Cominciamo da un pentolone, in una notte di luna piena. Un pentolone in
cui sarà cotta una poltiglia che non è ancora fatta col granturco,
visto che alla scoperta dell’America manca ancora almeno un millennio
e mezzo. Ma nel cui sommesso ribollire s’indovina già quel
che sarà la polenta. Mangiano polenta in continuazione, infatti,
i guerrieri tribali di cui stiamo parlando, tant’è che i greci
li chiamano pulitifagi: “mangiapolenta”, o come diremmo noi
“polentoni”. È polenta che sarà servita con salsicce,
già sfrigolanti nell’aria pungente della sera. Ma nell’aria,
oltre all’odore del cibo, ci sono anche le note lamentose di uno strumento,
fatto con canne di giunco fissate a un otre di pelle di capra. E intanto
che si aspetta la cena, al suono di quella primitiva cornamusa alcuni dei
guerrieri del bivacco si alzano, e iniziano a ballare facendo ondeggiare
le gonne. Sì: i guerrieri più temuti della loro epoca, feroci
collezionisti di teste di nemici, in battaglia vanno con quel curioso abbigliamento
muliebre. Di più: disprezzano chi porta calzoni.
No: non stiamo parlando degli antichi celti. Quello che abbiamo descritto
è infatti un accampamento di legionari romani.
“La musica andina è di sinistra, la musica celtica è
di destra”, era stato lo stereotipo da noi accennato parlando appunto
della musica andina: un’analisi terminata la quale ci eravamo appunto
riservati di tornare sul secondo termine dell’equazione. Ma prima
che “da destra” in Italia la moda per la musica e la cultura
celtica è stata agitata in particolare in chiave antiromana, con
il boom della Lega. Ed è dunque un discorso che è giusto iniziare
col ricordare che sono stati gli antichi romani, se non proprio gli inventori
della polenta, certo il popolo che nell’antichità ne ha mangiata
di più, ritenendola quasi un segreto della propria forza militare,
e imponendola ovunque siano andati. Loro la preparavano infatti con la farina
di farro, più energetica di quell’orzo invece alla base della
dieta dei greci e degli altri popoli dell’antico Mediterraneo. E ne
facevano a tal punto uno status di virtù guerriera che ai reparti
colpevoli di codardia in battaglia come umiliante punizione veniva dato
appunto orzo al posto del farro: il rancio dei vigliacchi! Eredità
del dominio romano, la polenta continuerà a essere fatta essenzialmente
con farina di farro fino a età moderna inoltrata. Sarà per
combattere le carestie che tra Seicento e Settecento la Repubblica di Venezia
farà partire un programma di sostituzione dell’antico cereale
con quello nuovo appena portato dal Nuovo Mondo, e che una volta seminato
dà una rendita tanto più brillante rispetto alle graminacee
tradizionali. Riuscirà a tal punto, questo progetto, che non solo
l’atavico piatto finirà per essere associato indissolubilmente
al mais: perfino l’etichetta di “polentoni” si trasferirà
definitivamente dagli antichi romani ai moderni veneti.
Il sugo di pomodoro del condimento, poi, è una cosa più tarda
ancora: bisogna aspettare che l’Unità d’Italia e i contratti
di fornitura per l’approvvigionamento del Regio Esercito permettano
al piemontese Cavalier Cirio di diffondere le sue conserve per la Penisola.
In compenso, già la polenta dei quiriti fà quelle bolle di
cottura di cui bisogna stare attenti a evitare gli schizzi, forieri di dolorose
scottature. Varrone, un pioniere della glottologia col gusto per le etimologie
un po’ avventurose, sostiene addirittura che puls, nome latino del
manicaretto, non sia che un’imitazione onomatopeica del suono di queste
bolle scoppiettanti durante la cottura. Lo stesso Varrone ci dice anche
che il nome della “luganiga” viene dalla Lucania: qui è
più credibile, vista la concomitante testimonianza di Cicerone. Se
però la salsiccia l’hanno inventata in Magna Grecia, sono stati
sempre i romani a portarla nell’Italia del Nord e in altre terre di
influenza celtica, assieme alla polenta. Oggi la Lega celebra kermesse anti-romane
a base di polenta e luganiga: sarebbe esattamente come fare feste no global
anti-Usa abbuffandosi di hamburger e Coca Cola. O manifestare odio per la
Germania ingozzandosi di würstel e crauti innaffiati di birra. O chiamare
alla resistenza contro l’“invasione islamica” con banchetti
di kebab e tè alla menta.
