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		Amnesty International dimentica l'Uzbekistandi Stefano Magni
 [01 giu 05]
 
 Amnesty International 2005: nel rapporto annuale, alla voce “Terrorismo, 
        antiterrorismo e Stato di diritto”, i due terzi del paragrafo sono 
        dedicati agli Stati Uniti, Abu Ghraib e Guantanamo. Ci sono solo sette 
        righe (sette di numero) in cui si spiega che “La giustificazione della 
        sicurezza, con cui i governi riducono e abusano dei diritti umani dietro 
        lo slogan della ‘guerra al terrorismo’, è particolarmente vistoso in un 
        certo numero di Paesi in Asia ed Europa”. E poi vengono nominati (ma si 
        tratta solo di accenni) i casi di Cina, India e Uzbekistan… per poi 
        tornare subito a parlar (male) degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti si 
        staranno anche attirando gli strali di tutta la stampa mondiale grazie 
        ad Abu Ghraib e a Guantanamo. Ma c’è da dire che le foto di Abu Ghraib 
        le abbiamo viste tutti, così come le immagini di Guantanamo. Per Abu 
        Ghraib è stata condotta un’inchiesta tutta americana, che ha portato 
        alla punizione dei responsabili: si può discutere sulla leggerezza delle 
        pene, ma per lo meno è stato seguito il principio in base al quale 
        abusare dei prigionieri è reato. A Guantanamo è passata la Croce Rossa, 
        il cui rapporto è stato pubblicato da tutti i grandi quotidiani.
 
 Ma nell’Uzbekistan, nel nome della guerra al terrorismo, il governo può 
        esser stato responsabile dell’uccisione di un numero di civili disarmati 
        che va dai cinquecento ai mille (a seconda delle stime) in meno di una 
        settimana. Testimoni oculari hanno dichiarato a Radio Free Europe di 
        aver contato almeno trentasette grandi fosse comuni nei pressi di 
        Andijon. Le testimonianze sono concordi e si sente raccontare sempre la 
        stessa storia: in piazza, ad Andijon, i mezzi blindati dell’esercito 
        hanno aperto il fuoco con le mitragliatrici su una folla disarmata che 
        chiedeva pensioni e salari più dignitosi. Ma noi occidentali non 
        sappiamo nulla di certo su quanto è avvenuto, perché il paese è 
        letteralmente blindato. In una dittatura post-sovietica il governo, in 
        questo caso il regime autoritario di Islam Karimov, non si fa scrupoli 
        ad attribuire l’etichetta di “islamista” ai suoi nemici per poi passare 
        al massacro. L’Uzbekistan non è una democrazia, in cui i giornalisti e 
        gli attivisti dei diritti umani possono protestare e far sentire la loro 
        voce in tutto il mondo.
 
 Anzi: in Uzbekistan, uno degli attivisti per i diritti umani che aveva 
        denunciato la repressione di Andijon, il presidente dell’organizzazione 
        Apeliatsia, è stato arrestato. Human Rights Watch ha protestato 
        formalmente chiedendone il rilascio, ma non si conosce ancora alcuna 
        risposta da parte del governo. Quello del presidente di Apeliatsia non è 
        nemmeno un caso unico: il governo passa subito alle vie di fatto contro 
        gli attivisti dei diritti umani, con intimidazioni della polizia e 
        arresti. Il problema è che pochi ne parlano e anche gli Stati vicini, 
        anche il Kirghizistan che si è appena liberato dal suo regime, 
        reagiscono con una tacita approvazione di quanto Karimov sta facendo al 
        suo popolo. Gli Uzbechi che sono riusciti a fuggire oltre la frontiera, 
        infatti, sono stati raccolti in campi nella provincia di Jalal Abad, 
        gestiti dai servizi segreti del Kirghizistan, dove, secondo un ispettore 
        di Human Rights Watch, sono trattati alla stregua di prigionieri: tenuti 
        nel più completo isolamento, in spazi assolutamente insufficienti e in 
        condizioni sanitarie molto precarie. Il governo kirghiso, nonostante una 
        certa pressione internazionale, non mostra alcuna intenzione di 
        mantenere i profughi nel proprio terrirorio. Il governatore locale è 
        stato chiaro: “Noi consideriamo gli stranieri alla stregua di ospiti, ma 
        solo per i primi tre giorni della loro permanenza”. E dopo?
 
 Interessante notare che i motivi di questa vera e propria catastrofe 
        umanitaria non sono certi. Nel senso che non solo, come appariva fin dai 
        primissimi giorni, è dubbio che vi fosse un reale pericolo di 
        integralismo islamico, ma tutte le prove e le testimonianze successive 
        al “venerdì di sangue”, portano a pensare il contrario: che quello della 
        rivolta islamica fosse solo un pretesto. La rivolta è scoppiata per 
        liberare ventitre imprenditori accusati di avere legami con un gruppo 
        integralista islamico? Bene, proprio uno di questi prigionieri politici, 
        Burkhoniddin Nuritdinov ha dichiarato ai microfoni di Radio Free Europe: 
        “In fatto di torture, le ho sperimentate tutte. Ho passato undici mesi 
        in carcere. Nei primi cinque non è stata formulata alcuna accusa nei 
        miei confronti. Si sono limitati a investigare sui documenti della mia 
        azienda. Non sono riusciti a trovare alcun crimine economico 
        nell’attività aziendale, così hanno preso dei volantini e dei pamphlet 
        di Akramiya (organizzazione integralista uzbeka, ndr) e ci hanno 
        incriminati per quelli”. Un altro degli ex prigionieri, Shamsiddin 
        Atamatov racconta di aver subito una pressione fortissima da parte delle 
        autorità carcerarie, finché non ha firmato la confessione che gli era 
        stata sottoposta, in cui “ammetteva” la sua collaborazione con Akramiya. 
        Forse però è meglio continuare a scandalizzarci, assieme ad Amnesty 
        International, per i crimini, veri o presunti, degli Stati Uniti. 
        Sicuramente è un lavoro più facile.
 
        
        01 giugno 2005
 stefano.magni@fastwebnet.it
 
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		Stefano Magni è il titolare del blog 
		
		
		
        Oggettivista
 
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