L’uccisione del
Ministro dell’Industria libanese Pierre Gemayel, unita alle dimissioni
di sei ministri appartenenti al movimento Hezbollah avvenuta pochi giorni
fa, potrebbe far precipitare il Libano in una crisi politica dagli esiti
imprevedibili infiammando così l’intera regione. Ma gli eventi
libanesi non rischiano solo di ripercuotersi sugli equilibri mediorientali
ma anche su quelli italiani trasformando la decisione di inviare un nostro
contingente militare nel sud del Paese presa la scorsa estate dal governo
Prodi in un grave errore politico. Decisa allo scopo di dimostrare come
la politica estera del nuovo governo di centro-sinistra fosse diversa da
quella del precedente esecutivo guidato dalla CdL, la missione in Libano
conteneva fin dall’inizio tutti i presupposti di un probabile insuccesso.
Chiunque aveva una minima conoscenza dello scenario politico e militare
libanese avrebbe capito che la tregua seguita alle operazioni militari israeliani
contro gli Hezbollah sarebbe stata soltanto provvisoria. La stessa risoluzione
1701 con cui le Nazioni Unite stabilivano il cessate il fuoco era infatti
estremamente vaga e con riferimenti sfumati proprio allo scopo di ricevere
l’approvazione di tutte le parti in conflitto, apparendo fin da allora
evidente come le ostilità sarebbero potute riprendere o al verificarsi
del primo grave incidente o se qualcosa non fosse andato come auspicato
dalla comunità internazionale.
Il primo errore
di valutazione è stato quello di non comprendere come il disarmo
degli Hezbollah fosse di fatto impossibile da portare a compimento. Se da
un lato l’Esercito libanese non aveva né le capacità
tecniche né la forza politica di procedere al disarmo per non correre
il rischio di mettere in crisi i delicati equilibri presenti all’interno
del governo di Beirut, dall’altro le forze del contingente internazionale
non desideravano essere coinvolti in un’operazione di questo tipo
per evitare di incorrere nell’ostilità della popolazione sciita
locale e degli stessi Hezbollah. Il secondo invece risiede nell’incompletezza
della missione decisa dalle Nazioni Unite. Per un’operazione di questo
tipo sarebbero stati necessari almeno 15.000 effettivi dotati di una forza
di copertura aerea per verificare se eventuali forniture di armi fossero
state inviate agli Hezbollah. Al contrario, il contingente dell’UNIFIL-II
dispone di un numero di componenti ritenuto insufficiente dagli analisti,
è privo di mezzi aerei ed una buona parte dei suoi effettivi è
impegnata in operazioni di pattugliamento marittimo che nel caso libanese
rivestono poca o nessuna rilevanza dal punto di vista militare, dato che
le milizie sciite continuano a ricevere armi ed equipaggiamenti da Iran
e Siria per via aerea. Il terzo, e sicuramente più grave, errore
è stato quello di inviare un nostro contingente sotto la spinta di
motivazioni politiche interne.
L’Italia
è stata la più sollecita a rispondere all’invito dell’ONU
e nella rapidità con cui si è deciso di partecipare alla missione
un ruolo fondamentale hanno avuto sia l’intenzione di Prodi di dimostrare
come il suo governo fosse tornato a seguire una politica multilaterale in
collaborazione con l’Unione Europea e le Nazioni Unite che i desideri
della sinistra più radicale di colorare la missione di accenti anti-israeliani.
Una più attenta analisi della situazione avrebbe al contrario consigliato
una maggiore prudenza, anche alla luce degli interrogativi messi prima in
evidenza. Ora, nel caso la situazione politica libanese dovesse aggravarsi
portando al crollo dell’esecutivo guidato da Fouad Siniora ed alla
formazione di un nuovo governo controllato dagli Hezbollah, non è
escluso che Israele possa decidere di riprendere le operazioni proprio per
impedire un ulteriore rafforzamento del movimento sciita.
Davanti a questi
scenari, per il nostro contingente si aprono due prospettive. Nel migliore
dei casi, anche senza il riesplodere delle ostilità, in un simile
quadro il ruolo e la funzione delle forze italiane e di tutta la missione
UNIFIL. II sarebbero praticamente ridotti ai minimi termini. Qualora il
conflitto dovesse invece nuovamente accendersi, vi è il rischio concreto
che restino intrappolati sul terreno. Emblematico in proposito è
l’esempio di quanto accaduto in Bosnia, dove il contingente dell’UNPROFOR
si trovò stretto tra le minacce serbe e l’ostilità della
popolazione musulmana senza poter esercitare alcun ruolo attivo e con grave
pericolo per i suoi componenti. La situazione non è ancora precipitata
ma il clima non invita certo all’ottimismo. Sarebbe opportuno quindi
valutare se è ancora il caso di prendere parte ad una missione il
cui ruolo, anche nella migliore dell’ipotesi, appare quantomai ridimensionato.
Chiedendosi pure se valeva la pena di partire.
(c)
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