Non mi considero un sostenitore
della Dottrina Bush, anche se mi considero un sostenitore
di Bush. La diagnosi del presidente riguardo la minaccia che ci siamo trovati
ad affrontare – o ci trovavamo ad affrontare – o che ancora
ci troviamo ad affrontare – richiede un’analisi più approfondita
di quella che, credo, i direttori di Commentary vogliono da me. La minaccia
che il presidente aveva identificato nel 2002 riguardava l’accumulazione
di armi di distruzione di massa da parte di un nemico della libertà.
Si trattava di un dittatore che era riuscito, nel suo paese, a sopprimere
la libertà e probabilmente era deciso a fare lo stesso oltre le sue
coste, raggiungendo, forse, le nostre. Non credo che il presidente, dal
momento dell’invasione, abbia stabilito retrospettivamente se Saddam
era in grado di estendere questa minaccia o se avesse la volontà
di farlo. Penso che il presidente abbia agito sulla base dell’intelligence
disponibile. Ma pur avendo agito come noi volevamo, le sue azioni non hanno
messo fine a una precedente dottrina per la politica estera americana, né
hanno prodotto una qualche ricetta dottrinaria per affrontare questo tipo
di minacce in futuro. Il successo di Bush deve essere valutato – non
c’è alternativa – in base al successo dell’avventura
irachena. Dopo l’11 settembre, era assolutamente necessario che gli
Stati Uniti dessero una prova di decisione e di forza. Abbiamo dimostrato
di possedere entrambe in Afghanistan. L’impresa è stata decisiva,
rapida ed esemplare anche sotto altri aspetti. La successiva campagna contro
l’Iraq ha bisogno, per essere giustificata, di un successo empirico
che non abbiamo ancora conseguito. Non abbiamo ancora sconfitto l’insurrezione
né unito la nazione irachena. Se raggiungeremo questi obiettivi,
e se questi si tradurranno in un avanzamento in direzione della sicurezza
irachena e di un governo costituzionale, il presidente verrà giustamente
acclamato per aver avuto il coraggio di lanciarsi in un’impresa che
rimette ordine nella vita e nella speranza in una parte critica del mondo.
Se l’impresa fallirà, verrà giustamente ritenuto responsabile
della sua imprudenza. Vi sono aspetti della nostra politica che cambierei?
Questa è una domanda difficile. Con l’aumento dei costi, dovrebbe
estendersi anche la portata dei nostri obiettivi. È inappropriato
che il presidente smorzi, per non dire abbandoni, una retorica che sottende
a una grande impresa. Se l’impresa irachena fosse solo l’ennesimo
esercizio ginnico di una grande potenza, gli risulterebbe difficile giustificare
i costi che stiamo sostenendo. Con l’aumentare dei costi, non si può
mettere a repentaglio l’obiettivo per cui stiamo spendendo fondi e
altre risorse necessarie. Arrivati a questo punto, e dopo quanto è
stato fatto, non trovo niente dal punto di vista militare che potrebbe essere
fatto diversamente da quello che stiamo facendo, né vedo in prospettiva
una modifica geostrategica sostanziale dei presupposti che ci hanno portato
dove siamo. Ma, per venire all’ultima domanda, non giudico saggia
la visione espansiva del ruolo degli Stati Uniti di Bush. I nostri obiettivi,
espressi da Woodrow Wilson e ora da George Bush, restano organicamente encomiabili
come lo sono le società libere stesse. Nella natura delle cose, però,
le missioni di salvataggio delle nazioni tormentare devono essere selettive,
una forma d’arte geostrategica. È una tesi così ovvia,
che è imbarazzante mettersi a ridimostrarla. «Come si chiamano
i dittatori dei paesi che hanno bombe nucleari?» iniziava la massima,
decenni fa. Risposta: «Signore». Le preoccupazioni del presidente
per la libertà non ci faranno intervenire in favore della libertà
in Cina. Non riusciamo nemmeno ad accelerare l’energia politica per
fare qualcosa per fermare il genocidio in Sudan. Ogni tanto le stelle si
dispongono in modo da darci una missione ideologica che possiamo gestire,
come a Grenada ai tempi di Reagan – e prima di allora, su scala completamente
diversa, nella guerra contro Hitler. Ma le dottrine di contorno devono rimanere
confinate al dibattito politico. Nei giorni e nei decenni futuri, gli Stati
Uniti faranno del bene ad altri paesi e all’umanità, ma non
credo che sarà grazie a un esercizio dottrinario riconducibile alla
Dottrina Bush.
(©
Commentary)
(Traduzione dall’inglese di Barbara Mennitti)
William F. Buckley
Jr., editor-at-large di National Review
(c)
Ideazione.com (2006)
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