Contro l'Onu: la “no man’s land” delle Nazioni Unite
di Pierluigi Mennitti
[04 lug 05]

La storia è nota. In una zolla di Bosnia dimenticata da Dio e dal mondo due soldati, Ciki e Nino, condividono la surreale condizione di attendere dall’Onu la propria salvezza. Sono intrappolati in una trincea, nella terra di nessuno contesa da due delle bande che negli splendidi anni Novanta si sono disputate brandelli di Medioevo nella macelleria balcanica. Ciki e Nino, uno bosniaco l’altro serbo, ruotano attorno a un bunker dimenticato, in quello spazio vuoto che Arturo Pérez-Reverte, quando faceva l’inviato di guerra invece che lo scrittore di best seller, chiamava territorio comanche.

Girano attorno a una mina innescata dal compagno d’armi di uno dei due. Lui non si può muovere, loro neppure. Non resta che l’Onu. Facile a dirsi. Il braccio militare che opera nei Balcani, astruso sin dalla sigla – l’Unprofor – si muove con i suoi carri armati riverniciati di fresco, le sue insegne ben lucidate, i suoi soldatini educatamente addestrati a chieder permesso e a farsi sfottere dalla teppaglia serba o bosniaca, i suoi ufficiali indecisi a tutto, i suoi generali chiusi negli Headquarters con aria condizionata, computer ronzanti e segretarie scosciate.

Da questa sceneggiatura il regista bosniaco Danis Tanovic ci ha ricavato un film di successo, No man’s land, la terra di nessuno, che s’è guadagnato un po’ di premi in giro per festival cinematografici (un Oscar e un Golden Globe ad Hollywood, una Palma d’oro a Cannes). Ma la sceneggiatura avrebbe potuto essere tratta anche da un libro coraggioso e brillante, uscito da un paio di mesi per i tipi della Lindau e scritto da Christian Rocca, inviato speciale del Foglio, profondo conoscitore dei pensatoi statunitensi dove s’immaginano gli scenari futuri della politica mondiale e, da qualche numero, collaboratore di punta anche di Ideazione. Il libro è sull’Onu. Anzi, siccome tra i pregi di Rocca c’è quello di dire le cose senza perifrasi, senza giri di parole, è un libro contro l’Onu. Fin dal titolo.

La certificazione di inutilità, tuttavia, Rocca l’affida al segretario del palazzo di vetro Kofi Annan che in una dichiarazione sconsolata dello scorso gennaio diceva: «Dai tempi dell’Olocausto, con grande ignominia, il mondo ha fallito più di una volta nel prevenire o nel porre fine a dei genocidi, per esempio in Cambogia, in Ruanda e nell’ex Jugoslavia». Questa frase campeggia all’inizio del libro, assieme a un’altra dichiarazione che nello stesso periodo aveva rilasciato il segretario di Stato americano Condoleezza Rice sull’idea di costituire una comunità delle democrazie: fallimento dell’Onu da un lato, Community of Democracies dall’altro, sono i due poli di analisi del libro su cui si misura la sicurezza internazionale nell’era della globalizzazione e del terrorismo islamista, degli Stati totalitari che monopolizzano l’attività del palazzo di vetro e delle democrazie europee timorose di fronte alle sfide del nuovo secolo.

L’autore dimostra, con dati di fatto, perché l’Onu è fallita tradendo le aspettative dei padri fondatori. Messe in fila le crisi internazionali dal dopoguerra ad oggi, sostiene Rocca, si possono contare sulle dita di una mano quelle risolte dal ruolo propositivo dell’organizzazione: la Corea negli anni ’50, la crisi del Golfo del 1991 e quella di Haiti nel 1994. Ma nel caso coreano ci fu il boicottaggio del Consiglio di sicurezza da parte dei sovietici e nella guerra del Golfo l’Onu impedì alla grande coalizione creata da Bush senior di utilizzare la propria bandiera. E messi in fila i segretari generali, non ce n’è uno che abbia evitato un fallimento e c’è più di qualcuno la cui fedina penale era, perlomeno, imbarazzante. Il caso più clamoroso? Per Rocca nessun dubbio, quello dell’austriaco Kurt Waldheim, eletto nel 1971 per due mandati e ricattato dai sovietici per il suo passato nazista, di cui solo i loro servizi segreti erano al corrente. L’autore descrive come l’azione di Waldheim favorì le strategie della Russia comunista e mise la sordina alle proteste per la violazione dei diritti umani nei paesi est-europei. La nostalgia per il nazismo si riaffacciò in due occasioni: sotto la sua guida, l’Onu approvò la risoluzione che giudicava razzista il sionismo mentre «nel 1973, in visita al museo dell’Olocausto di Yad Vashem, rifiutò di coprirsi il capo con un cappello o con la kippà» .

Lucida e coerente l’analisi del contesto storico. Creata alla fine della seconda guerra mondiale, in un clima internazionale subito sprofondato nel confronto della guerra fredda, l’Onu è sopravvissuta grazie ai veti del Consiglio di sicurezza. Non decideva, dunque risultava essere funzionale alla salvaguardia di uno status quo che legittimava azioni all’interno delle rispettive aree d’influenza delle due superpotenze. Nei casi di conflitti in altre parti del mondo, l’Onu ha evidenziato il vuoto d’azione confermando la propria inefficacia. Quando sono cambiate le coordinate internazionali con la caduta dei regimi comunisti nell’Europa centro-orientale, l’inefficacia è diventata dannosa e il vuoto dell’Onu è stato riempito dall’azione degli Stati che di quell’organizzazione fanno parte. In particolare dagli Stati totalitari che ne hanno compreso i meccanismi imperfetti e li hanno forzati con l’obiettivo di dettarne l’agenda. Quel che è accaduto negli ultimi decenni a Israele testimonia la crescente influenza, tra gli Stati totalitari, di quelli arabi.

Il 2005 segna il sessantesimo anno dalla nascita dell’Onu. E anche il decimo anniversario del massacro di Srebrenica, nella ex Jugoslavia, quando i caschi blu olandesi dell’Onu non impedirono ai cetnici serbi di macellare settemila inermi bosniaci musulmani. Il palazzo di vetro non è riformabile e in tanti ballano attorno al malato in un’interessata danza di accanimento terapeutico. Christian Rocca ci spiega perché dobbiamo staccare la spina senza rimpianti e pensare a qualcosa di nuovo.

04 luglio 2005


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