Le radici cristiane della Chiesa
di Franco Oliva
da
Ideazione, maggio-giugno 2005
Tre settimane drammatiche per il mondo dell’informazione. Da quando, il
primo aprile scorso, le condizioni di Giovanni Paolo II si erano
aggravate ed era iniziata, implacabile e inarrestabile, l’agonia del
grande Pontefice, i media vecchi e nuovi – giornali, radio e tv, siti
web, blog – sono diventati a tempo pieno instancabili fucine di sottili,
dottissime discussioni sulla teologia, sulla filosofia, sulla sociologia
e sulla politica della Chiesa cattolica. Prima sul bilancio del lungo
pontificato di Papa Wojtyla, quindi nei pronostici pre-Conclave e
finalmente nelle valutazioni e nei vaticini sul nuovo Pontefice,
Benedetto XVI. Sapevamo che quando parlano di calcio gli italiani si
trasformano in un popolo di allenatori e selezionatori e sognano tutti
un posticino sul ring del “processo” di Biscardi. Ora abbiamo scoperto
che la loro seconda passione è quella di essere teologi, filosofi o
almeno vaticanisti di complemento e di sedere nel salotto di Vespa o
nell’arena di Ballarò o, se proprio tutto va male, nel tinello di
Cucuzza. È meglio aspettare per i verdetti. Lo stesso implacabile nemico
di Joseph Ratzinger, il teologo Hans Kung, gli ha concesso i cento
giorni di rigore prima di giudicarlo, come si fa con ogni governicchio
che si appresta a governare. «Dopo vedremo: chissà, potrebbe verificarsi
un piccolo miracolo», ha detto con sarcasmo l’icona del dissenso, il
portavoce del progressismo militante, l’antipapista a servizio (e
cachet) permanente. Benedetto XVI è avvisato.
Per ora, aspettiamo che si esaurisca la caccia alle differenze e alle
somiglianze tra il vecchio e il nuovo Papa, per creare un’immagine buona
per tutti gli usi. Quando si comincerà a fare i conti con il fatto che
il mondo ha perso un grande protagonista e ne ha, con ogni probabilità,
acquistato un altro destinato a segnare la storia di questo inizio
millennio? Il tentativo è di contrapporre il Papa buono, quello ormai
santificato negli incredibili indimenticabili giorni di inizio aprile,
con il suo successore. Eugenio Scalfari, l’autoproclamato gran sacerdote
dell’ortodossia illuministica italiana, su La Repubblica, addirittura
definisce Giovanni Paolo II «un prete contadino con un concetto arcaico
della religione»: meno male che «lo riscattava agli occhi dei non
credenti l’autenticità e la spontaneità delle sue movenze, così poco
teologiche e così radicate invece nel vissuto delle sue esperienze». In
queste parole si annusa l’acre e astioso fumo prodotto dal falò che
dovrebbe distruggere anche le tracce dell’immensa produzione di volumi
di filosofia teoretica e morale, di scritti letterari e poetici, di
encicliche, lettere apostoliche, messaggi, omelie, discorsi del poeta,
drammaturgo, professore, sacerdote, vescovo, Pontefice Karol Wojtyla.
Nell’attesa degli eventi chiarificatori, dunque, è meglio in effetti
fermarsi per ora agli inizi dei due Pontificati, facendo l’unica
comparazione parallela possibile: è un atto di umiltà, ma anche di
prudenza, perché nessuno è in grado di prevedere gli sviluppi che ci
attendono. Basta rileggere le cronache che hanno preceduto l’ultimo
Conclave – uno dei più brevi e dei meno combattuti della storia – per
verificare il flop anche dei più sagaci e smaliziati esperti in elezioni
e pronostici. Joseph Ratzinger “non poteva” essere eletto: troppo
anziano, troppo conservatore, troppo debilitato fisicamente, troppo duro
ed esplicito, troppo freddo… troppo Ratzinger. Il futuro resta
imperscrutabile: è una lapalissiana regola generale che è tanto più
valida per lo sviluppo dei Pontificati. Riflettiamo. Il Pontificato del
giovane (58 anni) Giovanni Paolo II è stato il secondo come durata – a
parte il leggendario esordio di San Pietro – ma avrebbe potuto benissimo
durare soltanto meno di tre anni, se nel maggio 1981 nel segno del fato
o di Fatima non si fosse neutralizzata la micidiale pallottola di Ali
Agca. Chi avrebbe potuto prevedere nel 1978 l’imminente fine dell’impero
sovietico e la demolizione del muro dell’infamia e della cortina di
ferro che tagliavano in due l’Europa, geograficamente, politicamente,
socialmente, ideologicamente e teologicamente? E chi può avventurarsi
oggi a pronosticare la durata del regno dell’anziano (78 anni) Benedetto
XVI o l’esito degli scontri di civiltà che sono in corso nel pianeta?
Dunque, è il 22 ottobre 1978. Seguiamo con Domenico Del Rio, uno dei
suoi più attenti biografi di Wojtyla, cosa succede in piazza San Pietro.
