Uzbekistan: scontro
tra totalitarismi?
di Stefano Magni
[18 maggio 05]
Una battaglia fra due totalitarismi, fra islamismo e comunismo? È questo
ciò che ci attende in Uzbekistan? Questa è la tesi ufficiale del
presidente post-comunista Islam Karimov, ex dirigente sovietico che del
vecchio regime non ha cambiato nulla, né il metodo di governo, né gli
uomini, ma che ora può trovare nuova linfa vitale nella lotta contro
l’Islamismo dilagante. Il 13 maggio le sue truppe avevano sparato su una
folla di manifestanti nella città di Andijon, dopo che un gruppo armato
aveva dato l’assalto al carcere locale per liberare 23 imprenditori
sotto processo, accusati di avere contatti con il movimento islamista
Akramija. La conta dei morti è ancora imprecisa: un primo conteggio
parlava di 30 caduti, ma la stima è salita a 500 e c’è chi parla anche
di 750 vittime. Il 14 maggio, Karimov dichiarava che la sua azione era
legittima difesa da un complotto islamista, organizzato non solo dai
movimenti estremisti locali, ma anche da membri dell’ex regime talebano
in Afghanistan e Pakistan. E questa sembra essere anche la tesi del
neo-presidente del Kirgizistan, Kurmanbek Bakiev: “Ciò è accaduto – ha
dichiarato all’indomani del bagno di sangue ad Andijon – per colpa di
quelli del Movimento Islamico dell’Uzbekistan e del movimento Hizb ut
Tahrir”. Il timore del presidente kirghizo è comprensibile, considerando
che il pericolo dell’islamismo grava sul suo paese tanto quanto
sull’Uzbekistan. Stessa cosa dicasi per la reazione russa: a botta
calda, il ministro degli esteri Sergei Lavrov aveva liquidato la crisi
del vicino meridionale come “una questione interna” all’Uzbekistan, ma
il giorno dopo aveva dichiarato qualcosa di molto diverso: che la Russia
disponeva di informazioni di intelligence sulla partecipazione del
movimento islamico internazionale nello scoppio dell’insurrezione di
Andijon. Stando così le cose sembrerebbe proprio che lo scontro di
Andijon sia un ennesimo episodio del jihad globale scatenato dagli
islamisti contro la Russia e gli occidentali. Ma siamo sicuri?
Come i Russi in Cecenia, anche i governativi uzbeki si sono preoccupati,
prima di tutto, di allontanare i giornalisti dal campo di battaglia. Per
cui, in assenza quasi completa di prove e di testimonianze, è difficile
confermare la tesi ufficiale così come metterla in discussione. Quando
gli scontri avvennero, però, reporter indipendenti che erano sul posto
hanno fornito una gran quantità di prove contrarie alla tesi ufficiale
di Karimov. Tutti i testimoni concordano su un fatto: che le azioni del
13 maggio, ormai ribattezzato “il venerdì di sangue”, sono state due ben
distinte tra loro. In un primo tempo, un gruppo armato di 100 persone ha
dato l’assalto al carcere di Andijan per liberare i 23 imprenditori
sotto processo e tutti i prigionieri politici “arrestati dietro false
accuse”, stando alle dichiarazioni degli stessi insorti. In un secondo
momento una folla di civili è scesa in piazza con rivendicazioni
politiche, chiedendo le dimissioni del governo. È a questo punto che i
mezzi blindati dei governitivi hanno aperto il fuoco. La folla su cui le
truppe governative hanno sparato non portava striscioni jihadisti, non
urlava slogan religiosi, non aveva nemmeno l’aspetto della “massa
islamizzata”, che tante volte si è vista in azione dalla Palestina al
Pakistan, dalla Somalia all’Indonesia. Una testimone locale, Galina
Burkharbaeva, corrispondente dell’Institute for War and Peace Reporting,
parla di mezzi blindati che aprono il fuoco su una folla disarmata di
uomini, donne e bambini già in fuga. Per quanto riguarda il precedente
assalto al carcere, uno degli uomini che vi parteciparono, prima di
morire sotto il fuoco dei governativi, aveva rilasciato un’intervista al
corrispondente locale di Radio Free Europe, dichiarando di non avere
contatti con movimenti integralisti islamici e di aver imbracciato le
armi solo perché esasperato dai metodi repressivi impiegati dal regime.
