Nelle scorse
settimane la comunità internazionale ha assistito immobile alla
presa di potere di Hamas a Gaza. Eseguendo alla perfezione il piano
di ogni partito rivoluzionario totalitario, da quello comunista a
quello nazista, Hamas prima ha utilizzato i meccanismi
(pseudo)democratici conquistando i voti dei diseredati palestinesi e
investendo in scuole, ospedali e propaganda. Poi ha partecipato al
governo di unità nazionale con i rivali di Fatah indebolendoli con
omicidi mirati e accumulando armi e risorse. Infine al momento
opportuno ha attaccato sistematicamente i comandi militari di Fatah
a Gaza uccidendo e mettendo in fuga i rivali. Ora l’Anp di Abu Mazen
non conta più nulla nella striscia di terra tra Egitto, Israele e
Mediterraneo abitata da 1 milione e mezzo di palestinesi, ed i
leader di Hamas cantano vittoria.
Se la
strategia di Hamas è ormai diventata chiara per tutti,
tranne forse che per il governo italiano, ci si interroga
invece su quella di Abu Mazen, di Israele e degli Stati
Uniti. Fatah ed i suoi leader sembrano i grandi sconfitti
della breve guerra civile palestinese, tanto sul piano
militare che su quello del consenso popolare. Tuttavia
un’interessante analisi sul Washington Post di Martin Indyk,
ex ambasciatore americano in Israele, suggerisce l’idea che
all’Anp tale esito dello scontro non sia dispiaciuto.
Perché, infatti, quando è diventato chiaro che Hamas mirava
all’eliminazione degli avversari a Gaza, Fatah non ha
diretto e sostenuto la resistenza delle sue forze militari
nella striscia? Possibile che si sia trattato solo di
incapacità o di mancanza di coraggio da parte di una
leadership che è cresciuta per decenni nella lotta armata?
Secondo Indyk la concentrazione delle forze dell’Anp in
Cisgiordania quando Hamas preparava l’occupazione di Gaza,
prova che “Abu Mazen e Fatah hanno in effetti ceduto Gaza ad
Hamas mentre si tenevano la West Bank: Hamastan e
Fatahstine, una two-state solution in stile
palestinese".
Il
vantaggio per Abu Mazen è oggi evidente. Non deve più
dividere il potere con chi ha sempre voluto distruggerlo,
politicamente e fisicamente, ed infatti ha prontamente
nominato un governo di fedelissimi e un nuovo premier,
l’economista filo-occidentale
Salam Fayyad, che è la perfetta antitesi del suo
predecessore Haniyeh. Non deve più occuparsi della
disastrosa situazione sociale ed economica di Gaza che ora è
di esclusiva responsabilità di Hamas, isolata da Usa e Ue e
stretta tra il nemico israeliano e l’Egitto di Mubarak, poco
incline ormai a sostenere il fondamentalismo sciita. Espulsi
i pochi militanti di Hamas, Fatah ha invece il pieno
controllo della Cisgiordania e la governerà da sola con
l’appoggio, si spera, di Tel Aviv, Amman, Washington e
Bruxelles. Non è un caso che appena Abu Mazen ha formato il
nuovo governo senza Hamas, Stati Uniti ed Europa abbiano
sbloccato ingenti finanziamenti all’Anp, prima congelati
nell’inutile attesa che Haniyeh riconoscesse il diritto di
Israele ad esistere e gli accordi di pace già siglati.
Secondo l’International Herald Tribune del 20 giugno “tale
mossa vuole fornire un appoggio concreto al presidente Mazen
che ha nominato un governo di tecnici in sostituzione della
precedente amministrazione guidata da Hamas”.
