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				South Park Conservatives: la recensionedi Andrea Mancia
 da "Il 
				Giornale" del 18 maggio
 [18 mag 05]
 
 Sono rari, forse sempre più rari, i libri di saggistica politica 
				capaci di incunearsi in profondità nello spirito del tempo e, 
				contemporaneamente, cambiare il ritmo e i paradigmi del 
				dibattito culturale in corso. “South Park Conservatives”, 
				scritto da Brian C. Anderson e pubblicato recentemente negli 
				Stati Uniti da Regnery, appartiene senz’altro a questa ristretta 
				cerchia. Il libro, che come recita il sottotitolo racconta la 
				storia della “rivolta contro i pregiudizi liberal dei media”, si 
				è meritato la citazione dei maggiori quotidiani statunitensi, 
				qualche importante passaggio televisivo e, soprattutto, 
				l’incessante tam tam della blogosfera della rive droite, che ha 
				immediatamente intuito il potenziale esplosivo del saggio, 
				facendo da efficacissima cassa di risonanza al dibattito che 
				intorno ad esso si è sviluppato.
 
 Anderson, senior editor del trimestrale “City Journal” (la punta 
				di diamante del think-tank newyorkese Manhattan Institute), 
				lavora almeno da un paio d’anni intorno all’idea che sta alla 
				base di “South 
				Park Conservatives”. Con un lungo e profetico 
				articolo pubblicato nell’autunno del 2003, dal titolo “We 
				are not losing the culture wars anymore”, aveva 
				sostenuto la tesi secondo cui la destra americana era finalmente 
				riuscita a riequilibrare le sorti di una durissima guerra 
				culturale che negli ultimi decenni aveva incendiato il sistema 
				dei media.
 
 Intervistato all’inizio di quest’anno da
				
				Alessandro Gisotti per la rivista 
				Ideazione, Anderson sottolineava come l’inizio della 
				rimonta conservatrice fosse iniziata circa vent’anni fa, con 
				l’esplosione dei talk-show radiofonici conseguente 
				all’abolizione, da parte di Ronald Reagan, della fairness 
				doctrine. Questa sorta di par condicio all’americana aveva in 
				pratica imbavagliato il dibattito politico statunitense, 
				consegnandolo al monopolio politically correct dei grandi 
				network televisivi come Cbs, Abc e Nbc. “Se avevi un talk-show 
				conservatore in onda – raccontava Anderson nell’intervista – ne 
				dovevi trasmettere pure uno liberal, anche se quest’ultimo non 
				aveva alcun ascoltatore, come peraltro succedeva spesso”. Dopo 
				l’abolizione di questa falsa dottrina dell’imparzialità, però, 
				“gli ascoltatori hanno potuto decidere cosa volevano ascoltare. 
				E hanno scelto programmi radiofonici conservatori [...] Oggi, i 
				conduttori radiofonici di destra dominano il settore e sono 
				incredibilmente influenti. Basti pensare che un americano su 
				cinque afferma di informarsi prevalentemente attraverso 
				l’ascolto della radio. Altra tappa è stata la nascita di Fox 
				News nel 1996 e, poi, i blog”.
 
 Il libro di Anderson ripercorre, senza mai annoiare, questi 20 
				anni di storia del sistema della comunicazione negli Stati 
				Uniti. Parte dalla rivolta radiofonica di Rush Limbaugh e delle 
				miriadi di speaker radiofonici che a lui si sono ispirati nel 
				corso degli anni. Poi analizza l’ascesa impetuosa della Fox News 
				nel mondo della televisione all news via cavo, che ormai vede il 
				canale di Rupert Murdoch dominare incontrastato su tutta la 
				concorrenza, Cnn compresa. Molto documentata è anche l’indagine 
				sull’impatto di Internet (e ultimamente del fenomeno-blog) nella 
				diffusione delle idee conservatrici e nell’organizzazione sul 
				territorio degli attivisti vicini al partito repubblicano. 
				Anderson, infine, esplora l’ultima frontiera del conflitto: il 
				lento disgregarsi della supremazia liberal nel mondo delle 
				università.
 
              Si tratta di una 
				cavalcata avvincente, ed illuminante, impreziosita da un 
				sensazionale capitolo (disponibile gratuitamente online grazie a 
				Regnery Publishing) sulla riscossa conservatrice nel mondo 
				dell’entertainment. Capitolo che spiega il titolo del libro 
				dedicato a “South Park”, l’irriverente serie animata creata 
				ormai nove anni fa da Trey Parker e Matt Stone e ingiustamente 
				trascurata in Italia (dopo le prime quattro stagioni su Italia 
				Uno, è finito sul satellite dove viene massacrato da un 
				doppiaggio orribile). 
 Con i suoi durissimi attacchi al radicalismo ambientalista, 
				all’anti-razzismo di maniera e al pacifismo a senso unico, South 
				Park aveva attirato già qualche anno fa l’attenzione della 
				destra americana. Nel 2001 il giornalista inglese trapiantato 
				negli Usa, Andrew Sullivan, chè è anche uno dei blogger 
				conservatori più celebrati, aveva definito South Park come “il 
				miglior antidoto possibile alla cultura del politically 
				correct”. E nel 2002
				
				Stephen W. Stanton, su Tech Central 
				Station, aveva introdotto il concetto di “South Park 
				Republicans” per definire una nuova generazione di elettori 
				repubblican, o comunque non democratici, che “senza preoccuparsi 
				troppo della decadenza morale della nazione, credono fermamente 
				nella libertà, nella responsabilità personale, nel governo 
				limitato e nel libero mercato”.
 
 Anche Anderson prende South Park come esempio più macroscopico 
				di tutta una serie di show televisivi, trasmessi principalmente 
				via cavo, che si prendono gioco della vulgata progressista più 
				stantia. Dopo l’11 settembre, con programmi comici come quelli 
				di Dennis Miller e Colin Quinn, la cable-tv è riuscita 
				finalmente a riequilibrare il piattume sinistro che da decenni 
				affligge la stragrande maggioranza dell’entertainment prodotto 
				dai network. Non siamo sempre di fronte a comicità di destra, 
				almeno in senso stretto, quanto piuttosto ad un moto spontaneo 
				di ribellione nei confronti di uno sbilanciamento verso 
				l’estrema sinistra dell’intrattenimento tradizionale. Una 
				ribellione che cammina soprattutto sulle gambe delle nuove 
				generazioni. E che rappresenta un segnale speranza anche per 
				chi, vivendo sull’altra sponda dell’Atlantico, è costretto a 
				sorbirsi le scivolate no-global di MTV piuttosto che le 
				avventure politicamente scorrette di un gruppetto di ragazzini 
				del Colorado innamorati del capitalismo e disgustati dalla 
				sinistra alla Michael Moore.
 
              
				da "Il 
				Giornale" del 18/05/2005 
              
				18 maggio 2005 
				* 
				Andrea Mancia, caporedattore di Ideazione,è il titolare del blog 
				The Right Nation
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