancata riforma e riorganizzazione delle forze di sicurezza palestinesi, ritenute dal governo di Gerusalemme inadatte a fronteggiare i gruppi terroristici attivi nei territori. Secondo quanto previsto dagli accordi di pace, le forze di sicurezza palestinese hanno infatti il compito di garantire l’ordine nel loro territorio e prevenire le azioni terroristiche contro Israele e possono disporre solo di un armamento leggero. Le forze armate palestinesi contano 29.000 effettivi, dei quali 14.000 appartengono alla sicurezza nazionale, 10.000 alla polizia civile e 3.000 alla sicurezza preventiva. La sicurezza nazionale è responsabile del controllo delle frontiere delle aree poste sotto la sovranità dell’ANP e dei servizi di pattugliamento congiunto con Israele nell’Area B della Cisgiordania. Secondo gli esperti, la sua organizzazione si avvicina a quella di una normale forza militare ed i suoi effettivi provengono per la maggior parte dall’OLP. La polizia civile è incaricata invece del normale ordine pubblico, mentre la sicurezza preventiva svolge essenzialmente le funzioni di un servizio segreto. Altri 1.500 effettivi appartengono poi all’intelligence, alla difesa civile ed alle unità della guardia costiera. Rispondono invece direttamente al presidente dell’ANP le forze speciali e quelle preposte alle sicurezza presidenziale. Un ruolo particolare è svolto inoltre dagli appartenenti alle milizie Tanzim e Forza 17. La prima è stata istituita negli anni Settanta per proteggere Arafat e gli altri esponenti palestinesi, la seconda invece nel 1995 per contrastare l’azione delle forze islamiche presenti nei territori e tecnicamente non dovrebbero essere parte dell’apparato di sicurezza istituzionale dell’ANP in quanto nient’altro che milizie armate del partito Al-Fatah.
(c)
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