Il
difficile obiettivo di lungo periodo per Abu Mazen, una
volta consolidato il controllo della West Bank e iniziata la
sua ricostruzione economica ed istituzionale con l’aiuto
occidentale, è giungere ad una pace tra Cisgiordania ed
Israele che fissi i confini e ottenga Gerusalemme est come
capitale del suo Stato palestinese. A quel punto gli stessi
abitanti di Gaza potranno facilmente paragonare quello che
avrà ottenuto Fatah per i loro cugini della West Bank, in
termini di sicurezza e di condizioni di vita, rispetto a
quello, si pensa ben poco, che potrà ottenere Hamas nella
striscia, e agire di conseguenza verso i loro governanti. La
speranza di Abu Mazen è dunque che la vittoria di Gaza sia
in realtà una vittoria di Pirro per la leadership di Hamas,
ora chiamata senza più alibi a confrontarsi con la dura
realtà del governo palestinese. Come si collocano Israele e
Stati Uniti di fronte a tale prospettiva? Dopo l’insuccesso
della guerra in Libano, Olmert ha tutto l’interesse ad un
avanzamento del processo di pace nella West Bank, e Barak
non è certo contrario ad una soluzione negoziale con l’Anp
che egli già offrì inutilmente ad Arafat ai tempi dei
negoziati di Camp David con Clinton. Considerando che Tel
Aviv controlla non solo un formidabile strumento militare
capace di colpire tutti i territori palestinesi, ma anche
gli approvvigionamenti di Gaza di quasi ogni bene di prima
necessità, a partire da acqua ed elettricità, si può
facilmente comprendere come sia in grado di attuare
politiche ben diverse verso due differenti interlocutori
palestinesi che, di fatto, si trova ora davanti.
Per
gli Stati Uniti invece il caso di Gaza è paradossale. Due
anni fa sostennero le prime elezioni libere palestinesi
nello sforzo di promuovere la democrazia in Medio Oriente, e
si trovarono al potere i fondamentalisti islamici. Dopo 18
mesi di boicottaggio del primo governo di Hamas e successivo
ambiguo sostegno al governo di unità nazionale, si
ritrovano, in pratica, un nuovo Stato canaglia sulle rive
del Mediterraneo, potenzialmente molto pericoloso per la sua
collusione con il terrorismo islamico ed ottimo strumento di
pressione in mano ai suoi finanziatori iraniani. A questo
punto restano due opzioni per il campo occidentale. “West
Bank First”, cioè isolamento assoluto di Hamas e appoggio a
tutti i livelli – diplomatico, economico e militare - ad Abu
Mazen, sperando che possa trasformare la Cisgiordania in un
modello di convivenza pacifica tra musulmani e israeliani
per il resto del Medio Oriente. Oppure “engagement” anche
con Hamas sperando che il negoziato a oltranza, e la
necessità per la popolazione di Gaza di avere rapporti
economici con i propri vicini e con la comunità
internazionale, spingano i fondamentalisti sciiti a
diventare più moderati. Tel Aviv e Washington sembrano
propendere più per la prima opzione. Secondo quanto
riportato dall’International Herald Tribune del 18 giugno
“Israele e Stati Uniti sembrano concordare su una politica
differente verso le due entità, sostenendo Fatah nella West
Bank e contenendo Hamas a Gaza”.
Molti
in Europa credono ancora nella seconda via, e sottolineano
come né Abu Mazen né il mondo arabo possono politicamente
permettersi di abbandonare i palestinesi di Gaza al loro
destino mentre si aiutano i cugini della Cisgiordania.
L’Arabia Saudita in particolare, principale sponsor con gli
accordi de La Mecca del precedente governo palestinese di
unità nazionale, preme perché Fatah e Hamas cerchino di
nuovo un accordo e la Palestina non sia divisa di fatto in
due Stati. Il rischio maggiore a questo punto è che non si
persegua con coerenza e decisione né l’una né l’altra
strategia, e si ottenga così al tempo stesso ad est una Anp
debole e incapace di negoziare la pace, e ad ovest una Hamas
finanziata dall’Iran e sempre più aggressiva ed
anti-occidentale. Se tale pessima eventualità si
verificasse, mentre oggi a Washington, Bruxelles e Tel Aviv
ci si chiede “come abbiamo perso Gaza?” tra pochi anni ci si
dovrà chiedere “come abbiamo perso la Cisgiordania?”.
(c)
Ideazione.com (2006)
Home
Page
Rivista | In
edicola | Arretrati
| Editoriali
| Feuilleton
| La biblioteca
di Babele | Ideazione
Daily
Emporion | Ultimo
numero | Arretrati
Fondazione | Home
Page | Osservatorio
sul Mezzogiorno | Osservatorio
sull'Energia | Convegni
| Libri
Network | Italiano
| Internazionale
Redazione | Chi
siamo | Contatti
| Abbonamenti|
L'archivio
di Ideazione.com 2001-2006