È inutile, per quanto
si sforzi il presidente del Consiglio italiano con i cinesi proprio
non ci sa fare. E la pecca non è di poco conto se si considerano il
ruolo attuale e la crescente influenza della Repubblica Popolare
sulla scena internazionale. Prendiamo il recente viaggio del premier
a Tokyo. Dal pulpito asiatico, sicuro di essere ben udito dalla metà
del pianeta, il Professore ha mandato un messaggio incendiario a
Pechino. “Europa e Giappone – ha detto – dovrebbero unirsi e
coordinare i loro aiuti all'Africa per contrastare la crescente
influenza della Cina in questo continente. Se si considerano le
cifre – ha proseguito Romano Prodi – Roma e Tokyo messe insieme
offrono un aiuto molto più importante all'Africa rispetto alla
Repubblica Popolare, ma i dirigenti africani parlano solo di
Pechino”. Chiamato in causa, il ministero degli Esteri cinese non ha
tardato a rispondere. Liu Jianchao, portavoce del dicastero, ha
precisato perplesso: “Se altri paesi vogliono aiutare l'Africa
questo è un bene. Ma nessuno può escludere qualcun altro”.Figuraccia
a parte, va riconosciuto al Professore di non avere tutti i torti.
All'inizio del nuovo millennio la Cina ha inaugurato una politica
estera fortemente interventista nel continente nero. E il tutto a
discapito dell'Occidente, che a sud dell'Equatore continua a perdere
posizioni. E se cercare di cambiare le cose con simili esternazioni
non fa che peggiorare i rapporti tra i due Stati, già incrinati
dalle note vicende che coinvolgono le comunità cinesi presenti in
Italia, è indubbio che le democrazie debbano darsi da fare per
arginare il neocolonialismo cinese.
“Ma che
cosa cerca la Cina in Africa?” Si chiedono i ricercatori
della Heritage Foundation nel saggio dello scorso aprile
“Dentro l’Africa, la lotta della Cina per l’influenza e il
petrolio” (Into Africa: China’s scramble for influence and
oil). Incuriositi dai frequenti viaggi dello stato maggiore
comunista nel continente nero e dai summit fra i leader
cinesi e quelli africani, gli studiosi del think tank
conservatore americano approfondiscono un tema che solo
nelle ultime settimane (e dopo che tutte le maggiori testate
internazionali ne hanno parlato) ha trovato spazio nella
grande stampa italiana. A febbraio 2007, riporta l’articolo
della Heritage Foundation, il presidente Hu Jintao ha fatto
tappa in otto nazioni africane nel corso di un viaggio
durato poco più di dieci giorni, e nel novembre del 2006 la
Cina ha organizzato un summit storico cui hanno preso parte
una cinquantina fra capi di Stato e di governo dell'Africa a
cui sono stati promessi aiuti finanziari ed assistenza
militare. È chiaro, conclude lo studio, che il Dragone oggi
non si muove più per esportare il comunismo internazionale
come succedeva ai tempi della Guerra Fredda, ma è alla
ricerca di risorse energetiche, di mercati che assorbano
merci a basso costo e di alleati, per aumentare la propria
sfera di influenza geopolitica.
Ed ecco
che dovrebbe temere l'Occidente dall'ascesa cinese. Pechino
cancella milioni di debiti ai paesi emergenti, sovvenziona
infrastrutture, invia medici e cooperanti nel terzo mondo
per un motivo che va al di là della mera, seppur redditizia,
cooperazione economica. La Cina, già titolare del diritto di
veto nel Consiglio di Sicurezza, si assicura in questo modo
(sostanzialmente “comprandoli”), un cospicuo pacchetto di
voti che possono tornare utili in tutte le organizzazioni
internazionali. Lo prova il fatto che i 47 paesi africani
(su un totale di 53) che hanno relazioni diplomatiche con
Pechino non riconoscono Taiwan, perché interrompere ogni
relazione diplomatica con Taipei è la precondizione posta
dalla Cina per diventare suoi partner commerciali. Una
richiesta che si sposa a fatica con il principio della “non
ingerenza” negli affari dei propri interlocutori su cui la
Repubblica Popolare dichiara (Libro bianco della politica
estera 2006) di basare la propria diplomazia. Ma la maschera
dello Stato non ingerente indossata dal regime per mostrarsi
pacifico e per differenziarsi dagli Usa non è credibile, sia
perché la politica estera di qualunque nazione “ingerente”
lo è per definizione, sia perché la non ingerenza del
Dragone riguarda esclusivamente gli abusi dei diritti umani.
Insomma, Pechino non vede, non sente e non giudica i crimini
contro l'umanità perché questo gli permette di intrattenere
relazioni anche con le più efferate dittature, come quella
del Sudan, a cui la Cina ha più volte evitato le sanzioni
per il genocidio del Darfur utilizzando il proprio veto
all'Onu.
Il
neocolonialismo cinese mostra in maniera spietata che il
modello di cooperazione euroatlantico è morto. L'Occidente
vincola l'elargizione di finanziamenti e di aiuti
all'implementazione di riforme liberali e al rispetto del
diritto, sperando così di esercitare una pressione
democratizzatrice sui paesi sottosviluppati. La Cina,
sovvenzionando qualsiasi tipo di regime politico, vanifica
questo sforzo. L'esempio angolano è illuminante. L'Angola
per oltre due anni non ha usufruito dei fondi dell'Unione
Europea che pure le erano necessari perché il governo non
soddisfaceva le condizioni di “buona condotta” poste da
Bruxelles. All'inizio del 2000, in cambio di ricche
concessioni petrolifere, i cinesi hanno chiuso tutti e due
gli occhi, costruito autostrade ed aeroporti e finanziato il
governo angolano, annientando il braccio di ferro in atto
con Bruxelles. Ben lontano dalla non ingerenza, la
cooperazione cinese rafforza i regimi e toglie
dall'isolamento i dittatori. É tempo che l'Occidente
recuperi il terreno perduto e ripensi il proprio ruolo e
modello di cooperazione. Oppure trovi la maniera di spingere
Pechino ad assumersi precise responsabilità quando opera
sulla scena internazionale.
(c)
Ideazione.com (2006)
Home
Page
Rivista | In
edicola | Arretrati
| Editoriali
| Feuilleton
| La biblioteca
di Babele | Ideazione
Daily
Emporion | Ultimo
numero | Arretrati
Fondazione | Home
Page | Osservatorio
sul Mezzogiorno | Osservatorio
sull'Energia | Convegni
| Libri
Network | Italiano
| Internazionale
Redazione | Chi
siamo | Contatti
| Abbonamenti|
L'archivio
di Ideazione.com 2001-2006