Anche i gonnellini, tunicae, furono una caratteristica del legionario romano.
Solo dal primo secolo dopo Cristo l’arruolamento sempre più
massiccio di barbari e la prolungata permanenza nelle fredde regioni del
Nord Europa favorì tra i soldati il diffondersi delle lunghe bracae,
prima disprezzate come indumento di effeminati e incivili. In particolare,
proprio incivili delle terre celtiche. Uno dei romanzi di Danila Comastri
Montanari su Publio Aurelio Stazio, il senatore investigatore nella Roma
di Claudio, ci mostra proprio un gustoso dialogo con un gladiatore oriundo
dell’attuale Borgogna, cui il protagonista confida di comprare dalle
sue parti il «rifornimento di cervesia e il grasso giallo che producete
col latte di mucca». «Il raffinato senatore Publio Aurelio Stazio
beve cervesia e apprezza i condimenti celti! Chi l’avrebbe mai detto?
Non ti manca che adottare le nostre lunghe braghe...», risponde stupito
il gladiatore. Ma un conto è gustare birra e burro al posto di vino
e olio, un conto è abbandonare il gonnellino per i pantaloni. «Che
gli Dei mi proteggano, sono troppo scomode! C’è da impazzire
a sentirsi le gambe imprigionate nella stoffa».
Antiche
tradizioni moderne nella Scozia delle cornamuse
Nel
primo saggio del famoso volume curato da Eric Hobsbawm e dedicato all’Invenzione
della tradizione, raccontando il modo in cui è nata quella delle
Highlands di Scozia Hugh Trevor-Roper riferisce di “difese”
del kilt scozzese basate su motivazioni abbastanza simili. Ma spiega anche
come quel costume suppostamente arcaico è in realtà un’invenzione
del Settecento. In precedenza gli highlanders più poveri portavano
sì la gonna, ma nella forma di un plaid stretto alla cintura: è
il belted plaid, residuo di un costume appunto romano e poi medievale, arrivato
all’età moderna negli abiti del clero e, appunto, di quella
zona d’Europa particolarmente periferica. È tra 1727 e 1734
che un industriale quacchero inglese di nome Thomas Rawlinson inventa un
gonnellino staccato dal plaid, per rendere più comodo il lavoro di
taglio degli alberi e di cura delle fornaci agli highlanders che ha assunto
in una fonderia da lui aperta presso Inverness. È alla Battaglia
di Waterloo che il kilt della fanteria scozzese diventa famoso in tutta
Europa. Ed è addirittura tra 1842 e 1844 che il sistema di identificazione
dei clan attraverso il tartan, l’intreccio di colore dei kilt, è
creato di sana pianta dai fratelli Allen: due mitomani che si pretendono
discendenti dei re Stuart, che hanno la mania per il folklore, e che fingono
di rivelare tradizioni millenarie. Il loro successo è almeno pari
a quello di James Macpherson: l’altro spettacolare falsario che dopo
aver scritto di sana pianta la saga di Ossian l’ha pubblicata nel
1807 come traduzione di antichi canti gaelici delle Highlands, dando tra
l’altro origine al Romanticismo.
Di affidabilità non superiore a Macpherson e ai fratelli Allen fu
Edward Williams, alias Iolo Morganwg: un muratore gallese oppiomane vissuto
tra 1747 e 1826, che pretendeva di essere l’ultimo depositario dell’antico
sapere dei druidi, e che scrisse con piglio da grafomane autodidatta su
un po’ di tutto, dalla filosofia alla metrica celtica. Di lui parla
diffusamente Prys Morgan in “From a Death to a View: la caccia al
passato gallese in epoca romantica”, secondo saggio del già
citato L’invenzione della tradizione. E, continuando alle origini
della celtomania moderna, appena un po’ più di considerazione
è data per la Bretagna al barone Hersant de Villemarqué, alias
Kervarker. Curiosità per il lettore italiano: da un canto di quelli
che il nobile affermò e molti filologi negarono avesse raccolto dai
contadini e marinai della sua terra, Angelo Branduardi ha sviluppato il
testo di una sua canzone famosa, La serie dei numeri. Di grande prestigio
gode invece Robert Burns, che visse tra 1759 e 1796, e che nelle raccolte
di versi da lui compilate mise sì canti popolari da lui raccolti
assieme a composizioni in anglo-scozzese da lui stesso composte sul loro
modello, ma a differenza di Macpherson, Morgawng e Kervarker indicò
abbastanza chiaramente quel che era farina del suo sacco e quel che non
lo era. Per di più, fu anche uno dei primi raccoglitori di folklore
che si curò di annotare anche la musica, guadagnandosi sul campo
un ruolo incontestabile di pioniere della moderna etnomusicologia. Gli scozzesi
lo considerano inoltre il loro poeta nazionale, e nel dibattito per l’adozione
di un nuovo inno che si è acceso nella regione dopo la devolution
del 1999 è proprio Scots wha hae, un antico brano raccolto da Burns
e risalente forse alle guerre di Braveheart, quello che si contende la top
position con il Flower of Scotland dei tifosi di calcio e di rugby: quest’ultimo,
in effetti, poco più di una O sole mio locale.
