La guerra
civile tra Hamas e Fatah che in questi giorni sta portando
l’Autorità Nazionale Palestinese al collasso non è iniziata con la
vittoria del movimento islamico alle elezioni legislative dello
scorso anno ma trae le sue origini da quanto avvenuto all’interno
del mondo politico palestinese dopo la firma degli accordi di pace
con Israele. Gran parte delle responsabilità ricadono su Arafat e la
gestione del potere da parte dei dirigenti di Fatah. Con un
sistema di governo autocratico e corrotto, l’amministrazione
palestinese si è infatti dimostrata incapace di rispondere alle
esigenze della popolazione che ha così finito per guardare ad Hamas
come l’unica forza in grado di assicurare quei servizi, come la
sanità e l’assistenza sociale, che l’Anp non è stata più in grado di
assicurare e di gestire. Ma il più grande errore della dirigenza
palestinese e dello stesso Arafat è stato quello di non aver
contrastato, ma anzi di aver indirettamente favorito, il
rafforzamento di Hamas e degli altri gruppi radicali islamici
presenti nei territori. Nel tentativo di recuperare il consenso
perduto, Arafat, durante il vertice di Camp David dell’estate di
sette anni fa che avrebbe dovuto sancire la nascita dello Stato
palestinese indipendente, assunse una posizione intransigente che
nei mesi seguenti, con l’esplodere della seconda Intifada, si
tradusse in un atteggiamento quantomeno tollerante nei confronti
delle azioni terroristiche condotte dai gruppi palestinesi più
radicali. La politica di Arafat ha finito però per favorire solo
l’ulteriore rafforzamento di Hamas e delle fazioni più
radicali senza, però, riuscire a far riguadagnare prestigio alla
dirigenza palestinese che agli occhi della popolazione è apparsa
invece sempre più screditata ed incapace.
La rigida politica israeliana nei confronti dei territori ha certamente contribuito ad inasprire la popolazione palestinese, ma non va dimenticato che Israele tra il 2001 ed il 2003 ha dovuto fronteggiare un’ondata di attacchi terroristici senza precedenti che hanno spinto l’opinione pubblica del paese su posizioni quanto mai critiche, se non apertamente ostili, verso qualsiasi apertura all’Anp. Se Arafat ed i dirigenti di Fatah avessero prima sottoscritto le proposte avanzate a Camp David e poi contrastato l’attività dei gruppi più radicali, oggi probabilmente Hamas disporrebbe di un seguito tra i palestinesi ma non avrebbe mai avuto la forza politica per arrivare al potere. In questo quadro si è andati avanti tra aperture e nuove crisi. Se la morte di Arafat e l’affermazione del moderato Abu Mazen alle presidenziali sembravano poter rappresentare una svolta capace di far ripartire il dialogo ed i negoziati di pace, il successo di Hamas alle legislative dello scorso anno ha invece confermato come ormai la leadership palestinese fosse passata nelle mani degli elementi più radicali. I violenti scontri scoppiati l’estate scorsa tra gli esponenti delle due fazioni dopo la decisione di Abu Mazen di indire un referendum, aspramente criticato dal premier Haniyah, in cui si prospettava la creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 hanno confermato l’impossibilità di sanare i contrasti tra i due schieramenti, contrasti ai quali non è riuscito a porre rimedio neanche l’accordo per la creazione di un governo di unità nazionale sottoscritto a febbraio in Arabia Saudita. Appariva evidente che quell’intesa serviva più per rilanciare il ruolo diplomatico di Riyadh che non a gettare le basi per un’effettiva cooperazione tra Hamas e Fatah.
Sugli scenari che si prospettano, le opinioni degli analisti divergono. In un editoriale apparso su Haaretz si faceva notare come Gaza, che dopo il ritiro di Israele sarebbe dovuta diventare un modello per l’autogoverno palestinese, si sia invece trasformata in una terra di nessuno, affermando inoltre che, essendo l’Anp ormai prossima al crollo, un ritorno dell’occupazione militare israeliana costituirebbe un’opzione guardata con favore anche dagli stessi civili palestinesi. Un intervento di Israele appare tuttavia quanto mai improbabile. L’esercito ha ricevuto l’ordine di mantenere un basso profilo ed un’eventuale azione militare presenterebbe non pochi rischi, e questo senza contare che attualmente il governo Olmert si trova in una posizione politica assai debole e quindi nell’impossibilità di assumersi il rischio di un intervento su larga scala all’interno di Gaza. La stessa proposta avanzata dal premier israeliano di dispiegare un contingente internazionale tra Gaza e l’Egitto confermerebbe l’intenzione di Gerusalemme di non intervenire direttamente nel conflitto, anche se molti in Israele guardano con scetticismo ad un coinvolgimento delle Nazioni Unite visto il non certo brillante precedente della missione Unifil in Libano. Al contrario il Jerusalem Post ritiene che lo scenario che si starebbe delineando, ovvero quello di una Striscia di Gaza sotto il controllo di Hamas e di una Cisgiordania ancora nelle mani di Fatah, possa paradossalmente rappresentare per Israele un’opportunità per rilanciare il negoziato con l’Anp. Concentrando la sua autorità in Cisgiordania, Abu Mazen potrebbe presentarsi come un valido interlocutore per gli israeliani, che proprio per le tensioni interne al governo palestinese non hanno mai avuto una personalità con cui dialogare. Resta però da vedere quanta forza abbia oggi Abu Mazen per proporsi in questo ruolo.
Sul piano internazionale la guerra civile palestinese lascia vincitori e vinti. Tra i primi vi è sicuramente l’Iran. Teheran, che già da tempo aveva stretto i legami con Hamas, vede oggi rafforzata la sua presenza sulla scena palestinese e all’interno del mondo arabo e questo mentre la comunità internazionale sta esaminando il dossier sul programma nucleare iraniano. Più sfumata è invece la posizione della Siria. Damasco si trova infatti davanti all’offerta di dialogo lanciata da Israele, ma allo stesso tempo deve fronteggiare le ricadute negative che potrebbero venire dal tribunale internazionale sull’assassinio di Rafiq Hariri istituito dall’Onu. Il regime siriano potrebbe però usare Hamas ed i gruppi palestinesi presenti in Libano quale strumento di pressione alla vigilia delle presidenziali libanesi. Tra i perdenti vi è invece l’Arabia Saudita. Il fallimento del governo di unità nazionale indebolisce la posizione e l’influenza saudita a tutto vantaggio di quella iraniana, che Riyadh aveva cercato di contrastare promuovendo l’accordo della Mecca tra le due fazioni. Ma anche l’Egitto si trova nella scomoda situazione di doversi confrontare con una Striscia di Gaza controllata da Hamas, i cui rapporti con i Fratelli Musulmani egiziani sono noti da tempo. Sullo sfondo, resta il fallimento dell’intera classe dirigente palestinese, distrutta non tanto dagli errori israeliani, ma dalla sua stessa incapacità e dalla sua stessa lotta per il potere.
(c)
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