Da ormai due settimane Mogadiscio è sconvolta da una guerra furibonda. I miliziani ed i clan antigovernativi, che non intendono perdere il controllo della città, ingaggiano battaglia contro le truppe dell’Unione Africana, inviate con l’avallo dell’Onu allo scopo di stabilizzare il paese e riportarlo verso la democrazia. Un copione già noto e troppo simile a quello del 1993, anche se allora a rastrellare le strade di Mogadiscio per disarmare i miliziani erano i soldati italiani, mentre oggi tocca ai militari somali, etiopi ed ugandesi perlustrare casa per casa i quartieri della capitale a rischio della vita. Una situazione pericolosa, che rischia di innestare un effetto domino potenzialmente in grado di esportare il conflitto negli Stati confinanti, e che non smette di peggiorare da quel venerdì 23 di marzo in cui i ribelli sono riusciti ad abbattere un aereo bielorusso con i suoi undici membri di equipaggio e il carico di armi e attrezzature destinate alla missione dell’Unione Africana. Da allora molte vittime sono rimaste sul terreno e un altro velivolo è stato colpito. Abbiamo chiesto ad Anna Bono, africanista, docente di Storia ed istituzioni dell’Africa presso l’università degli studi di Torino, i motivi di questo conflitto e se una escalation della violenza è possibile.
Professoressa Bono, che cosa infiamma la Somalia?
La crisi somala ha inizio nel 1991, quando i quattro principali clan
del paese imbracciano le armi per sconfiggere Siad Barre, padre
fondatore della nazione, e prendere il potere. Questa lotta per la
supremazia, che una volta cacciato il dittatore diventa prima la
battaglia di un clan contro l’altro e poi la lotta dei clan contro
il governo somalo, non è ancora finita. È stata interrotta dai
lunghi negoziati tenutisi in Kenya che nel 2004 hanno portato alla
formazione di un parlamento, e poi è ripresa. A Mogadiscio oggi sono
in corso i combattimenti peggiori da quando, a dicembre del 2006, il
governo somalo è riuscito a riprendere il controllo della città
anche grazie all'aiuto delle truppe etiopi.
Ma perché il conflitto si inasprisce proprio adesso?
In parte ciò dipende dal fatto che il Parlamento somalo il 12 di
marzo ha approvato il trasferimento del governo da Baidoa a
Mogadiscio, compiendo un ulteriore passo verso la stabilizzazione
del paese. Inoltre, sempre dall’inizio di marzo si stanno dislocando
sul territorio le prime truppe dell'Unione Africana inviate per
risolvere la crisi. Questo contingente, che a pieno regime dovrebbe
impegnare circa ottomila unità, ora è presente solo con 1500
militari ugandesi. Ma tanto basta a scatenare la reazione delle
forze antigovernative, che sono contrarie a qualsiasi tentativo di
ristabilire un ordine democratico e vogliono prevalere e conquistare
il potere.
Quelle che lei chiama “forze antigovernative” sono le
cosiddette Corti islamiche?
Le Corti islamiche sono il nemico principale del governo perché sono
un raggruppamento di lignaggi e di clan di tendenza fondamentalista
contrari al nuovo assetto dato al paese. La Somalia è da sempre
composta di clan e quelli più potenti non sono disposti a scendere a
patti, ognuno vuole prevalere sugli altri. Il governo ed il
parlamento attuali sono nati dopo i lunghissimi negoziati di Nairobi
in cui i vari gruppi sembravano finalmente essersi messi d’accordo
ed hanno accettato di dividersi le cariche con rigore quasi
scientifico: a ciascuno dei clan maggiori sono andati 61 deputati,
ai minori 31. Le istituzioni così formate nel 2005 si sono
trasferite in Somalia, ma lì non hanno mai funzionato perché quegli
stessi negoziatori che sulla carta avevano accettato il compromesso,
hanno poi continuato a mantenere il controllo ciascuno sui propri
territori di clan. Per questo la situazione non è mai stata
abbastanza sicura da permettere che le istituzioni politiche si
insediassero a Mogadiscio e che potessero effettivamente funzionare.
In questo scenario si è formata anche quella coalizione di lignaggi
che prende il nome di Corti islamiche, nelle quali si è poi inserito
dall’esterno il fondamentalismo islamico.
La comunità internazionale reagisce inviando una
missione dell’Unione Africana, per altro non ancora operativa. Una
giusta strategia?
Vorrei ricordare che una parte della comunità internazionale si è
mossa già a dicembre del 2006 a sostegno dell'intervento
dell'Etiopia che, con l’appoggio degli Stati Uniti, ha mandato delle
truppe a Baidoa per proteggere il governo di transizione,
accerchiato da clan ostili. Una missione di successo, che in pochi
giorni ha messo in fuga le milizie delle Corti islamiche. Solo
successivamente si è deciso, con l'avvallo delle Nazioni Unite, di
inviare una missione di interposizione dell'Unione Africana di
ottomila uomini. Si sono impegnati ad inviare truppe l’Uganda, che
ha già dislocato un primo contingente, il Burundi, la Nigeria, e
forse parteciperanno anche il Malawi ed il Ghana. È previsto inoltre
che gli etiopi lascino la Somalia, anche se per il momento devono
restare perché, nonostante le promesse, finora dall’Ua sono arrivati
solo 1500 uomini. In compenso ha inviato truppe anche il presidente
Abdullahi Yusuf. Mentre naturalmente Hawiya, il principale clan di
Mogadiscio, reagisce violentemente temendo di perdere potere.
Un’escalation della violenza è possibile?
Il pericolo è reale perché per questa crisi non si intravede una
soluzione a breve termine. E poi vi sono già coinvolte Etiopia,
Eritrea e malgrado le smentite si registra anche la presenza di
cellule terroristiche islamiche. Come se non bastasse, la capacità
delle truppe dell’Unione Africana di tenere sotto controllo la
situazione è tutta da verificare. I precedenti non incoraggiano:
l’unica altra missione condotta dall’Ua da quando è nata è stata
quella in Darfur, dove sono stati mandati 7000 uomini che non sono
serviti assolutamente a nulla.
La scelta di mandare l’Ua è dunque opinabile?
Dal punto di vista formale tutto quello che è stato fatto è corretto
perché l’Unione Africana è l’organismo preposto a risolvere le crisi
di questo genere, purtroppo la debolezza dell’organizzazione è
evidente da tutti i punti di vista, anche da quello economico. E
oggi tutto lascia dubitare della capacità dell’Ua di pacificare il
paese. Inoltre si sta tardando a rendere operativa la missione,
l’arrivo di nuovi contingenti è atteso con urgenza dal comandante,
un ugandese che ha letteralmente implorato gli altri Stati di
mandare gli uomini promessi.
L’intervento di forze internazionali più efficienti
potrebbe essere risolutivo?
Non adesso, perché ad essere problematica è tutta la realtà del
paese. I clan somali non sono maturi al punto di attuare un
cambiamento sostanziale nella loro strategia di conquista del
potere. Che contempla solo l’uso della forza e la prevaricazione.
Come per l’Afghanistan, qualcuno ha proposto di
risolvere la crisi organizzando una conferenza di pace. Un'idea
attuabile?
È interessante notare che, proprio come per l’Afghanistan, qualcuno
ritiene che questa conferenza debba includere anche le Corti
Islamiche. Peccato che queste non vogliano assolutamente firmare dei
trattati, ma solo riprendere il potere che vedono minacciato. Ecco
allora che si propone il solito quesito: metti intorno ad un tavolo
dei terroristi, delle forze antigovernative, e che cosa gli offri?
Dei ministeri?
(c)
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