Giovanni Paolo II, eletto sei giorni prima, celebra la liturgia che
inaugura il Pontificato e ne indica l’intenzione centrale nella linea
della missione alle genti. Una missione che esige una proiezione
planetaria, nel superamento di ogni limitazione ideologica o
geopolitica. Sul sagrato di San Pietro il Papa si rivolge al mondo ed
enuncia il programma ad extra, quello che maggiormente è destinato a
contare in un Pontificato che si rivelerà più di messaggio che di
governo.
Fratelli e Sorelle! Non abbiate paura di accogliere Cristo e di
accettare la sua potestà! Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono
servire Cristo e, con la potestà di Cristo, servire l’uomo e l’umanità
intera! Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!
Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi
economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di
sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui
lo sa!
La chiamata ad aprire le porte a Cristo nel 1978 fu intesa
essenzialmente come una sfida ai regimi atei del comunismo. E come tale
il Papa la riproporrà il 25 gennaio 1998 a Cuba. Ma l’intendimento era
più vasto, tant’è che egli quella chiamata la riproporrà tale e quale ai
popoli europei quando tutti i comunismi del continente saranno
tramontati: «All’inizio del mio Pontificato ho invitato i fedeli riuniti
a Roma in piazza San Pietro di aprire le porte a Cristo. Oggi ripeto il
mio appello al vecchio continente: Europa, apri le porte a Cristo!»
(Vienna, 20 giugno 1998).
Il suo predecessore Paolo VI – non tenendo conto della brevissima
parentesi di Giovanni Paolo I – aveva incarnato la Chiesa sofferente che
non riusciva più a farsi ascoltare da una società in crisi, dilaniata
dal terrorismo nel cuore dell’Europa (il brigatismo rosso in Italia e in
Germania, l’Eta in Spagna, l’Ira in Gran Bretagna), con le guerriglie
nell’America Latina delle dittature e della teologia della liberazione e
con le guerre più o meno sante dell’Asia islamista. Non dimentichiamo
che si era nel pieno degli “anni di piombo”, l’apogeo del
post-Sessantotto, giunto dopo dieci anni di convulsione e confusione
alla sua deriva: dall’utopia al nichilismo, alla frantumazione e
dispersione dei valori, al trionfo del relativismo morale, politico,
religioso. Dalla quasi invettiva di Paolo VI contro quel Dio che non
aveva saputo o voluto salvare la vita del suo amico Aldo Moro si passa,
quasi inaspettatamente, al grido di rivolta di Giovanni Paolo II che
invitava tutti a non «avere paura», ad «aprire, anzi spalancare la porta
a Cristo», a ribellarsi a coloro che volevano fiaccare e magari
conquistare la società con il terrore, quelli che perseguivano una
teologia che voleva liberare l’uomo dai bisogni sfamandoli con l’odio di
classe, dettato dai testi sacri del marxismo anziché dall’amore
evangelico.
Quell’ottobre del 1978 fu l’inizio di una riscossa e veniva da Karol
Wojtyla che per 40 anni – senza soluzione di continuità tra il tallone
di ferro dell’occupazione nazista e la dittatura coloniale sovietica –
aveva vissuto nella sua Polonia nel regno della paura, del silenzio
imposto, del conformismo di sopravvivenza. Nell’aprile del 2005, a
piazza San Pietro – tornata ad essere l’ombelico del mondo – è risuonato
di nuovo quel fermo invito, meno gridato certamente ma sicuramente
altrettanto fermo. Questa volta a lanciarlo era Joseph Ratzinger, che
aveva avuto origini ed esperienze diverse ma insieme incredibilmente
segnate dalla stessa contaminazione con la barbarie nazista e con
l’imperialismo sovietico che aveva diviso in due la sua Germania. Certo,
al futuro Benedetto XVI, a differenza del suo predecessore, nessuno
poteva imporre il silenzio, allora come adesso. Ma egli ha dovuto fare i
conti con quella che ha chiamato la “dittatura del relativismo”,
l’arroganza e lo strapotere del nuovo conformismo capace di schiacciare,
o rendere impotente o almeno macchiettizzare chi “osa” esprimere
concetti che non seguono l’ultima moda o l’ultima parola d’ordine dei
grandi sacerdoti del modernismo a tutti i costi. Il neo-Papa chiude la
sua omelia di insediamento facendo un riferimento diretto, esplicito,
senza complessi, senza reticenze.
In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa
Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla Piazza di San
Pietro. Ancora, e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue
parole di allora: “Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a
Cristo!”. Il Papa parlava ai forti, ai potenti del mondo, i quali
avevano paura che Cristo potesse portar via qualcosa del loro potere, se
lo avessero lasciato entrare e concesso la libertà alla fede. Sì, egli
avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della
corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell’arbitrio. Ma non
avrebbe portato via nulla di ciò che appartiene alla libertà dell’uomo,
alla sua dignità, all’edificazione di una società giusta. Il Papa
parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani.
