La grave crisi
politica che sta attraversando Israele seguita alla presentazione
del rapporto sulla gestione del conflitto in Libano della scorsa
estate, ha posto per ora in secondo piano la questione se oggi sia
possibile riannodare i fili del processo di pace. Se da un lato la
formazione del nuovo governo di unità nazionale tra Hamas ed Al
Fatah sembrerebbe infatti indicare una svolta in senso positivo
verso una ripresa del dialogo, dall’altro continuano però a
rimanere intatti gli interrogativi sulla effettiva volontà di aprire
un negoziato da parte del nuovo esecutivo palestinese. Il primo di
questi riguarda il fatto che Hamas continua tuttora a negare il
diritto all’esistenza d’Israele respingendo così una delle richieste
avanzate dal quartetto composto da Stati Uniti, Russia, Unione
Europea e Nazioni Unite che aveva posto il riconoscimento dello
Stato ebraico e la rinuncia ad ogni forma di violenza come
condizione per una ripresa del dialogo e degli aiuti economici
all’Anp. Ma le recenti dichiarazioni rilasciate dai vari esponenti
del movimento non inducono certo all’ottimismo riguardo ad una sua
svolta in senso moderato.
Le
affermazioni rilasciate in un’intervista poco prima della firma
dell’intesa raggiunta a La Mecca dal portavoce di Hamas, Ismail
Radwan, il quale ha dichiarato che “l’accordo non significa
riconoscimento di Israele e la posizione di Hamas è ben ferma nella
negazione di qualsiasi legittimità all’entità sionista” o le frasi
pronunciate dal premier palestinese Haniyah che dopo il
raggiungimento dell’accordo ha ribadito come “la resistenza in ogni
forma sia nel legittimo diritto del popolo palestinese”, fanno
intendere come il programma del movimento sia ben lontano dall’aver
accettato quanto richiesto dalla comunità internazionale per una sua
legittimazione come interlocutore in un eventuale negoziato di pace.
Lo stesso leader carismatico di Hamas Khaled Meshal, parlando poche
settimane fa a Damasco, ha dichiarato che il movimento avrebbe
continuato la resistenza non accettando alcun compromesso e
rivendicando l’intero territorio palestinese. Secondo diversi
osservatori, la stessa adesione di Hamas ad un esecutivo di unità
nazionale avrebbe come unico scopo quello di indebolire quanto più
possibile Al Fatah, prosciugando così il suo bacino elettorale. Di
tendenza laica, il partito di Arafat ed Abu Mazen ha visto la sua
popolarità andare progressivamente erodendosi sia per le accuse di
corruzione e malgoverno avanzategli da sempre più larghi settori
della popolazione che per l’abilità di Hamas ad offrire servizi
sociali per le fasce più deboli e nel dimostrarsi quale unico
difensore della causa palestinese. Includendola nel governo, Hamas
dimostrerebbe quindi come Al – Fatah non si opponga più
aprioristicamente alla linea del movimento, cosa che nel medio–lungo
periodo gli permetterebbe di inglobare sempre più esponenti della
vecchia dirigenza palestinese rimanendo così l’unica forza politica
sulla scena.
A quel punto,
senza un’opposizione interna e con un consenso assai più vasto di
quello attuale, per la comunità internazionale sarebbe difficile
continuare ad escludere Hamas dalle trattative. Ma a gettare
un’ombra su una ripresa dei negoziati è soprattutto l’esistenza di
rapporti sempre più evidenti tra il movimento ed il regime iraniano.
Legato alla Jihad islamica palestinese, il gruppo di tendenza
filoiraniana responsabile di diversi attentati compiuti in Israele
negli ultimi anni, il regime di Teheran è diventato anche uno dei
principali finanziatori di Hamas, alla luce del disegno del
presidente Ahmadinejad di far assumere in maniera sempre più decisa
all’Iran la guida di tutti i movimenti radicali islamici della
regione. E le pressioni di Riyadh per il raggiungimento di un
governo palestinese di unità nazionale sarebbero state attuate
proprio per ridare un nuovo slancio al ruolo dell’Arabia Saudita che
rischiava di venire messa in secondo piano dall’azione diplomatica
iraniana. La monarchia saudita, da sempre principale sostenitrice e
finanziatrice di Al Fatah, guarda con crescente preoccupazione alla
corsa al nucleare del regime iraniano e ai rischi che questa
potrebbe comportare per la stabilità regionale, temendo inoltre che
Teheran possa usare le consistenti minoranze sciite presenti sulla
costa orientale del paese e nel Bahrain a scopo destabilizzatorio.
Ed è in questo quadro che si inserisce la crisi del governo di Ehud Olmert. Fedele alla linea di Sharon che prevedeva un ritiro israeliano unilaterale dai territori, il premier aveva affermato che qualora non fosse stato possibile riprendere il dialogo con i palestinesi Israele si sarebbe progressivamente ritirato dagli insediamenti in Cisgiordania, inglobando solo quelli di maggior importanza per la sicurezza del paese. Lo scenario però rischia ora di cambiare radicalmente. Qualora il governo dovesse cadere e si andasse a nuove elezioni, quasi tutti prevedono un ritorno del conservatore Netanyahu, il quale fin dall’inizio aveva criticato il progetto di un disimpegno dalla Cisgiordania ed il ritiro dalla Striscia di Gaza ritenendoli una concessione ai terroristi. È chiaro quindi come un eventuale esecutivo di centrodestra non sarebbe assolutamente disposto ad aprire una trattativa con un esecutivo in cui siedono esponenti di Hamas. I critici sottolineano poi come la caotica situazione esistente a Gaza renda poco credibile l’autorità palestinese, in quanto dal ritiro israeliano non è riuscita in alcun modo a ristabilire l’ordine e la sicurezza soprattutto per gli scontri tra le sue diverse fazioni, senza contare il fatto che dall’agosto 2005 alla fine dello scorso anno dal territorio di Gaza sono stati lanciati contro Israele oltre mille missili Kassam. L’Europa, e l’Italia in particolare, hanno affermato come potrebbe essere controproducente continuare ad escludere Hamas dai negoziati vista la sua forza elettorale, auspicando che il processo di pace possa ripartire. Parole condivisibili. Ma alle quali dovrebbe essere aggiunto il principio secondo il quale per dialogare tutte le parti devono accettarsi e riconoscersi come interlocutori. Ovvero, proprio quello che Hamas non sembra oggi disposto a prendere in considerazione.
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