La
notizia dell’acquisizione di Endemol da parte di Mediaset potrà
forse aver colto di sprovvista alcuni sedicenti esperti di economia
(ma è stato davvero così, specialmente per chi abbia seguito con un
minimo di acume la vicenda Telecom-Telefonica?), ma non ha certo
sorpreso gli addetti ai lavori. L’integrazione tra contenuti e reti
è stata la carta privilegiata da giocare nella partita
internazionale dei mass media, almeno da dieci anni a questa parte;
molto più che la convergenza tra le varie reti, che – come dimostra
l’esperienza italiana – non ha coinciso con la spinta decisiva
all’innovazione e al profitto. Oltre a ciò, l’avvicinamento tra le
due imprese data indietro almeno ai risultati ottenuti con i primi
format acquistati dalle TV del Biscione, fino a realizzare in
alcuni casi vere e proprie società congiunte (è il caso di
MediaVivere, la società creata da Mediaset e Endemol per
produrre soap opera come “Vivere” e “CentoVetrine”, e più di
recente le fiction “Questa è la mia terra” e “Io e mamma”).
Insomma,
che fossero rose e sarebbero fiorite si era già capito da un
pezzo: semmai, a sorprendere è la meraviglia ostentata dai
responsabili del servizio televisivo pubblico, che si
interrogano ora sul rafforzamento del loro diretto
concorrente sull’opportunità di continuare ad acquistare
programmi (alcuni dei quali rappresentano i fiori
all’occhiello delle trasmissioni Rai, da “La prova del
cuoco” a “Affari tuoi”) da Endemol biscionizzata. Eppure, la
questione sembra mal posta: se si parla di libero mercato,
in cui gli attori in gioco operano liberamente, può capitare
anche questo, senza alcuno scandalo. Il presupposto,
naturalmente, è che si tratti di attori con la medesima
libertà di movimento, con la stessa missione e lo stesso
tipo di proposizione commerciale e di prodotto verso il
proprio pubblico. Ed è qui che emerge il vero vizio del
ragionamento: la Rai si definisce originariamente in quanto
TV di Stato, volta al servizio pubblico, ma questa identità
è stata messa in discussione a partire dalla rivoluzione
delle televisioni commerciali, fino alla situazione attuale,
in cui la televisione pubblica e quella privata sono di
fatto indistinguibili.
Le
incessanti lamentele sull’omologazione televisiva in regime
di duopolio fotografano almeno una realtà che di per sé non
avrebbe nulla di patologico, se non fosse che uno dei due
contendenti almeno in linea di principio dovrebbe essere su
un altro piano. Il dilemma, in altri termini, non è se la
RAI debba acquistare o meno le produzioni di Endemol, o
sostituirle con quelle di Ballandi o della Magnolia di
Giorgio Gori (che non è estranea al risiko mediatico, come
dimostrano i rapporti con il gruppo De Agostini). Il
problema è invece sempre lo stesso, quello di una
televisione che si pretende di Stato e allo stesso tempo
vuole funzionare come se fosse privata. Così come sempre la
stessa è la possibile soluzione: un’operazione di
privatizzazione limpida e meditata, che consenta ad almeno
due dei canali Rai di operare in maniera trasparente e senza
sensi di colpa sul mercato, confrontandosi alla pari con
concorrenti del calibro di Mediaset e Sky (e magari
intervenendo a sua volta in operazioni sul tipo di quella
Endemol); e, dall’altro lato, preservi una serie di attività
dedite al servizio pubblico - non solo attraverso l’etere,
ma sul digitale terrestre e satellitare, e tramite Internet
e la telefonia mobile, se questo servizio deve davvero
essere universale -; senza più inutili rimpianti per la
fiorente e lucrativa erba del vicino, che è e ha tutto il
diritto di essere più verde.
(c)
Ideazione.com (2006)
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