Se glielo
avessero raccontato nel 1960, quando decise di trasferirsi ad Hang
Zhou per scampare alle alluvioni che sconvolgevano le campagne dello
Zhejiang, quello che sarebbe stato della sua vita, Lu Guanqiu di
certo non ci avrebbe creduto. E nemmeno ci avrebbero creduto i
poliziotti della città, che lo tenevano costantemente sotto
controllo soltanto perché aveva osato rinnegare le sue origini di
agricoltore, contravvenendo così a una delle regole non scritte ma
più osservate dalla società cinese, quella secondo cui i contadini
devono restare nei campi, e tutti gli altri nei rispettivi ambienti
di nascita. Ebbene, oggi Lu Guanqiu è uno degli uomini più ricchi
della Cina. È presidente dello Wangxiang Group, una multinazionale
di cui è anche il fondatore, che produce ricambi e parti d’auto
destinati a 40 Paesi del mondo, vanta clienti come Audi, Ford, GM,
Toyota ed entrate che, nel solo 2006, hanno superato i 31,3 bilioni
di Yuan (circa 3 miliardi di euro). Il signor Lu, come lo chiamano
rispettosamente i suoi dipendenti, è anche azionista di una trentina
di società internazionali che producono parti d'automobile. E ha
diversificato il suo business nei settori bancario, agricolo,
immobiliare, finanziario.
Con la
sua intraprendenza Lu ha aiutato a scrivere un nuovo
capitolo della storia del capitalismo cinese, quello
dell'impresa familiare e privata, sorta per volontà di un
piccolo gruppo di individui determinati ad avere successo
anche a costo di andare controcorrente, e uscire dal
circuito dell'economia pianificata. Che in Cina equivale a
fare una piccola rivoluzione. La storia di Lu la si potrebbe
anche leggere come il classico “American dream”, ma in salsa
cinese. O almeno così ama presentarla il protagonista, che
ripercorre volentieri le origini travagliate della sua
carriera, iniziata insieme alla moglie, e nella miseria più
nera, 38 anni fa. “Nel 1961 - racconta - avevo solo 19 anni
ma conoscevo già tutta l'amarezza che la vita può riservare.
Da tre anni io e i miei genitori soffrivamo la fame nelle
campagne dello Zhejiang [provincia orientale a Sud di
Shanghai, ndr.], le catastrofi naturali rovinavano semine e
raccolti, la situazione era tragica al punto che una
famiglia si poteva dire “felice” se tutti i suoi componenti
riuscivano a fare almeno un pasto al giorno. Così mi sono
trasferito nel capoluogo, Hang Zhou, per cercare lavoro.
Prima ho fatto il garzone in un negozio che riparava
biciclette. Poi ho provato a mettermi in proprio, ad aprire
la mia attività. E allora sono iniziate le più grandi
difficoltà”.
Tradotto dai pacati toni del cinese, quel “grandi
difficoltà”, indica l’ostruzionismo di un governo che
tollerava a malapena la libera iniziativa, specialmente in
economia, e ha costretto Lu a chiudere il suo negozio e
trasferirsi da un quartiere all’altro per ben sette volte.
Ma “i giovani devono imparare a salire sulla schiena del
dragone”, recita un antico detto mandarino. E Lu il suo
salto ormai l’aveva fatto, e una volta in ballo si sentiva
moralmente obbligato a tenere duro, a resistere ai soprusi,
come poi ha fatto, con grande determinazione, fino alla fine
degli anni Sessanta. “Nel 1969 - ricorda con un mezzo
sorriso - la legge ci è venuta incontro. Il governo di
Pechino ha autorizzato anche i contadini ad avviare
un’impresa di tipo industriale purché lo facessero in gruppo
e il loro business fosse in qualche modo collegato
all’agricoltura. Così insieme a mia moglie ed altri cinque
soci abbiamo aperto lo stabilimento di Wangxiang prima per
riparare i trattori, poi per costruirne delle parti.
L’investimento iniziale è stato di 3500 Yuan (350 euro), una
cifra da capogiro per quei tempi”. “Da allora - prosegue Lu
con un tono divertito - il mio curriculum è diventato
semplice. Ho iniziato a lavorare in questa fabbrica e non ho
più smesso. Oggi sono ancora qui”. Un percorso netto dalla
base alla vetta della piramide sociale ma non privo di
asperità come vuol farlo apparire il milionario.
Uno
degli ostacoli più grandi sulla via del successo era
rappresentato dal rigido sistema dell’economia pianificata.
Le aziende private, come Wangxiang, fino a tutti gli anni
Settanta erano escluse dai piani di produzione quinquennali.
Lo Stato non commissionava loro nulla, precludendogli grosse
fette del mercato nazionale. Un fattore che se inizialmente
ha complicato la vita di Lu, nel lungo periodo si è rivelato
una carta vincente. Non potendo vendere sul mercato
domestico, infatti, Wangxiang è stata una delle prime
fabbriche a rivolgersi alla clientela internazionale,
accumulando un’esperienza che si è rilevata preziosa quando
la Cina ha cominciato ad aprirsi al mondo. Ma il momento
della svolta, quello che ha permesso la conversione del
gruppo da piccola realtà locale a multinazionale è venuto
più tardi. Quando, negli anni Ottanta, l’industria ha
iniziato a produrre componentistica per automobili,
agganciando la propria crescita a quella di un settore,
quello dell’auto, che allora viveva una stagione di boom in
Occidente. E ancora oggi in Cina cresce molto rapidamente.
Una mossa azzeccata ma non risolutiva. Perché il problema di
come rimanere competitivi allo Wanxiang non hanno mai smesso
di porselo. E in un futuro non lontano farà passare le notti
insonni al nipote di Lu, che fa capolino dalla foto che il
nonno custodisce orgogliosamente nel portafoglio, erede
designato di tutto l’impero.
“Per
mantenere la competitività a fronte di paesi in cui la
manodopera costa meno che da noi, occorre puntare tutto
sull’innovazione e sul libero mercato. Il mercato non deve
essere imbrigliato per nessuna ragione. I problemi con cui
facciamo i conti, dall’aumento del prezzo delle materie
prime alla diminuzione del costo delle auto, sono sanabili
solo se si lascia che sia il mercato a determinare le regole
del business, l’ultima parola deve andare alla legge della
domanda e dell’offerta. I governi ne stiano fuori. Questo -
afferma serio Lu - è tutto quello che so. È tutto quello che
ho imparato”. Una difesa appassionata del liberismo che
suona sospetta in bocca a un cinese. Quasi surreale. Ma a
questo simpatico signore che parla con una forte inflessione
dialettale viene voglia di credere. La sua storia è troppo
bella e piena di speranza per essere guardata con cinismo.
Lu elogia il libero mercato e sorride sicuro. Sulla parete,
decine di foto lo ritraggono mentre e stringe la mano a
ogni, singolo leader politico che ha servito il governo
cinese negli ultimi trent’anni.
(c)
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