Anche del repertorio di Burns è Parcel of rogues, un canto di emigrazione
di popolarità assimilabile alla nostra Mamma mia dammi cento lire.
Ma tra le 368 canzoni delle sue raccolte c’è anche Auld Lang
Syne, che è forse in assoluto la canzone più cantata di tutta
l’anglofonia. I suoi versi sono in un anglo-scozzese del Cinquecento
fortemente arcaico, al punto che gli stessi testi in lingua originale hanno
bisogno di una nota per tradurre il titolo in inglese moderno: Old Long
Since, per un senso che in italiano potrebbe forse essere reso dai primi
versi della famosa canzone del 1935 di Frati-Raimondo Piemontesina Bella:
«addio bei giorni passati...». «For auld laaaang syyyyyne,
my dear, /for auld laaaang syyyyyne/ we’ll taaaak a cup o’ kindness
yet, / for auld laaaang syyyyyne» si canta in tutto il mondo di lingua
inglese a Capodanno con un bicchiere in mano e una frequente lagrimuccia
negli occhi, a una frequenza perfino più massiccia di quella con
cui da noi ai compleanni si intona «tanti auguri a teeee...».
Ma questa canzone la usano anche a Taiwan per lauree e funerali, e la cantano
nei negozi giapponesi al momento della chiusura, e alla sua melodia sono
stati adattati i versi dell’inno nazionale coreano. Quanto a noi italiani,
dopo averlo per un po’ orecchiato nei film hollywoodiani lo abbiamo
infine trasformato in un ballabile: avvenne nel 1943, quando le melodie
anglo-sassoni erano ufficialmente vietate dalla censura di guerra, ma venivano
contrabbandate con l’aiuto di qualche testo o titolo fittizio. Per
questo, ancora oggi la conosciamo semplicemente come Valzer delle candele.
E
Giulio Cesare portò le zampogne in Scozia
Tuttavia,
la ricerca più recente ha rivelato che anche Burns si era preso qualche
colossale licenza. Un esempio veramente clamoroso è rappresentato
da Ye Jacobites by Name, un motivo trascinante che gran parte dei gruppi
di musica celtica presentano oggi come uno degli inni della rivolta giacobita
del 1745-46, anzi il suo inno per eccellenza. E una specie di Marsigliese
di quella che viene oggi presentata come l’ultima grande rivolta indipendentista
scozzese contro l’Inghilterra, traducendo in termini di nazionalismo
moderno una lotta che in realtà per la mentalità dell’epoca
dovette avere un significato ben diverso. I clan delle Highlands, infatti,
si erano schierati con il “giovane pretendente” Bonnie Prince
Charlie non in nome del separatismo, ma per lealtà tribale alla spodestata
dinastia degli Stuart. D’altra parte, il nipote di Giacomo II non
voleva restaurare l’indipendenza scozzese dall’Inghilterra,
bensì rivendicare il trono dell’intero Regno Unito agli usurpatori
Hannover. Per questo, invece di asserragliarsi nella sua roccaforte delle
Highlands marciò su Londra, trovandosi però costretto alla
ritirata dall’indifferenza degli inglesi, e venendo infine rovinosamente
sconfitto a Culloden Moor. Il testo tramandato da Burns è di un’ironia
amara, e denuncia il modo in cui il “buon diritto” degli Stuart
è stato negato dalla forza bruta: «voi che vi chiamate giacobiti,
tendete le orecchie/ vi spiegherò il vostro errore/ le vostre dottrine
devo incolpare/ Cos’è giusto e cos’è sbagliato,
secondo la legge?/ Una spada corta ed una lunga/ Un braccio debole ed uno
forte per sguainarla». Ovvero: vi considerano criminali solo perché
i vostri nemici sono più forti. Ebbene: si è scoperto che
nel trascrivere il testo, attorno al 1791, in un impeto di ideologismo filo-giacobita
il poeta lo aveva del tutto trasformato, per rovesciarne l’originario
carattere anti-giacobita. «Con il Papa vi siete messi d’accordo»,
tuonavano infatti i versi del testo vero, ardenti del sacro sdegno anti-cattolico
che aveva armato contro gli Stuart la rivolta di Cromwell del 1642-49 e
la “Gloriosa Rivoluzione” del 1688-89. «Il Papa e i Preti/
dove sono venuti/ hanno governato con crudeltà». E via di questo
passo... Diciamo che sarebbe come scoprire che Bella Ciao era un inno fascista,
con il testo oggi noto compilato dopo la guerra da un raccoglitore di canti
partigiani!