Secondo i difensori dell’azione di forza del regime di Karimov, un
argomento forte è: se hanno dato l’assalto al carcere per liberare dei
terroristi islamici, allora vuol dire che la rivolta è per forza
islamica. Ma i 23 prigionieri oggetto della protesta, erano veramente
dei terroristi islamici? Erano accusati di questo, ma i loro parenti e i
loro sostenitori lo negano, affermando che le loro confessioni erano
state estorte con la tortura, proprio come ai tempi dell’Unione
Sovietica. Tra l’altro, l’accusa di terrorismo islamico è usata molto
spesso per arrestare oppositori e rivali del regime di Karimov, anche
perché in questo caso c’è il carcere preventivo, la perdita di quasi
tutti i diritti di difesa in sede processuale e un trattamento
carcerario durissimo. Molto peggio che a Guantanamo, se vogliamo fare
paragoni. Stando ai parenti dei 23 imprenditori processati, molti di
essi non erano nemmeno musulmani praticanti e non si sarebbero nemmeno
sognati di entrare a far parte di un movimento integralista. E quando
mai degli Islamisti, disposti anche al suicidio-omicidio, negano la loro
appartenenza religiosa e ideologica? Sarebbero stati incarcerati, non
perché islamici, ma perché imprenditori.
L’economia dell’Uzbekistan è
ancora prevalentemente pianificata dallo Stato e, quando lo Stato
finisce le sue risorse, oltre a raccogliere tasse, passa direttamente a
confiscare le imprese private, incarcerandone i proprietari. Non sarebbe
la prima volta che l’Uzbekistan nazionalizza imprese private. Proprio
negli ultimi mesi è diventato più forte il movimento di protesta degli
agricoltori a cui sono state statalizzate le terre. E le istanze dei
movimenti di protesta sorti negli ultimi anni sono soprattutto
anti-stataliste e non islamiche. Gli agricoltori, organizzati nel
Movimento degli Agricoltori Liberi, guidato da Nigora Hidoyatova,
chiedono la privatizzazione delle terre e la liberalizzazione
dell’agricoltura. Il movimento di protesta dei piccoli commercianti, che
nel settembre del 2004 erano scesi in piazza anche nella stessa città di
Andijon, mirava alla riapertura delle frontiere e all’abolizione delle
tariffe protezionistiche. Molti di questi movimenti, di stampo liberale,
sono confluiti nella protesta generale del “venerdì di sangue”.
C’è anche un altro particolare che mette in dubbio la natura islamica
dei moti del 13 maggio: gli islamisti non li hanno rivendicati. Anzi,
uno dei leader del movimento Hizb ut Tahrir, dal suo esilio a Londra, ha
negato ogni legame con l’insurrezione, sostenendo che il suo movimento
non ha mai voluto ricorrere a metodi violenti. E quando mai gli
islamisti si sono tirati indietro dopo attentati o disordini? La
tendenza dei movimenti islamici è quella, semmai, di mettersi in mostra
il più possibile, di rivendicare anche gli attentati altrui pur di
ottenere visibilità.
Niente è certo, ma i dubbi restano, anche perché la classe dirigente
sovietica ha sempre lanciato accuse facili per giustificare le proprie
azioni di forza. Qualcun altro, prima di Karimov, ha mosso i carri
armati giustificandosi ufficialmente con la necessità di fermare la
dilagante rivoluzione islamica nell’Asia Centrale: Brezhnev, prima di
invadere l’Afghanistan, nel dicembre del 1979. Dopo anni si è scoperto,
dai documenti emersi dal Cremlino, che quello era solo un pretesto per
occupare un paese non abbastanza fedele alle direttive di Mosca.
Rimane anche la possibilità che un vero e proprio pericolo islamico non
ci sia ancora in Uzbekistan, ma possa diventare concreto nel caso scoppi
una guerra civile. Così è avvenuto in Afghanistan durante la guerra
contro l’Unione Sovietica. E così è stato anche in Cecenia, dove gli
islamisti, che prima erano un’esigua minoranza, sono diventati i gruppi
militarmente più forti dopo anni di lotta contro la Russia. In guerra
prevale chi ha soldi, armi e contatti con l’estero: gli islamisti li
hanno tutti e tre. In caso di guerra in Uzbekistan potrebbero ricevere
tutto ciò di cui hanno bisogno dagli integralisti che operano in
Pakistan e in Afghanistan. E’ per questo che la Casa Bianca invita
ufficialmente alla calma entrambe le parti per scongiurare lo scoppio di
un conflitto. E in un’analisi scritta per conto della Heritage
Foundation, Ariel Cohen, esperto dell’area ex sovietica, indica la via
migliore per uscire dalla crisi: libere elezioni parlamentari
multipartitiche, libere elezioni presidenziali, liberalizzazione
dell’economia e maggiori garanzie dei diritti individuali. Se il regime
apre alla liberalizzazione ed evita lo scoppio di una guerra civile, può
scongiurare il pericolo dell’integralismo.
18 maggio 2005
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