Kenya, tra guerra civile e pax diplomatica
intervista ad Anna Bono di Elisa Borghi
[01 feb 08]
La mobilitazione diplomatica per risolvere la crisi del Kenya in queste ore è massima. Il segretario delle nazioni Unite Ban Ki-moon è a Nairobi, insieme al suo predecessore Kofi Annan per negoziare la pace tra il Presidente Mwai Kibaki e il capo dell'opposizione Raila Odinga e porre così fine ad un mese di scontri post-elettorali in cui sono morte oltre 800 persone e 300mila sono fuggite dal paese. Anche i leader delle altre nazioni africane si sono riuniti nella vicina Etiopia e da lì hanno lanciato un appello affinché si ponga fine ai disordini che stanno scompigliando una nazione considerata fra le più stabili e prospere dell'Africa. Ne parliamo con Anna Bono, africanista e docente dell’università di Torino, che in Kenya ha vissuto e lavorato come ricercatrice per dodici anni.
Professoressa, come nasce questa
crisi? Era prevedibile?
Questa crisi la si poteva prevedere dai sondaggi
preelettorali di novembre, che prospettavano un piccolissimo
scarto di voti tra i due candidati alla presidenza, Mwai
Kibaki e Raila Odinga. Lì c’erano già tutte le avvisaglie
degli scontri perché, conoscendo lo scenario africano, era
immaginabile che i candidati si sarebbero dati da fare per
influenzare i risultati e che ci sarebbero stati brogli. Ma
a far supporre guai in vista è stata anche una campagna
elettorale giocata sul fattore etnico-tribale, una carta
pericolosa che ha portato a ciascuno dei candidati i
consensi della propria etnia ed ha predisposto la
popolazione a reagire come poi è successo dopo la chiusura
dei seggi.
E’ possibile che il conflitto
etnico degeneri in guerra civile?
Il conflitto etnico capillare e diffuso purtroppo ha già
acquistato vita propria. Sin dal raggiungimento
dell’indipendenza, in Kenya non ci sono mai stati episodi di
violenza come quelli che hanno caratterizzato i paesi
vicini, come Somalia e Sudan. Tuttavia anche in Kenya è
sempre esistita una realtà di conflittualità etnica
endemica. Lo scontro tra lignaggi di varie tribù che
combattono per sottrarsi il bestiame o per il controllo di
terre e di punti d’acqua è all’ordine del giorno. Nella zona
dove oggi si combatte, da più di un anno è in corso un
conflitto che ha provocato 60mila sfollati e parecchie
decine di morti in seguito a una vertenza per la
distribuzione di terre coltivabili. In Kenya ci sono decine
di tribù che hanno contrasti più o meno frequenti ma c’è una
costante nelle violenze: le ostilità convertono sui kikuyu.
I kikuyu sono l’etnia più potente dal punto di vista
politico ed economico, sono stati protagonisti della guerra
di indipendenza e l’idea generale è che siano prepotenti,
minacciosi e pronti ad accaparrarsi tutto. Anche il
principale slum di Nairobi è diviso in due, da una parte
stanno i kikuyu, dall’altra le altre etnie. Questo rende la
situazione particolarmente preoccupante.
Il paese risente dell’instabilità
dell’area geografica in cui è posto?
Di sicuro risente di quello che sta succedendo in Somalia.
Da quando in Somalia si è formata la coalizione delle corti
islamiche legate al terrorismo internazionale in Kenya
penetrano terroristi e il governo deve agire per arrestarli.
Questo ha alzato il livello della tensione tra la
popolazione islamica e quella non islamica. Fra i
protagonisti della crisi attuale sono proprio le comunità
islamiche che hanno dato fiducia a Odinga per reazione
contro la politica di un governo ritenuto troppo
filo-occidentale. Prima delle elezioni si diceva che Odinga
avesse incontrato le comunità islamiche promettendo di
introdurre la sharia nell’ordinamento giudiziario del Kenya.
È ottimista riguardo a una
possibile soluzione diplomatica della crisi?
I protagonisti della crisi si sono incontrati e hanno fatto
delle affermazioni molto promettenti, ma questo non dà
automaticamente garanzie di una sospensione delle ostilità.
Si teme che i conflitti continuino perché gli episodi a cui
assistiamo oggi innestano un susseguirsi di reazioni di
vendetta. Tra le vittime recenti infatti ci sono molte delle
etnie colpite dai kikuyu. Può darsi anche che questa
situazione si interrompa con l’uso della mano forte. Mentre
i due protagonisti della crisi affermavano di voler
risolvere il conflitto, annunciavano anche di avere
autorizzato l’esercito e la polizia a fare fuoco per fermare
la violenza.
Quali cicatrice lascerà questo
periodo nella storia del paese?
Anche se da questo momento tutto si fermasse, quello che è
già successo avrà delle conseguenze enormi in un’economia
debole come quella del Kenya. E anche nel panorama sociale,
l’acutizzarsi della conflittualità etnica solleva grosse
preoccupazioni. A far presagire il peggio sono i soggetti
politici coinvolti. Kibaki, il presidente uscente, nei
cinque anni di legislatura non ha combattuto la corruzione,
come aveva promesso, né proposto una riforma costituzionale
credibile. Il paese rimane sostanzialmente non democratico.
Basti pensare che l’alta corte che potrebbe essere chiamata
a stabilire se le elezioni sono state corrette oppure no è
composta da giudici che quindici giorni prima del voto sono
stati nominati dall’ex presidente.
Come si inserisce questa crisi nel
contesto geografico limitrofo?
Nell’area del Corno d’Africa e dell’Africa orientale, Kenya
e Tanzania erano gli unici paesi abbastanza stabili, paesi
in cui non si combatteva e che avevano delle istituzioni di
riferimento. Tutti gli altri Stati dell’area sono in una
situazione critica. In Somalia da 17 anni non c’è un governo
e si combatte quotidianamente. In Etiopia c’è una crisi
politica latente ma importante perché alle elezioni di due
anni fa, quando per la prima volta hanno potuto presentarsi
partiti non di governo, una parte dei voti è andata
all’opposizione e questo risultato è stato respinto dal
presidente. Poi c’è il Sudan, con la crisi del Darfur, e il
Burundi che sta attraversando un periodo di transizione
infinito. Per non dire del Congo, dove la guerra nelle
regioni dell’Est non è ancora finita e dal 1998 sono morte
oltre 4 milioni di persone. Rimane l’Unganda, dove si sta
risolvendo il grosso conflitto del Nord ma manca una
democrazia effettiva e le difficoltà economiche e sociali
sono immense.
(c)
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