Anche il grande Burns, dunque, diede un suo contributo alla collezione di
bufale già costruita da fratelli Allen, Macpherson, Morgawng e Kervarker.
Bufale, va detto, che in Scozia furono rese particolarmente possibili proprio
per il fatto che dopo la rivolta giacobita il Parlamento di Londra aveva
emanato disposizioni draconiane per proibire i costumi ancestrali delle
Highlands, punendo così i clan locali del massiccio appoggio da loro
dato alla causa del “giovane pretendente”. E il divieto, durato
tra 1746 e 1782, aveva creato un vuoto in cui era stato relativamente facile
inserirsi. Conclusione: né i kilt che si vedono nell’Highlander
con Christopher Lambert, né quelli di Braveheart sono in effetti
più storici dei famosi anfibi che si vedono ai piedi di un montanaro
scozzese nello stesso film di Mel Gibson o dell’ancor più famoso
orologio al polso del legionario di Scipione l’Africano.
Neanche il sistema dei Clan è antico come pretendono certi fanatici
di celtismo: il registro attuale dei membri risale infatti al 1815, e i
riferimenti più antichi non vanno più in là del XII
secolo. È vero che questo sistema nasce comunque dall’intrecciarsi
tra il feudalesimo medievale e una tradizione tribale più antica.
Ed è Cesare a riferirci delle tribù in cui erano divisi i
galli. Tribus, però, viene da una circoscrizione territoriale dell’antica
Roma, che secondo alcuni richiama la originaria tripartizione etnica dei
fondatori dell’Urbe, tra latini, sabini e etruschi. Era la tribù
che pagava il tributo, ospitava un tribunale, eleggeva un tribuno, lo ascoltava
parlare alla tribuna. Naturalmente, nessuno può eccepire sul fatto
che nell’antichità i romani furono migliori combattenti dei
celti, malgrado la fama di ferocia di questi ultimi. La vittoria di Cesare
ebbe comunque conseguenze più durature che quella di Brenno, e ci
fu un Impero Romano, non un Impero Gallico. E quanto alle teste tagliate,
è vero che quelle con cui i celti decoravano le proprie case ha dato
luogo a un motivo decorativo arrivato in certe aree europee ben dentro al
Medio Evo e anche oltre, sia pure nella forma simbolica di sculture di pietra.
Ma sentiamo un attimo quanto scriveva nel 1989 l’insigne storico Andrea
Giardina nel presentare una raccolta di saggi intitolata all’Uomo
Romano: «È stato recentemente dimostrato come i romani avessero
una particolare inclinazione per il taglio delle teste. Non si tratta, beninteso,
di un particolare addensamento di teste mozze in un determinato periodo,
com’è accaduto in epoche a noi assai più vicine, ma
di una costante e puntuale dislocazione di questa pratica lungo tutto l’arco
della storia romana. Teste tagliate con grande perizia o maldestramente,
dal corpo dei vivi o dei morti, avvolte in bende o protette accuratamente
da strati di miele, da olio di cedro, da cera, o da altre sostanze; conficcate
su picche e sui pali degli accampamenti, esposte nel centro della vita civica
o scagliate tra i piedi dei nemici; teste di gente comune o di grandi protagonisti
(fu questa sorte che toccò, per esempio, a Pompeo, a Cicerone, a
Nerone, a Massenzio); teste di avversari politici o di nemici di guerra,
di criminali o di banditi.
