C’è un preciso momento,
nella storia contemporanea delle relazioni internazionali, in cui la
Cina passa dall’essere percepita come alleato strategico
dell’Occidente nella guerra contro il terrorismo a diventare lei
stessa il nemico numero uno delle democrazie. Un nemico più potente
della jihad perché potenzialmente in grado di sovvertire l’ordine
mondiale e creare un blocco di potere geoeconomico che detti le
nuove regole del mercato e della convivenza tra le nazioni. Per
scongiurare l’ascesa del Dragone e permettere all’Occidente di
mantenere una posizione di dominio all’interno della comunità
internazionale, Carlo Pelanda, editorialista, docente ed economista,
nel suo ultimo libro “La grande alleanza. L’integrazione globale
delle democrazie” edito da Franco Angeli, auspica appunto la
creazione di una forte alleanza tra i paesi democratici. Una nuova
costruzione politica all’interno della quale l’Europa è chiamata a
riscoprire la propria vocazione imperialista. E gli Stati Uniti
hanno una lezione da imparare.
Professor Pelanda, in
un’intervista rilasciata ad Emporion all’indomani dell’11
settembre lei auspicava la creazione di una grande alleanza
contro il fondamentalismo islamico in cui la Cina facesse
fronte unico con l’Occidente. Quando Pechino passa
dall’essere alleato all’essere nemico?
Quando si capisce che l’offensiva jihadista è pericolosa per
i colpi che può infliggere ma non costituisce un pericolo
sistemico. Nel 2001 sembrò che il grande califfato avesse
una maggiore chance di realizzarsi in tempi storici non
lunghissimi. Dieci, quindici anni al massimo. Allora i
cinesi venivano considerati degli alleati importanti perché
potevano fare quello che l’Occidente non poteva.
Ad esempio?
Condizionare il prezzo del petrolio.
Perché considera Pechino un
pericolo maggiore della Jihad per le democrazie?
L’emergere della Cina è pericoloso per fatti oggettivi, di
scala. Fatti che muovono le grandi dimensioni della storia.
La Cina è più pericolosa dello jihadismo perché ha la
capacità di modificare gli equilibri mondiali. Già oggi
Pechino spacca l’America tra chi vuole mantenere il criterio
finanziario di comando del pianeta e chi pragmaticamente
sostiene che sia meglio riconoscere la realtà ed allearsi
con i cinesi.
Quando si arriva a vedere con
chiarezza questo pericolo?
Nel momento stesso in cui l’amministrazione Clinton regalava
alla Cina l’accesso al mercato globale senza condizioni, il
Pentagono teorizzava che intorno al 2025 la Cina avrebbe
raggiunto una forza militare ed economica maggiore di quella
americana. Nel 2002 diventa evidente che l’America è ormai
troppo piccola per garantire da sola l’ordine mondiale. Ma
già prima, tutte le iniziative di politica estera avviate da
Clinton falliscono perché il presidente crede che la
superpotenza, semplicemente perché rimasta l’unica del
pianeta, possa governare il mondo. Allora come oggi manca la
consapevolezza del rapporto fra mezzi e fini. Bush scoprirà
sulla sua pelle di non avere i mezzi ed il consenso
internazionale sufficiente a mantenere una posizione
egemonica.
Cosa spinge i paesi
democratici a procedere verso l’integrazione che lei
auspica?
Le nazioni si muovono per interesse e oggi americani,
europei, russi, giapponesi e indiani hanno un interesse
latente a convergere, e in certe occasioni lo manifestano.
Quando la Germania si è sentita pressata da Putin ha cercato
la convergenza economica con gli Stati Uniti, proponendo di
unire i due mercati. Mentre l’America ha capito subito il
valore dell’India come bilanciamento della Cina, ha concesso
a Nuova Dheli il riarmo nucleare e promosso l’idea che
investire in India sia meglio che investire in Cina,
sabotando simbolicamente l’immagine di Pechino.
Come fanno a convergere in
base al principio di democrazia nazioni come la Russia, che
di democratico hanno ben poco? Non è piuttosto il nemico a
creare la missione?
