La situazione
attuale di Israele è oggi complessa, ma non tanto e non solo per le
questioni interne, legate alla conduzione della seconda guerra del
Libano, quella dell’estate 2006, all’impreparazione dell’esercito
nel condurre una guerra di terra, di tipo asimmetrico, ed alle
vicende del capo dello Stato, di Olmert e di altri esponenti del
governo israeliano, quanto per il nuovo nemico che è oggi alle sue
frontiere, le formazioni radicali islamiche. Da questo punto di
vista, la politica di Arafat non solo ha fatto ormai il suo tempo
per la corruzione, l’ambiguità, la doppiezza della sua
ultradecennale leadership, ma soprattutto perché il suo nazionalismo
non ha mai avuto nulla da spartire con il tradizionale nazionalismo
dei paesi arabi: si trattava, in realtà, di un nazionalismo di
facciata che aveva come centro motore mai esplicitamente dichiarato
l’idea e la pratica del jihad.
Arafat non accettò mai l’illusoria proposta di Gerusalemme della pace in cambio dei territori (e i fatti lo stanno a dimostrare), ma coltivò sempre il progetto della distruzione di Israele in nome di una patria palestinese come parte integrante della umma islamica. La storia di tutti i movimenti autenticamente nazionalistici dimostra che una vera leadership votata al raggiungimento dell’indipendenza nazionale agisce in base al concetto laico del compromesso, dell’accordo finale e definitivo. Arafat non giunse mai a questa conclusione, perché le sue convinzioni religiose superavano di gran lunga la pratica politica del compromesso; perciò, ingannò per decenni i suoi interlocutori occidentali e puntò sempre, nonostante i rovesci, al conseguimento del fine ultimo: la liberazione dell’ultimo lembo della terra dell’Islam dal controllo degli ebrei, “figli di porci e scimmie”.
Ma allora, nonostante il totale fallimento nel dare una patria al proprio popolo, possiamo dire, allo stato attuale dei fatti, che Arafat, con il suo pervicace rifiuto del compromesso, ha creato le condizioni perché gli islamisti di Hamas, di Hezbollah, sostenuti dalla Siria e soprattutto dall’Iran, possano oggi puntare al raggiungimento dello scopo finale, la distruzione di Israele e perciò la cacciata degli odiati ebrei dal sacro suolo dell’Islam? Possiamo affermare che la rivoluzione khomeinista ha oggi così largo seguito presso le masse arabe palestinesi perché il fallimento di Arafat non è stato, in realtà, tale? Arafat ha lasciato il suo popolo in una situazione disperata, ma la disperazione dei palestinesi è stato il brodo di coltura dell’estremismo islamico di matrice khomeinista. Anzi, in molte, drammatiche circostanze Arafat ha mostrato di preferire che il suo popolo cadesse nella più nera disperazione perché era consapevole che il compromesso avrebbe potuto dare una patria ai palestinesi, ma non avrebbe potuto condurre all’esito finale: il ricongiungimento della Palestina, dell’intera Palestina, all’Islam. Questo secondo obiettivo era, per Arafat, ben più importante del primo.
Così, oggi, Israele è circondato da orde di nemici che, in nome della religione, vogliono la sua distruzione. È una situazione ben più grave di quella del passato, perché l’odio religioso ha una capacità distruttiva non paragonabile alla forza di un movimento autenticamente nazionalista. Purtroppo, è impossibile dire che molte cancellerie europee non si rendano conto della gravità della situazione; eppure, si tarda a mettere in atto una vera politica di contrasto nei confronti dell’islamismo radicale che preme sulle frontiere ebraiche. Israele, sul campo di battaglia, non ha vinto né perso la guerra del Libano; l’ha persa nel momento in cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha varato la risoluzione 1701, una risoluzione che permette di fatto a Hezbollah di destabilizzare il legittimo governo di Beirut, di riarmarsi impunemente nel Sud del Libano e di preparare un secondo round contro Israele, mentre i soldati dell’Unifil passano il loro tempo ad osservare con il cannocchiale il panorama del paese dei cedri.
(c)
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