Quella definizione di “civiltà dalla testa tagliata”
che è stata escogitata per i celti, spetterebbe dunque con ugual
diritto anche ai romani. Per i romani, il tagliar teste non rientrava affatto
in un’attitudine definibile come crudelitas: l’atto del taglio
della testa era, oltre che un ovvio mezzo d’intimidazione, un segno
di potenza, una manifestazione di efficienza e di bravura. I romani erano
un popolo fine, e la crudelitas la vedevano piuttosto in alcuni comportamenti
che talvolta si associano a quell’atto: per esempio, gioire scompostamente
davanti al capo mozzato di un avversario troppo a lungo temuto, o diffondersi
in commenti di cattivo gusto su questo o quel particolare fisionomico. Sono
questi i comportamenti che trasformano in crudelitas quell’ammirevole
esternazione di potenza che si era manifestata nella decapitazione del nemico».
Infine la cornamusa, termine che in epoca rinascimentale e barocca viene
affibbiato alla più antica zampogna: dal greco symphÿnia e/o
dall’aramaico sumpopiniah, ma comunque dal Mediterraneo. Nel III secolo
a.C. alla zampogna dedicò un poema l’alessandrino Teocrito,
con una serie di versi di lunghezza decrescente, a riprodurre visivamente
il disegno dello strumento. E nel I secolo a.C. fu un virtuoso di zampogna,
oltre che di lira, l’imperatore Nerone, secondo quanto ci riferiscono
Svetonio e Dione Crisostomo. Non vi è certezza, ma molti ritengono
che i legionari romani marciassero al suono delle zampogne, proprio come
i reggimenti di highlanders dell’esercito britannico moderno. Viceversa,
J.S. Megaw fa un buon punto sugli studi archeologici moderni quando ci informa
che «scarsa è l’evidenza materiale dell’abilità
di costruttori e suonatori di strumenti musicali degli antichi celti»:
giusto un paio di fonti iconografiche del VII secolo a.C. con lire a quattro
corde, flauti di Pan a cinque canne, flauti diritti singoli e doppi e corni;
e poi qualche reperto di flauti e corni di cattiva qualità, utilizzabili
al più come strumenti di segnalazioni. Ma «a partire dalla
fine del periodo di Hallstatt nel V secolo a.C. fino all’ultimo secolo
a.C. la documentazione di strumenti musicali praticamente scompare».
E «soltanto nei primi secoli d.C., con l’introduzione –
o reintroduzione – di strumenti musicali mediterranei concomitante
l’espansione verso nord dell’Impero romano, l’evidenza
materiale migliora direttamente».
Insomma, le zampogne ai celti le portò Cesare! «Com’è
ovvio, sono le zampogne i rappresentanti della famiglia di flauti di canna
più frequentemente associati con i celti del periodo finale»,
conferma Megaw. Ebbene, «come per tutti i flauti di canna dell’Europa
settentrionale e occidentale, l’evoluzione delle zampogne va ricollegata
a un’origine e diffusione dai Balcani e dal Mediterraneo orientale,
ma non si hanno documenti preistorici e archeologici indicativi di un loro
uso in Occidente prima del Medioevo». In Scozia le prime testimonianze
risalgono al XV secolo, anche se riferiscono di una loro importanza simbolica
che fa pensare a un’ampia diffusione medievale. Ma le bande di cornamuse
oggi simbolo della Scozia risalgono anch’esse, come i tartan dei kilt,
al XIX secolo, e a quell’opera di “invenzione della tradizione”
studiata da Trevor-Ropert.
Romani
e veneti alleati contro i celti
Né
le puntualizzazioni a proposito dell’uso “anti-romano”
fatto della moda celtica finiscono qui. Non solo i leghisti esaltano Brenno
e Vercingetorige, non solo dei fumetti di Asterix si bea lo sciovinismo
francese nel vedere gli avi dei macaronì fatti a polpette. Alan Stivell,
il celebre cantante e polistrumentista bretone considerato uno dei massimi
rappresentanti della rinascita del folklore celtico, ha parlato più
volte della battaglia di Alesia come dello scontro tra i due possibili futuri
della civiltà occidentale.
«La sconfitta di Vercingetorige da parte di Cesare fu anche la sconfitta
di un modello libertario da parte della statolatria romana». Eppure,
quando l’Act of Union del 1707 fuse Inghilterra e Scozia nel nuovo
Regno Unito gli scozzesi rinunciarono sì al proprio Parlamento e
alla propria bandiera. Ma ponendo come condicio sine qua non il mantenimento
non solo dello status ufficiale per la propria Chiesa di Scozia presbiteriana
al posto della Chiesa di Inghilterra anglicana, ma anche del diritto romano
al posto della common law. Non parliamo poi dell’Irlanda, che ha legato
la difesa della propria identità alla fede cattolica romana, in contrapposizione
al protestantesimo anglo-sassone. E quanto al dragone rosso della bandiera
gallese, è un emblema che i legionari romani avevano copiato ai persiani.