Quando si muovono i blocchi della storia, a livello
geopolitico, valgono le dimensione della fisica. Cioè la
quantità e i rapporti di forza. Non si può essere troppo
eleganti. L’alleanza tra democrazie non serve a difendere le
democrazie ma a fornire un denominatore comune a questi
paesi per fare un’alleanza. Per quanto riguarda il nemico,
le nazioni tendono a reagire. Quando una si espande, come la
Cina di oggi, che deve conquistare il globo per rifornirsi
di energia, le altre sono interessate a bilanciarne il
potere. La Cina non è un nemico ideologico come lo fu
l’Unione Sovietica ma è un problema da contenere creando
qualcosa di più grande, e per essere più grande questo
blocco deve comprendere anche la Russia.
La Russia potrebbe scegliere
di allearsi con la Cina.
La Russia oggi collabora con la Cina perché vende grandi
sistemi poco raffinati ma robusti che vengono comprati solo
dai cinesi. E perché considera gli americani, che gli hanno
piazzato la difesa antimissile sotto casa e hanno
conquistato l’Asia centrale, poco affidabili. Ma Mosca sa
che una Cina che emerge punta alla Siberia, alla sua
energia, e ne è terrorizzata.
Il suo libro contiene anche
una critica all’America. La può formulare?
Io critico il modo in cui gli americani fanno impero.
L’America fa impero secondo un modello stellare: si pone al
centro e poi instaura relazioni bilaterali con i partner.
Crea degli accordi di scambio privilegiato ma non un’area di
libero scambio, non c’è fusione. Questo modello di impero
non vincola l’America, non la costringe a fare cedimenti di
sovranità e non è troppo gravoso economicamente. Ma produce
alleanze instabili. Per reggere il confronto con la Cina
serve invece creare un’alleanza molto stabile. E questa deve
basarsi sul modello europeo delle fusione economica.
L’imperialismo europeo è
meglio di quello americano?
Sì. Non a caso è stata Angela Merkel a chiedere a Bush di
stabilire delle regole comuni per il mercato europeo e
quello americano. Questo è un modo europeo di pensare perché
è un modo imperiale, e gli imperi hanno la preoccupazione di
essere stabili nel tempo. Bisogna convincere l’America a
cedere un poco di sovranità e a creare uno spazio economico
comune, perché nei prossimi trent’anni si decide chi governa
il mondo. L’Europa deve riprendere la propria cultura
imperiale, che peraltro non ha mai messo da parte. Sono
passate due generazioni da quando l’Europa è stata
sconfitta. Oggi comincia a riaffiorare un po’ di sano
imperialismo. Anche la sinistra parla dell’Europa come di
una “potenza etica”, la parola “potenza” testimonia che
anche nella sinistra esiste questa meravigliosa malattia
europea che è il senso occidentale del dominio e
dell’imperialismo. Qua c’è il cuore dell’Occidente, nella
capacità di governare per un’idea.
Ritiene dunque maturi i tempi
per voltare pagina e lasciarci alle spalle le guerre
mondiali e il periodo postbellico?
Bisogna trovare il modo per dichiarare la fine del periodo
di punizione seguito alla seconda guerra mondiale. E per
chiudere il conflitto fra l’America e l’Europa che si è
aperto alla fine di quella guerra, quando l’Europa è stata
costretta dagli Usa a mollare la presa sui suoi imperi.
Bisogna trovare una soluzione, dire che ormai ci siamo
perdonati e siamo legittimati a riprendere il comando del
pianeta.
Una volta preso il comando
l’Occidente cosa dovrebbe fare?
Salvaguardare il mercato globale, che favorisce le economie
più forti, e mantenerlo omogeneo e senza frammentazioni. La
Cina vuole costituire un blocco geoeconomico e geopolitico
che sia più grande degli altri. Ma questo progetto di Great
China produce un sistema multilaterale per blocchi, ognuno
chiuso e avverso all’altro, che sabota il mercato globale. E
i cinesi non capiscono che alla lunga questo si ritorce
anche contro i loro interessi.
(c)
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