Parigi e Berlino: o si cambia o è la
fine
di Mario Seminerio*
[07 giu 05]
C’è qualcosa di grottescamente lugubre nella foto che immortala
l’abbraccio di Jacques Chirac e Gerhard Schroeder. Due uomini che si
abbracciano, quasi si avvinghiano, nel loro intendimento a rimarcare,
anche plasticamente, la saldezza ed indissolubilità di quella
costruzione europea che due loro predecessori (di ben altro spessore e
visione politica) hanno contribuito in modo determinante a creare. E’
l’abbraccio di due leader politici sconfessati, sconfitti, esausti, ma
che non vogliono arrendersi. E’ parte della psicologia umana,
soprattutto applicata alla politica, questa disarmante cecità a non
voler realizzare che è finita. E’ il rovescio della medaglia della
trance agonistica dell’homo politicus, quell’ammirevole, affascinante
animale sociale che non smette di lottare per le proprie idee, alte o
basse che siano, si chiami De Gasperi, Adenauer o Mastella Clemente da
Ceppaloni.
Chirac e Schroeder, dunque. L’uno è l’anatra azzoppata, l’altro sarebbe
addirittura l’anatra morta, per usare la definizione icastica del
Financial Times. L’uno è Monsieur le President di un paese caduto
vittima del proprio dirigismo, rapidamente trasformatosi in qualcosa di
molto simile ad un incubo orwelliano, con annessa psicopolizia del
libero pensiero. La Francia degli énarques, i civil servants prodotti
dalla Ecole Nationale d’Administration, che hanno sviluppato nei decenni
un grande progetto-paese, quel “fare sistema” di montezemoliana memoria
che ha portato ai discendenti di Asterix i treni ad alta velocità,
l’autosufficienza energetica, un sistema infrastrutturale e tecnologico
da fare invidia a tutto il mondo. Ma anche la Francia dei paysans
pesantemente sussidiati con fondi europei, dei José Bové che giocano a
fare i no-global e che invece sono portatori (e neanche troppo sani) di
quel protezionismo che sta seppellendo lo sviluppo economico di molti
paesi del Terzo Mondo, oltre a quello europeo. La Francia dei Lumi, la
Francia che cercava con ogni mezzo il melting-pot multiculturale e si è
trovata solo con un salad-bowl, il vaso di un’insalata irrancidita,
condita con autosegregazione ed odio etnico-religioso come non si vedeva
dai tempi della guerra d’Algeria. La Francia che fu di De Gaulle, che si
ritirò a vita privata un minuto dopo essere stato sconfitto in un
referendum popolare. La Francia che ora è di Jacques Chirac, che invoca
l’espansione europea fino alle Colonne d’Ercole ed oltre, ma poi va in
televisione a dire ai suoi “chers compatriotes” che la Francia sarà un
baluardo contro l’odiato liberismo ed il dumping sociale, quello
rappresentato dagli idraulici polacchi e dai camionisti turchi, i cui
paesi vorrebbe invece attaccare al carro napoleonico dell’Unione
Europea, pregandoli, con i modi da grande statista visionario che lo
caratterizzano, di non perdere nessuna buona occasione per tacere,
segnatamente quando ci sono di mezzo gli odiati cowboys.
Dall’altra parte c’è Gerhard Schroeder, l’uomo che dal settembre 2002
riesce a perdere tutte le elezioni regionali del proprio paese, un Re
Mida alla rovescia. L’uomo che ha deciso di schierarsi con Chirac contro
idee sovversive e destabilizzanti come quella di esportare libertà e
democrazia. L’uomo che guida un partito che ha deciso di compiere la
“grande traversata del deserto” e diventare modernamente centrista, un
New Labour sulle rive del Reno. Per fare ciò ha avviato l’ambizioso
progetto Agenda 2010, che ha finora smantellato iconoclasticamente tutte
le granitiche certezze di cui i tedeschi hanno goduto negli ultimi
decenni, non ultima quella, dal grande valore simbolico, del rimborso
delle spese del taxi preso per recarsi dal proprio medico curante.
L’uomo che guida un partito che è stato premiato con la scissione e
l’uscita del Napoleone della Saar, Oskar Lafontaine, e di altri
esponenti di quella “borghesia marxista” che tanta parte ha finora
recitato nella commedia della decadenza della Vecchia Europa; un
partito, la Spd, il cui presidente, Franz Muentefering, si felicita
della scissione, affermando che la Spd “è un partito di centro”, salvo
poi essere colto dalla “sindrome di Mahatir” e definire i fondi di
private equity, (quelli che acquisiscono imprese agonizzanti e le
rilanciano, dopo drammatiche e talvolta opinabili cure dimagranti), “uno
sciame di locuste”. Schroeder è il nano che poco ha imparato del metodo
di lavoro del suo predecessore, il gigante Helmut Kohl, che prima di
presentare un progetto o un’iniziativa comunitaria, si attaccava al
telefono per discuterne con i paesi “minori” della coalizione europea.