Eloquente segnale delle loro nostalgie, i britanni romanizzati lo sventolarono
come simbolo di legittimismo imperiale, dopo che lo sgombero delle ultime
legioni dall’isola in concomitanza col sacco di Roma di Alarico ebbe
lasciato il campo libero all’invasione anglo-sassone. Fu un’epopea
sfortunata, visto che i loro discendenti furono appunto costretti prima
a ripiegare in Galles, Cornovaglia e Scozia, per poi essere anche lì
sottomessi.
Ma nel frattempo erano stati intellettuali e monaci profughi della Britannia
romanizzata a favorire il rigoglio della cultura gaelica nell’Irlanda
dell’Alto Medio Evo, permettendo così ai monaci irlandesi di
conservare la cultura romana per il periodo sufficiente a consegnarla alla
rinascita carolingia.
E quell’epopea, oltretutto, aveva anche dato origine alla leggenda
di Re Artù.
Anzi, lo stesso Artù storico probabilmente fu un generale romano:
conclusione ormai condivisa dalla maggior parte degli storici, e da cui
si sono sviluppati sia il romanzo di Valerio Massimo Manfredi L’ultima
legione che il film di Antoine Fuqua King Arthur. Che dire di più?
Erano stati soprattutto soldati liguro-celti della Padania a far conquistare
a Cesare la Gallia. Last but not least, dal mantovano Virgilio al padovano
Tito Livio erano stati soprattutto intellettuali “padani” di
sangue celtico i grandi cantori e ideologi della grandezza di Roma al tempo
di Augusto. E d’altra parte, se prima di Cesare e Tacito i latini
avevano spesso confuso i celti con i germani, in seguito sarebbero stati
spesso i germani a mettere latini e celti in un solo fascio. Dal nome di
una tribù celtica al confine col mondo germanico, in particolare,
deriva quella parola welsch, o walsch, tradizionalmente adoperata dai tedeschi
come insulto verso i francesi e gli italiani, e d’altronde cordialmente
ripagata con altri insulti tipo boche o crucco. Sempre dalla stessa radice,
usata dai tedeschi per i latini dell’attuale Romania, è derivato
il nome della Valacchia; usata invece dagli anglo-sassoni per i britanni
romanizzati ha dato il nome al Galles: in inglese Wales, mentre un gallese
è esattamente un welsh, pronuncia analoga al tedesco welsch.
Questo, dunque, sui celti “antiromani”. E sui celti di destra?
Prima di arrivarci, sarà forse utile fare un attimo il punto su chi
sono i celti. Ed è qui allora il caso di citare da un’intervista
che l’illustre archeologo Sabatino Moscati, scomparso nel 1997 da
presidente dell’Accademia dei Lincei, fece all’autore di queste
note nel 1991. Occasione: la presentazione della grande mostra sui celti
ospitata in quell’anno al Palazzo Grassi di Venezia, e della cui commissione
scientifica lui era stato il coordinatore. «I celti non sono i soli
protagonisti della storia dell’Italia al di là del Po. Il problema
non è quello di esagerare o di annullare questa presenza, ma di considerarla
storicamente uno degli strati culturali che compongono la storia dell’Italia
settentrionale. Una sorta di strato europeo sovrappostosi per un certo periodo».
Europeo, e non solo. Tra le Lettere di San Paolo ce n’è una
famosa ai Galati, discendenti di quei galli che nel III secolo a.C. erano
debordati in Asia Minore.