È forte in
questo Papa la volontà di seguire la strada indicata dal suo
predecessore, che egli stesso standogli al fianco per 23 anni come
tutore della Fede aveva aiutato a definire e costruire tra mille
difficoltà e contestazioni interne ed esterne alla Chiesa. Sicuramente
egli farà sue anche le parole che ebbe più volte a ripetere Karol
Wojtyla: «Molti sono stati contestati prima di me. Anche San Paolo,
anche Gesù Cristo. Guai se il romano Pontefice si spaventasse delle
critiche e delle incomprensioni!».
Nel caso di Giovanni Paolo II, si poteva soltanto supporre a quali
scenari di paura si riferisse. Con Benedetto XVI non ci sono misteri. Lo
aveva chiarito, in modo ritenuto brutale e antipolitico per un presunto
candidato al seggio di Pietro, ai Cardinali prima del Conclave,
ripetendolo con sbalorditiva coerenza – visti i tempi – in libri,
conferenze e interviste nel corso degli ultimi anni, in significativo
crescendo nei mesi scorsi. Il suo è un appello rivolto al cuore e alle
menti d’Europa, protetta ed evangelizzata da quel Benedetto di cui ha
voluto assumere il nome lanciando e accettando una sfida. Ecco le sue
parole:
C’è un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può
considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in
maniera lodevole di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma
non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò
che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire
ciò che è grande e puro. L’Europa, per sopravvivere, ha bisogno di una
nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se essa
vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità [...] è talvolta
soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle
cose proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere senza costanti
in comune, senza punti di orientamento a partire dai valori propri.
Anche qui c’è continuità con Giovanni Paolo II, che aveva fatto della
ricerca delle radici e della riaffermazione dell’identità nazionale,
europea, umana un tema fisso del suo Pontificato. Non per cercare
contrapposizioni, che ha respinto con la forza delle sue parole e dei
suoi gesti, ma nella convinzione che per dialogare bisogna avere
coscienza di sé: ci si legittima reciprocamente solo se si parte da
profili precisi, da una conoscenza approfondita, da una storia che non
si può cancellare. Chi ascolterà e raccoglierà la sfida di Papa
Ratzinger? Ancora una volta è difficile e azzardato fare pronostici. Ma
qualche indicazione c’è. Da una parte, un esempio eclatante dei
risultati ai quali può portare un approccio ai valori della società per
eccesso di relativismo. Il 21 aprile, tra l’elezione e l’incoronazione,
la Camera dei deputati della Spagna neo-socialista di Josè Luis
Rodriguez Zapatero ha approvato una legge che istituzionalizza il
matrimonio tra omosessuali. È l’ennesima e per ora più pesante
provocazione di una sinistra giunta inopinatamente al potere sull’onda
emotiva di un attentato terroristico e che ora nasconde la sua
insipienza resuscitando i vecchi fantasmi delle “Due Spagne”, quella
anarcoide e anticlericale e quella “cattolicissima”, che si sono
contrapposti negli anni Trenta in una terribile e sanguinosa guerra
civile.
Poche settimane prima, Zapatero ha sottoposto a referendum, con enfasi
propagandistica, la Costituzione europea. Ma non ha neanche preso in
considerazione di adottare la stessa procedura su un tema di rilevanza
costituzionale come questo, che tocca la struttura della famiglia e
della società, il vissuto dei cittadini. Che succederebbe se un domani –
non impensabile o imperscrutabile – cambiasse la maggioranza e i nuovi
governanti decidessero di cambiare o annullare la legge, una legge
ordinaria? Nella logica imposta da Zapatero, sarebbe un atto normale,
addirittura dovuto. Dall’altra parte, la conferma che in altri settori
del pensiero e della politica, si riscontra un’assoluta assonanza di
analisi e di volontà di azione che prescinde da distinguo certamente
importanti ma di un altro livello tra chi parla in nome della Religione
e chi lo fa in nome della Politica. Basta leggere il volume Senza
radici, scritto a due mani dal cardinale Ratzinger e dal presidente del
Senato Marcello Pera. Il commento più puntuale è nella recensione di
mons. Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense:
Meraviglia che da due fronti così diversi, quali quelli di Joseph
Ratzinger e Marcello Pera, agli stessi interrogativi possano giungere
risposte similari e convergenti. Il teologo e il filosofo laico non solo
si confrontano, ma delineano spazi di azione su cui confluiscono per
disegnare un cammino comune da perseguire. Ironia della sorte. In un
paese come il nostro, che ha voluto sottolineare sempre l’indipendenza
del mondo “laico” da quello religioso, fino a sfiorare
l’incomunicabilità tra i due, tocca al prefetto dell’ex Sant’Uffizio e
al presidente del Senato della Repubblica mettersi a tavolino per
abbozzare una sintesi su alcuni obiettivi da perseguire insieme. La
posta in gioco deve essere davvero importante.
Non si può non
concordare: sì, la posta in gioco è davvero importante. Chissà se questo
basterà ad evitare di cadere nella tentazione di strumentalizzare la
discussione e anche di dilaniarsi alla ricerca della purezza ideologica,
della piena coincidenza di analisi e ricette politiche e sociali.
16 maggio 2005 |