Nei vicoli ciechi della politica sperare è un dovere
di Domenico Mennitti
[06 feb 08]
La legislatura è
finita, tornate a votare. Dopo il disperato tentativo di Marini, anche
Napolitano ha gettato la spugna. Il capo dello Stato avrebbe voluto evitare
di compiere il gesto estremo dello scioglimento delle Camere per diverse
ragioni. La prima è che una iniziativa così radicale, assunta peraltro
quando ancora non si è compiuto un biennio, sottolinea la drammaticità della
situazione politica ed istituzionale nella quale è impantanato il paese.
Nessun presidente vorrebbe interrompere la legislatura, ma la decisione
assume la dimensione dell’angoscia se interviene a così breve tempo dalle
elezioni. Significa che il ricorso anticipato alle urne è una strada senza
sbocco, non si propone come possibilità di sciogliere i nodi di una
maggioranza ormai incapace di sostenere il governo. E, contemporaneamente,
pone interrogativi inquietanti per il futuro. Inoltre Napolitano, espresso
dal centrosinistra, non ha certamente gradito firmare l’atto di decesso
della coalizione che lo ha collocato sul gradino più alto della graduatoria
istituzionale; ha cercato con tenacia una via di fuga, facendo puntare i
riflettori su Marini e sperando che qualcosa accadesse. Non è accaduto
nulla, perché l’intero sistema politico è stato colto da una sorta di
impazzimento generale ed ha puntato alla fine. L’hanno invocata Berlusconi,
Fini, Bossi e in ultimo anche Casini: però non sono stati da meno, se non
nelle parole sicuramente nella sostanza, Veltroni, Bertinotti e Diliberto. I
primi sperano nella rivincita dopo i contrastati risultati di due anni fa; i
secondi, quelli della sinistra, sperano appunto di essere secondi. Cioè
sconfitti, ma liberi dall’incubo di dover seguire con apprensione ogni
votazione parlamentare, di mantenere in piedi un governo ostentatamente in
ginocchio.
E’ davvero paradossale questa situazione perché appare senza
speranza. L’unica a sopravvivere è quella che scaturisce
dall’ostinato ottimismo della politica, che riesce ad
immaginare nuovi scenari pure quando tutto sembra finito.
Nel 1994 fu Forza Italia ad introdurre una ventata di
rinnovamento, inventando il partito della libertà,
rivalutando la cultura liberale, proponendo le regole del
mercato in una società che aveva eretto lo Stato a
regolatore delle vicende economiche. Poi l’impatto con la
realtà fu difficilissimo ed il nuovo perse la spinta
incartandosi nel vecchio. Ora è il Partito Democratico che
richiama l’attenzione perché sembra voglia far prevalere uno
schema diverso da quello che ha prodotto la morta gora degli
ultimi due anni. I processi politici, come si sa,
determinano effetti sui poli opposti e contrari, nel senso
che le scelte di una parte procurano accelerazioni anche
nell’altra. E’ possibile perciò, anzi è auspicabile, che il
Partito Democratico tragga dalla sconfitta elettorale, che
si dà ormai per scontata, la forza di ergersi a sostenitore
di una cultura riformista di sinistra, non più ideologica e
condizionata dall’odio contro il nemico Berlusconi; che
dall’altra il Popolo della Libertà non abortisca prima
ancora di venire al mondo, cominci a tracciare ed a
percorrere la strade del cambiamento istituzionale, a
proporsi come interprete di una impostazione moderna,
liberale e conservatrice. Ed è probabile che non sia più “il
morto a tirare il vivo”, come dice D’Alema con il suo
linguaggio pittoresco ed efficace, ma che avvenga il
contrario, cioè che si metta in moto un processo che faccia
contare il consenso, per cui non possa più accadere che un
movimento che ottiene tre seggi diventi l’ago della bilancia
ed alla fine conti più di quello che ne guadagna duecento.
Accadrà? Basterà cambiare il sistema elettorale perché si
materializzi il principio che la democrazia si organizza
intorno al consenso e che il vento del cambiamento non gonfi
le vele della pirateria partitica? Francamente in questo
inverno delle regole, in quest’ora di malinconia che tiene
basso l’umore di tutti, sconfitti certi di oggi e probabili
vincitori di domani, sperare non è un peccato. Per i
protagonisti della vita nazionale, anzi, è un dovere. Per
respingere la tesi che ci definisce “mucillagine” tentiamo
ancora l’aggregazione in forza di validi programmi; prima di
rassegnarci ad essere “coriandoli” impegniamoci a restituire
vigore ai grandi poteri: delle idee, dei valori. Cambiare si
può, in politica si deve. E’ accaduto altrove, prima o poi
accadrà anche in Italia.
(c)
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