Ed è suggestivo tracciare i confini estremi della presenza gallica
attraverso i toponimi del continente: dalla Galizia spagnola a quella polacca;
dal già citato Galles alla già citata Valacchia; dalla Galazia
turca a Senigallia, antica capitale della tribù dei Senoni; da Bologna
alla Boemia, richiamanti entrambi la tribù dei Boi. Ma di quell’antico
dominio, oggi, non resta che qualche briciola. Le cinque lingue celtiche
ancora vive non mettono insieme, tra tutte, che un milione e mezzo di parlanti:
ottocentomila per il cymraeg; trecentomila per il gaelico d’Irlanda;
duecentomila per il bretone; centomila per il gaelico di Scozia; poco più
di un centinaio per il manx. In percentuale, sulla popolazione totale delle
rispettive regioni, fa il 25 per cento in Galles; appena il 10 per cento
in Irlanda, malgrado lo status di lingua ufficiale assieme all’inglese;
il 7 per cento in Bretagna; il 2 per cento in Scozia; lo 0,2 per cento nell’Isola
di Man. A essere pignoli, ci sarebbero anche alcune decine di entusiasti,
o esaltati (dipende dal punto di vista), che stanno cercando di far rivivere
il cornico, estinto in Cornovaglia fin dal XVIII secolo. Ma i cultori parlano
di “sette nazioni celtiche”, mettendo nel novero anche la Galizia
spagnola. «La lingua non appartiene in alcun caso alla famiglia degli
idiomi gaelici», ammetteva nel 1997 un articolo di Giorgio Calcara
su Keltia, mensile specializzato in “musiche, leggende, tradizioni
dei popoli celti”. «Ma le melodie, anche le più recenti,
che ci arrivano da queste terre sono straordinariamente simili e non hanno
nulla da invidiare, per composizione ed esecuzione, a quelle della cosiddetta
musica celtica per eccellenza».
Per i linguisti, il gallego è una variante di portoghese evoluta
separatamente da quando, nella divisione della penisola iberica, la Galizia
è rimasta oltre il confine spagnolo. Ma non manca chi attribuisce
effettivamente a un sostrato celtico più forte il suono più
nasale di portoghese e gallego rispetto a castigliano e catalano. Comunque,
da un po’ di tempo la moda della musica celtica ha annesso anche le
contigue Asturie: più che altro perché anche lì si
fa grand’uso e abuso della gaita, la zampogna iberica. Ma, a parte
che il dialetto asturiano, bable, è invece più affine all’occitano
che al portoghese, «mentre le Asturie sono musicalmente parlando un
territorio di confine fra il mondo mediterraneo e quello centro europeo,
simile alla situazione del nord Italia, la Galizia vede invece il prevalere
della esecuzione musicale basata sul modo maggiore, che si considera propria
di un’antica cultura europea continentale, in contrapposizione ai
modi di minore e ai modalismi dell’area ispanico-arabica e mediterranea.
In quella direzione il canto galiziano esprime una prevalenza dell’elemento
sillabico e non melismatico, che invece troviamo nei repertori asturiani,
con limitati interventi decorativi sull’impianto vocale che risulta
abbastanza rigido nei suoi schemi metrici e ritmici».
Indubbio è anche l’influsso celtico, oltre che in francese
e occitano, nei dialetti che il linguista dell’Ottocento Graziadio
Isaia Ascoli definì appunto “italo-celtici”. Individuando
nel suono della ü, la famosa “u francese”, «l’acutissima
delle spie celtiche in Italia». Ma in questa fratellanza idiomatica
padana lui mise i dialetti di Piemonte, Liguria, Lombardia ed Emilia-Romagna.
Non quelli delle Tre Venezie. Ottavio Adriano Spinelli, altro articolista
di Keltia, affronta il problema affermando che gli antichi veneti «stando
alle fonti classiche (Polibio, II, 17,5), non differivano dai celti in usi
e costumi, se non nella lingua, mutuata dalla preesistente e locale civiltà
euganea».
Anche Albert Uderzo, il disegnatore francese d’origine veneta, che
col soggettista ebreo René Goscinny ha regalato allo sciovinismo
francese quel magnifico giocattolo che è Asterix, ama ricordare «la
resistenza che ai romani opposero i celti del Veneto». Tra parentesi,
non solo il disegnatore dell’eroe fumettistico francese per eccellenza
nacque italiano e divenne cittadino transalpino che aveva già 7 anni.
