Trattato di Lisbona, l'Europa batte un colpo
di Alessandro Marrone
[18 dic 07]
Il 13
dicembre, a Lisbona, i capi di Stato e di governo dei 27 paesi membri
dell’Ue hanno ratificato il Trattato di riforma delle istituzioni europee.
Il testo introduce novità significative, ed ora occorrerà verificare se c’è
la volontà politica di utilizzare gli strumenti a disposizione per far sì
che l’Europa possa difendere i suoi interessi e valori nell’arena mondiale.
I segnali in questo senso sono contrastanti, ma tutto sommato incoraggianti.
Il trattato di riforma nasce per superare lo stallo della Costituzione
europea, firmata a Roma nel 2004, e bocciata nei referendum francese e
olandese l’anno successivo. Rispetto al precedente tentativo abortito, il
nuovo testo ha abbandonato simboli quali l’inno, la bandiera, il nome stesso
di Costituzione, per rassicurare la crescente quota di popolazione scettica
sull’utilità dell’Unione Europea e soprattutto della retorica europeista
montata negli anni Novanta. Il trattato di riforma ha però mantenuto le più
importanti innovazioni istituzionali introdotte dal precedente testo. In
primo luogo, in seno al Consiglio europeo che rappresenta i governi degli
Stati membri, il voto a maggioranza qualificata sarà esteso a nuovi ambiti
sostituendo il principio dell’unanimità, e dal 2014 sarà sufficiente il
consenso del 55% degli Stati membri che rappresentino almeno il 65% della
popolazione dell'Unione per approvare una decisione. Viene inoltre istituito
il presidente del Consiglio europeo, eletto per due anni e mezzo dai governi
nazionali, che sostituisce l’attuale sistema di rotazione semestrale della
presidenza tra tutti gli stati membri. In secondo luogo, per quanto riguarda
la Commissione, viene ridotto il numero dei commissari e si introduce un
legame diretto tra l’elezione del presidente della Commissione e le elezioni
europee, ripartendo inoltre le materie tra Stati membri e Ue allo scopo di
chiarire i rispettivi ambiti di competenza.
A cavallo delle due istituzioni si pone la nuova figura di Alto
rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di
sicurezza: egli siederà sia in Commissione, di cui è di diritto il
vicepresidente, sia nel Consiglio da cui è eletto, e ciò dovrebbe
dare maggiore coerenza e unitarietà all’azione internazionale
dell’Unione. L’Alto rappresentante potrà contare anche su un proprio
corpo di funzionari e diplomatici, e sulla personalità giuridica
unica finalmente acquisita dall’Ue. Infine, il nuovo trattato
rafforza il ruolo del Parlamento europeo, unica istituzione eletta
direttamente dai cittadini, nel meccanismo decisionale, estendendo
la procedura di co-decisione. A fronte di tale rafforzamento delle
istituzioni di Bruxelles, i paesi euro-scettici guidati dalla Gran
Bretagna hanno ottenuto una lunga serie di clausole che permettono
ai singoli governi di restare fuori (il cosiddetto opting-out)
da molte politiche dell’Unione, evitando quindi sia di impegnarvi
risorse sia di dover applicare le decisioni prese in merito.
L’insieme di tali modifiche può sembrare piccola cosa rispetto allo
sforzo politico-diplomatico che ha richiesto nell’ultimo decennio,
tuttavia vanno considerate in un quadro più ampio: l’Ue associa 27
nazioni con diversi interessi e obiettivi politici, molte delle
quali decisamente restie a cedere una sovranità nazionale forgiata
durante i secoli, ed in quest’ottica il passaggio dal principio
dell’unanimità a quello della maggioranza qualificata e
l’istituzione del Presidente del consiglio europeo e dell’Alto
rappresentante assumono una certa importanza. Una importanza di
certo relativa, come quella di ogni altro strumento
tecnico-istituzionale, che rende possibile e più facile un certo
processo ma non è sufficiente a farlo progredire senza la volontà
dei maggiori attori politici.