Oggi, Schroeder ha scelto di farsi irretire e di essere politicamente
succube di Jacques Chirac: sordo, cieco, selettivamente muto ed
amnesico, politicamente schizofrenico. Allarghiamo la Ue, ma non
veniteci a disturbare con i vostri piccoli salari e la vostra
vitalissima fame di lavorare, intraprendere e rischiare. Che ne sarà di
Chirac e Schroeder? Il verdetto all’imperitura saggezza degli antichi:
“Simul stabunt, simul cadent".
E in Italia? Qui la situazione è ancor più farsesca, se possibile. Si
fronteggiano due partiti: quello dell’euro-ottimismo di maniera, delle
giaculatorie sulle magnifiche sorti e progressive di una comunità
economica che sarebbe predestinata dalla Storia a divenire comunità
politica; quello che ha contribuito alla convergenza della lira
all’euro, sulla spinta della cultura emergenziale che da sempre è
“patrimonio” di un paese rigorosamente a-geometrico ed anti-cartesiano
ma che, in questa lotta contro il tempo e la deriva sudamericana, non ha
potuto o voluto agire per raggiungere una convergenza frutto non di
spremiture fiscali, bensì della liberalizzazione e liberazione delle
(residue) forze vive e vitali del paese. E quello dei nostalgici delle
svalutazioni competitive e della finanza pubblica dissipatrice di
denari e di moralità; quello che vive di espedienti contabili, una
tantum, concessioni balneari e levantinismo amorale gabellato come
liberismo. Chi vincerà, in Italia ed in Europa? La domanda è oziosa,
perché sottintende un’opzione che in realtà non c’è. O meglio, come
sostiene un europeista vero ed un autentico liberale e liberista, quale
è
Mario Monti, l’alternativa è tra
sviluppo e declino, tra slancio propulsivo e decadenza, tra retorica e
furbizie di una classe politica continentale (di cui quella italiana è la parte più malata) terribilmente inadeguata.
Come scrive Thomas Friedman, di ritorno
da un istruttivo ed illuminante viaggio a Bangalore, la capitale
mondiale dell’outsourcing, in quell’India (la più antica civiltà, la più
popolosa democrazia del pianeta) in cui il 70 per cento della
popolazione ha meno di 25 anni: in questa economia europea gli elettori
francesi ed europei difendono con le unghie e con i denti le loro 35 ore
di lavoro settimanale, mentre gli ingegneri indiani sarebbero anche
pronti a lavorare 35 ore al giorno. Le economie dell’Europa occidentale
sono avvinghiate (proprio come Chirac e Schroeder) alle loro sei
settimane di ferie pagate ed ai loro sussidi di disoccupazione spesso
generosi quanto l’occupazione stessa, e non si accorgono di essere
diventate sempre più intimamente integrate con l’Europa orientale,
l’India e la Cina. E non è questione di ideologie: Friedman narra che
alcune aziende globali operanti nel settore hi-tech avrebbero voluto
stabilire degli impianti di outsourcing nello stato indiano del Bengala
occidentale, il più antico governo comunista eletto rimasto oggi al
mondo, ma che rischiavano di non poterlo fare a causa della possibilità
di scioperi. Detto fatto, il governo comunista locale ha modificato la
legislazione sul diritto di sciopero, ricomprendendo tra i “servizi
essenziali” il settore dell’information technology.
Un piccolo consiglio da altrettanto piccoli ed insignificanti elettori e
cittadini europei, quali noi siamo, alle teste pensanti di Bruxelles,
Parigi, Roma, Berlino e dintorni: inizino subito i negoziati con la
Turchia ma per l’associazione in partnership economica, e lascino
perdere l’idea balzana di portare in un parlamento europeo, eletto con
il sistema proporzionale puro, i rappresentanti del più popoloso paese
eurasiatico. In altri termini: per combattere declino e decadenza si
torni all’idea primigenia di un’Europa del libero scambio. La
globalizzazione sta iniziando a mostrare solo ora il suo volto
“democratico”: il benessere non è qualcosa che si è acquisito una volta
per tutte, o un diritto di stirpe (come invece pretenderebbero il
razzismo sciovinistico francese e l’accidiosa opulenza europea), così
come la povertà non è l’esito espiatorio di una colpa biblica. Competere
e crescere economicamente vuol dire sopravvivere come civiltà. La
politique suivra.
06 giugno 2005
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Mario Seminerio è il titolare del blog
Phastidio
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