Contrada, prima che sia troppo tardi
di Enrico Gagliardi
[10 gen 08]
Forse c’è ancora
tempo, forse c’è ancora una speranza, forse per Bruno Contrada questa volta
può esserci, invece di un giudice, un presidente, quello della Repubblica
che ha deciso, almeno così pare, di firmare un atto di grazia in grado di
mettere la parola fine ad un calvario durato più di due lustri. Quella data
ormai appartiene alla storia ma pesa come un macigno, quel 10 maggio scorso
in cui la Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 10 anni per
concorso esterno in associazione mafiosa, quel famigerato reato che nel
nostro codice penale sostanziale nemmeno esiste. Sì, perché in Italia è
possibile anche questo: essere accusati prima e condannati poi per
un’ipotesi delittuosa non scritta, non “legale” nel senso penale del
termine, non prevista cioè da una fonte normativa, come il principio di
tassatività solennemente prescrive, quel baluardo contro i possibili abusi
dello Stato, quell’argine garantista che nel nostro paese è stato scavalcato
da una giurisprudenza schizofrenica della Corte di Cassazione la quale ha
allargato le maglie di applicabilità di tale reato oltre i limiti della
costituzionalità più marcata. Un processo, quello ai danni del numero due
del Sisde, pieno di buchi, zone d’ombra, colmo di dichiarazioni
contraddittorie di pentiti, delinquenti patentati che lo stesso Contrada
aveva assicurato alla giustizia. Singolare davvero che in uno Stato di
diritto si dia più credito alle parole di mascalzoni piuttosto che ai fatti,
alle evidenze processuali ed anche agli assoluti attestati di stima
provenienti da chi con Bruno Contrada ha lavorato per anni.
Tutto è kafkiano in questa vicenda, fin dall’inizio, dalla
data dell’arresto: il 24 dicembre, la vigilia di Natale.
Un’ordinanza di custodia cautelare in carcere colpisce la
tranquillità di una famiglia che si stava preparando per
vivere serenamente le festività. Da quel momento inizia il
calvario, con ben 31 mesi di custodia cautelare (detto in
termini brutali, galera senza processo) e un processo che
sembra un incubo e che debilita, nello spirito e nella mente
Bruno Contrada. Fin qui i fatti di una storia che gli
addetti ai lavori conosco benissimo nella sua tragicità; ora
però proprio in questi giorni arriva una speranza, la
possibilità di un atto di clemenza che restituisca (nei
limiti del possibile, ovviamente) la serenità ad una
famiglia rovinata dalla giustizia ingiusta. Per una volta
Napolitano può sanare una ferita e ridare la libertà ad un
uomo che, gravemente malato e debilitato, si sta lentamente
spegnendo in un carcere militare. Le sue condizioni fisiche
sono considerate molto serie; per giorni ha rifiutato il
cibo non per protesta ma semplicemente perché avrebbe
bisogno, affetto com’è da una forma di diabete, di una
particolare dieta che ancora non gli è stata somministrata.
I magistrati hanno rigettato la richiesta di scarcerazione
proveniente dai legali di Bruno Contrada, l’hanno rigettata
(e questo è davvero indicativo) nonostante sia i periti di
parte che i medici dello stesso carcere dove è rinchiuso
avessero esplicitamente segnalato come le sue condizioni
fisiche non siano ad oggi compatibili con la detenzione.
Dispiace davvero constatare come ancora una volta la
magistratura non abbia risposto al vero significato che
della pena fornisce la nostra Carta fondamentale: non
strumento punitivo ma rieducativo.
Ora c’è solo da augurarsi che l’iter per il procedimento di
grazia arrivi il prima possibile al suo compimento: non c’è
tempo da perdere, Bruno Contrada è davvero allo stremo,
nonostante il suo spirito combattivo, nonostante quella
forza d’animo che solo la consapevolezza di innocenza può
dare. Dispiace anche che alcuni nomi illustri, parenti delle
vittime della mafia abbiano espresso giudizi troppo
frettolosi circa un provvedimento di grazia nei confronti di
questo uomo: fermo restando il rispetto doveroso, sacrale,
che si deve a chi ha l’onore di portare un determinato
cognome, si deve mettere in luce allo stesso tempo che tale
onore non fornisce automaticamente la patente a vita di
paladino antimafia su ogni argomento. Certi giudizi, proprio
perché pesanti andrebbero dati dopo aver letto le carte di
un processo pieno di buchi e dopo aver letto una sentenza
surreale. Nonostante lo stesso Contrada non abbia mai
chiesto un atto di clemenza (proprio perché si ritiene
innocente) bensì la revisione del processo, è importante
agire con la più assoluta celerità, ed in tal senso bene si
stanno comportando i familiari: non c’è un solo minuto da
perdere, prima di tutto la salute, la riabilitazione umana e
morale dell’uomo passa inevitabilmente da condizione di vita
dignitosa. Allo stato dei fatti risuonano sempre più
profetiche le parole di Giovanni Falcone che in
un’intervista denunciava come l’Italia da culla del diritto
si stesse trasformando sempre di più nella sua tomba.
(c)
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