La tv italiana preferisce la sanità made in Usa
di Paola Liberace
[24 set 07]
Ma come mai,
se ci fa tanto schifo la sanità americana, restiamo appiccicati al
televisore per guardarcela in prima e pure in seconda serata? Come mai, se
al paragone il sistema sanitario italiano brilla, tanto che Michael Moore si
mette a far la corte al nostro ministro della Salute, e dichiara di
preferire il carcere di Guantanamo (un paradiso sanitario, roba da farsi
incarcerare immediatamente di propria spontanea volontà – almeno stando a
quel che racconta “Sicko”), noi ci accaniamo a importare serie televisive
ispirate dagli ospedali d’oltreoceano; e quando questo non è possibile,
cerchiamo almeno di realizzarne di nostre quanto più somiglianti possibile?
Con buona pace del grande (in senso letterale) cineasta, le fiction di
matrice sanitaria negli Usa mietono oceanici successi: basta guardare i
risultati di
Grey’s Anatomy (più di 25 milioni di
spettatori, 4 nomination ai Golden Globes e una vinta come “migliore serie
drammatica”, alla faccia di concorrenti come “Lost”) per rendersene conto. E
nonostante la Turco, il nostro piccolo schermo non trova di meglio che
importare massivamente le produzioni Usa in camice, bianco o verde che sia.
Sì, perchè quest’autunno - dopo i dottori di “ER” e i loro epigoni di
“Grey’s Anatomy” e
“Dr. House” - sulle emittenti italiane
è arrivato un infermiere, protagonista della serie “Saved”, le cui avventure
completano dal 12 settembre la serata “doc” del mercoledì sera su Italia
Uno. A dire il vero, il personaggio di Wyatt Cole è in parte costruito in
antitesi rispetto alla professione medica: è un autolesionista con il vizio
del gioco, che si getta anima e corpo nel suo mestiere per riscattarsi. Un
anti-eroe, insomma, che da un lato segna lo spostamento dell’attenzione dal
personale medico a quello paramedico – oggetto di scarsa considerazione
nelle precedenti fiction (tanto da attirare, nel caso di Grey’s Anatomy, le
proteste della categoria) -, dall’altro conferma la sterzata (già evidente
in House MD) verso protagonisti più simili a comuni mortali, con i loro
evidenti difetti e problemi, che a salvatori dell’umanità.
La stessa tendenza era già stata assorbita dalle nostre parti nella scorsa
stagione televisiva: per emulare in salsa nostrana il carattere
anticonvenzionale del Dr. House, infatti, alla fine dello scorso maggio fu
messa in piedi su Canale 5 una puntata pilota dal titolo
“Un
dottore quasi perfetto”. Un tentativo fortunatamente
destinato a un esito ben diverso da quello della serie statunitense, sul
quale ha probabilmente inciso il tradizionale marchio di fabbrica dello
sceneggiato nostrano, genialmente definito da Mariarosa Mancuso “un prodotto
per spettatori distratti, con messaggio educativo”. Ecco, si potrebbe
azzardare che la maniera italiana di concepire le produzioni tv differisce
da quella Usa almeno quanto il nostro sistema sanitario da quello americano:
nel primo caso, ci si preoccupa di più di non dispiacere a nessuno che di
piacere a qualcuno; nel secondo, si sta più attenti ad accontentare tutti,
che a funzionare davvero su qualcuno.
(c)
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