Il 22 marzo, mentre alla Camera si
votava la fiducia al decreto sulle miniliberalizzazioni, in uno dei
palazzi di pertinenza di Montecitorio (Palazzo Marini), la
Fondazione Rodolfo Benenedetti (non certo contigua all’opposizione)
presentava proposte di riassetto dello Stato sociale per rendere
“più morbida” la transizione della struttura produttiva dell’Italia
verso attività a più alto valore aggiunto. È singolare ma sino ad
ora le miniliberalizzazioni sono state il solo segno di una politica
industriale di cui non c’è traccia nella maxi-finanziaria di 35mila
miliardi (o giù di lì), 370 pagine e 1365 commi. Non sarebbe stata
una sorpresa se fosse al governo il centrodestra, specialmente con
un liberale come Antonio Marzano alla guida del dicastero
competente; eppure, pochi mesi dopo il suo ingresso nel palazzo di
architettura tardo fascista a Via Veneto, il ministro ha partorito
un libro bianco sulla politica industriale per indicare una strada e
dare coerenza alla vera e propria accozzaglia di provvedimenti
grandi e piccoli nel manifatturiero.
Ci si aspettava, invece, da Pierluigi
Bersani una politica industriale, anche e soprattutto in quanto,
dopo essere stata per un paio di lustri accusata di essere
espressione di dirigismo, essa viene riabilitata alla grande in una
rassegna appena pubblicata dalla Banca mondiale nel World Bank
Policy Research Working Paper No. 3839. Dalla rassegna, si deduce
che, pur se l’intervento pubblico fa spesso cilecca, un quadro
generale di sviluppo, quello che un tempo si chiamava la
programmazione indicativa, può essere utile soprattutto in un
tessuto manifatturiero dove predominano le piccole e le medie
imprese. È uno spunto interessante specialmente in un contesto in
cui la politica industriale ha sovente riguardato le grandi imprese
ed utilizzato strumenti come la rottamazione e le agevolazioni a
segmenti specifici (quali i decoder per il digitale terrestre).
Strada, peraltro, riaffermata nella Legge finanziaria.
A tale riguardo sono particolarmente
interessanti due lavori sulle aziende familiari (che nella
finanziaria hanno avuto una certa attenzione), prodotti il primo da
un gruppo di studio della Bocconi ed il secondo da un team di
ricerca dell’Univesità di Roma La Sapienza. Ambedue hanno avuto poca
attenzione nei palazzi (forse perché pubblicati in inglese –il primo
come CEPR Discussion Paper No. 5786 ed il secondo come saggio
nell’ultimo fascicolo del Journal of Applied Economics). Il primo
misura i risultati delle aziende familiari quotate in Borsa nel
1998-2003, utilizzando sia dati contabili che dati di mercato. Ne
viene fuori che, mentre utilizzando un modello statistico ed i dati
contabili le aziende familiari mostrano un andamento migliore alla
media settoriale, ciò non viene confermato dai dati di mercato.
Il secondo studio offre indirettamente una spiegazione interessante,
anche se il campione è differente – l’insieme delle piccole e medie
imprese, spesso, ma non sempre, a gestione familiare – e l’angolo
visuale è strettamente finanziario – l’utilizzazione di sussidi
pubblici, elegantemente chiamati incentivi, per far fronte al
razionamento implicito del credito nei loro confronti. Il campione
riguarda 1900 imprese nel periodo 1989-94: i sussidi/incentivi
avrebbero funzionato efficacemente nel ridurre il vincolo agli
investimenti dal lato dell’accesso al credito. Ciò solleva un
interrogativo importante di politica industriale: che effetti sta
avendo la revisione dei sussidi/incentivi (da contributi a fondo
perduto a credito agevolato) definita dalla legislatura precedente e
confermata nella Legge finanziaria?
Il pensatoio del ministero
dell’Economia e delle Finanze, l’Isae, ha appena pubblicato uno
studio (Isae working paper n. 75) che non sembra avere destato
attenzione a Via Veneto o, se lo ha fatto, non abbastanza perché se
ne tenesse conto nella Legge finanziaria. Il lavoro contiene una
prima valutazione quantitativa dell’impatto del fondo di garanzia
per il credito agevolato alle piccole e medie imprese. Vengono
condotti numerosi test econometrici per raffrontare i risultati
aziendali delle imprese che hanno avuto accesso al fondo con le
altre. La conclusione è che l’impatto è stato positivo, ma modesto a
ragione della ristretta base in conto capitale del fondo e della
eccessiva selettività. C’era, quindi, su un piatto d’argento
l’occasione di fare della politica industriale efficiente ed
efficace. Ma si è persa nelle 370 pagine e 1365 commi. E le timide
liberalizzazioni di questi giorni sono solo un avvio modesto ad un
mercato meglio funzionante, non certo l’assaggio di una politica
industriale.
(c)
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