I Simpson sbarcano al cinema tra conferme e delusioni
di Giampiero Ricci
[27 set 07]
Il successo di
botteghino era già stato decretato ancora prima che la pellicola fosse
stampata. Un po’ per il rispetto che si deve nei confronti della più longeva
(18 anni) serie televisiva di cartoni animati della storia e tra un anno la
più longeva in assoluto di tutte le serie. Un po’ perché Matt Groening, il
disegnatore e creatore dei personaggi, Brooks e Jean, coloro che hanno
contribuito in modo significativo al successo della famiglia strampalata, si
erano sempre ostinati a ripetere che no, loro il film di Homer, Marge,
Bart, Lisa e Maggie, non lo avrebbero mai fatto perché non ne sentivano
proprio il bisogno. A meno che non fosse arrivata una grande idea. Ed in
effetti Matt Groening & C. sotto il profilo artistico di credito ne hanno e
ne meritano: il tratto straniante dei Simpson, in grado di raccontare già di
per se stesso un universo “giallastro” e irrimediabilmente perduto, ha
innovato drasticamente i charachters dell’animazione, lo stile
“cattivo” del narrato ha influito sulle scelte estetiche di una generazione
di cartoonists e non solo, contribuendo in modo significativo a
rompere il fronte dei difensori del politicamente corretto.
I Simpson sono stati a buon diritto gli antenati dei Griffin, ma anche di
South Park, oltre che dell’altra serie di Groening, Futurama. Tutte
animazioni quelle appena citate che hanno come minimo comune denominatore la
capacità di essere veri e propri buchi neri per le galassie di riferimenti
culturali popolari che il volto buono del collettivismo ha speso negli
ultimi dieci anni per rinverdire e forzare vecchie battaglie culturali come
il colpevolismo nei confronti dello stile di vita occidentale. Ma i Simpson
hanno fatto davvero arrabbiare tutti. G.W. Bush definì la serie “cultural
rot” (putrefazione culturale); l’approccio pletorico dei democratici ai
problemi del paese, a Springfield (il nome più utilizzato negli Usa per una
cittadina) è stato costantemente, messo alla berlina. Così nel film ti
aspetti qualcosa di caustico. Come si sa, vengono evidentemente presi di
punta gli eco-apocalittici. Homer inquina drammaticamente con il suo
maialino disgustoso Springfield finendo per causare una catastrofe ecologica
cui dovrà porre rimedio. Ma il film è tutto qui, risultando per essere
soprattutto una celebrazione della serie e poco più.
Non decolla, in primo luogo perché i personaggi si muovono per la maggior
parte del tempo “fuori zona”, in un’Alaska che non è il loro terreno,
circostanza questa alquanto singolare e disorientante per dei soggetti che
significano qualcosa proprio per il loro essere “confinati” nel loro mondo,
poi perché tredici persone messe insieme per scrivere una sceneggiatura non
possono che produrre una narrazione a scatti, alla fine slegata, quasi una
mega-puntata, non proprio quella grande idea venduta da Groening, Brooks e
Jean. Allora la domanda è: i Simpson sono ancora così attuali? A giudicare
dalla eco trasversale che percorre i media di tutto il mondo si direbbe di
sì. Certo il senso dei Simpson, con il passare degli anni e il successo di
serie d’animazione più fresche e attuali come quelle sopra citate, è andato
via via sfumando. Ma a ben guardare permane qualcosa di profondo che le
nostre società faticano a digerire e che la serie di Springfield ci sbatte
in faccia impietosamente: il definitivo sentenziarsi la fine della
“gioventù”.
Non è infatti Homer il vero protagonista, bensì Bart, che nel film va nudo
sullo skateboard, che ha un padre alcolista e con pulsioni omossessuali, che
poi alla fine non è per niente un ragazzo, come non sono per niente ragazzi
gli spettatori della serie. Allora forse non è neanche un paradosso, ma un
segno dei tempi, quell’edizione straordinaria con i Simpson di “Liberation”,
il quotidiano di Jean Paul Sartre. Forse è proprio Bart il vero e ultimo
prodotto dell’esistenzialismo nichilista. L’abisso che segue il vuoto
lasciato dall’inganno della politicizzazione del mondo giovanile. Con buona
pace di tanti.
(c)
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