Quanto alla volontà politica dell’Europa di incidere unitariamente
sui temi dell’agenda mondiale, quali ad esempio sicurezza,
globalizzazione e ambiente, il quadro prospettico è in chiaroscuro.
Un piccolo grande simbolo delle continue difficoltà dell’Unione è
rappresentato dall’assenza del primo ministro britannico, Gordon
Brown, alla cerimonia ufficiale di firma del Trattato svoltasi a
Lisbona. Nella coreografica cornice del monastero cinquecentesco di
Jeronimos spiccava l’unica assenza del rappresentante di Londra,
sostituito dal suo ministro degli Esteri Miliband. Lo staff di Brown
ha spiegato che il premier era già da tempo impegnato in
un’importante audizione presso il Parlamento di Westminster, ma è
evidente che si tratta di un problema di agenda facilmente
risolvibile se si vuole davvero presenziare alla cerimonia di firma
del più importante trattato europeo degli ultimi 15 anni. Nota
infatti l’International Herald Tribune del 14 dicembre che “la mossa
è vista dai suoi critici come un simbolo dell’ambivalenza del suo
paese verso l’Ue”. Probabilmente dando la priorità al parlamento
inglese rispetto ai governanti europei Brown ha voluto blandire i
sentimenti euro-scettici dell’opinione pubblica inglese, con il
duplice obiettivo di ottenere da un lato una ratifica parlamentare
del trattato senza passare per un referendum molto insidioso, e
dall’altro di guadagnare consenso in vista delle prossime elezioni
politiche nazionali.
Se da un lato cose come questa, o come la sterile diatriba sulla
cosiddetta commissione di saggi che dovrebbe riflettere sull’Europa
del 2020 ed i suoi confini, fanno vedere il bicchiere mezzo vuoto,
dall’altro vi sono importanti segnali che il bicchiere è anche mezzo
pieno. Lo stesso Consiglio europeo che ha firmato la Costituzione ha
deciso ufficialmente l’invio in Kosovo di una missione civile
nell’ambito della Pesd (Politica europea di sicurezza e difesa). I
circa 1.800 funzionari, poliziotti e doganieri si affiancheranno
alla missione militare della Nato, sostituendo quella dell’Onu che
supervisiona il governo locale dal 1999. Fallito anche l’ultimo
prolungamento del negoziato serbo-albanese sullo status della
regione, e col Consiglio di sicurezza dell’Onu bloccato
dall’opposizione russa alla “indipendenza supervisonata” del Kosovo
proposta dal piano Athisaari, la missione Ue rappresenta l’unica
speranza di evitare il riaprirsi del caos nei Balcani. Stretta tra
la volontà americana di riconoscere il Kosovo per porre fine al loro
impegno nell’area, e quella russa di mantenere il conflitto
congelato per indebolire l’Europa e dividerla dagli Stati Uniti, non
era scontato che l’Unione riuscisse a prendere una posizione comune
ed efficace. I grandi Stati europei, memori di come la divisione
della Cee sull’indipendenza della Croazia contribuì a scatenare le
guerre civili in Jugoslavia, hanno raggiunto un accordo sulla linea
Brown-Sarkozy decisa ad andare avanti nella stabilizzazione della
regione superando il veto russo. I piccoli Stati membri contrari
all’indipendenza della regione, come Cipro e Romania che temono che
il precedente costituito dal Kosovo fomenti i movimenti
secessionisti al loro interno, pur esprimendo dissenso
sull’obiettivo finale non hanno bloccato il processo. I meccanismi
della Pesd si sono ufficialmente messi in moto nella prima
importante missione sul campo. Con la decisione sul Kosovo, l’Europa
ha dunque battuto un colpo sulla scena mondiale, utilizzando il
vecchio tamburo offerto dall’attuale sistema istituzionale. Le nuove
istituzioni designate dal trattato appena ratificato offriranno
probabilmente tamburi e strumenti migliori, ma servirà in ogni caso
la volontà comune di trovare un accordo sulla politica estera e di
realizzarla assumendosi le proprie responsabilità.
(c)
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