Lo stesso Goscinny, era figlio di un’ucraina e di un polacco divenuto
cittadino francese 13 giorni prima della sua nascita, che lo aveva poi portato
in Argentina che non aveva neanche un anno, per lavorare in un’organizzazione
sionista. A 17 anni il soggettista di Asterix sarebbe poi andato a New York,
per non tornare infine in Francia che ventiseienne. E gli argentini spergiurano
che il famoso Asterix non è in realtà che una scopiazzatura
spudorata di Patorozú, un loro fumetto su un indio della Pampa. Goscinny
aveva comunque fatto un primo tentativo di adattamento trasferendo la storia
nel Far West, e facendo del piccoletto forzuto un indiano delle praterie
di nome Oumpah-pah. E solo dopo l’assoluto fallimento di questo personaggio
aveva pensato di vellicare infine il nazionalismo francese trasponendo Patorozú
e Oumpah-pah in un gallico in lotta contro i romani, e strappando infine
un successo fenomenale. Sull’identificazione tra celti e veneti, però,
l’autore di queste note fece nel 1997 un’intervista con Franco
Rocchetta, il fondatore stesso della Liga Veneta, prima alleato e poi avversario
di Bossi. E il teorico del venetismo aveva rifiutato con forza. «I
celti si spinsero nei Balcani fino all’Anatolia e in Italia fino a
Roma, ma non riuscirono a vincere la resistenza veneta, che rimase un’isola
indipendente», spiegava. «Anzi, a un certo punto passarono al
contrattacco, prendendo quella zona di Bergamo e Brescia che da allora sarebbe
rimasta collegata al Veneto per millenni. Fu la controffensiva veneta, e
non il mitico ritorno di Furio Camillo, a costringere i galli a sgomberare
Roma. E prova di questo rapporto è nel fatto che mentre i romani
riempirono di colonie la pianura padana, non ne misero in quella Veneta,
perché i veneti non erano entrati nell’Impero da conquistati,
ma con un libero accordo federativo. Erano arrivati in Italia coi latini
al tempo della prima migrazione indo-europea; erano come loro repubblicani
e federalisti; erano stati alleati contro l’invasione celtica».
Tanto per concludere il discorso, si può ricordare come la gran parte
degli studiosi consideri gli antichi veneti come una popolazione di ceppo
illirico. Cioè affine ai moderni albanesi e agli antenati dei romeni
prima della latinizzazione seguita alla conquista di Traiano.
Tradizione
celtica di destra? Dipende dai casi
Altra
caratteristica eredità gallica di francese e dialetti italo-celtici
è la scomparsa della tipica distinzione indo-europea tra prima persona
singolare soggetto e oggetto: la contrapposizione tra “io” e
“me” in italiano. Così, il Re Sole poteva dire «L’état
c’est moi», e non «L’état c’est je».
Per gli estimatori dei celti, anche questo annullamento della soggettività
è una riprova della radicale diversità di prospettiva della
loro cultura rispetto a quella che è stata poi la direzione della
civiltà occidentale. Il tribalismo invece dello Stato; l’animismo
naturalista invece della contrapposizione tra monoteismo e materialismo;
la comunità invece della proprietà; la tradizione invece del
progresso. Per i critici dell’Occidente, per chi da Vespucci a Rousseau
e al moderno ecologismo fondamentalista ha cantato le virtù del buon
selvaggio, è la riprova che un modello diverso sarebbe stato possibile
anche in Europa. Se non fosse stato cancellato dalla confluenza micidiale
tra le quattro componenti che hanno invece formato la moderna cultura occidentale:
messianesimo ebraico, razionalismo greco, statalismo romano, militarismo
germanico.
Ma questo pensiero è di destra o di sinistra? Indubbiamente, tra
Settecento e prima metà del Novecento gli ultimi paesi celtici si
sono spesso distinti come roccaforti controrivoluzionarie. A parte le già
citate insurrezioni della Scozia giacobita contro l’Inghilterra whig
degli Hannover, a parte l’ostinata fedeltà al cattolicesimo
romano degli irlandesi in contrapposizione al protestantesimo anglosassone,
anche la Bretagna come la Vandea fu durante la rivoluzione francese un covo
di guerriglieri legittimisti, i famosi chouans. E anche durante il XIX e
XX secolo restò una roccaforte elettorale della destra. Sempre nel
XX secolo si può ricordare che nel 1916 la rivolta di Pasqua, con
cui iniziò a Dublino la guerra d’indipendenza irlandese, fu
apertamente foraggiata dai servizi segreti tedeschi. E pure con gli occupanti
nazisti collaborarono apertamente tra 1940 e 1944 i nazionalisti bretoni,
senza contare che lo stesso Jean-Marie Le Pen è un bretone. Tuttavia
il laburista Blair è scozzese, mentre era gallese Lloyd George, l’ultimo
primo ministro liberale della storia del Regno Unito.
Dal punto di vista elettorale negli ultimi decenni la Scozia è sempre
stata in maggioranza laburista, mentre i liberali malgrado la loro decadenza
sono sopravvissuti alle secche dell’uninominale a un turno grazie
al loro marcato adattamento regionale alla stessa Scozia, al Galles e alla
Cornovaglia. D’altra parte, sono dichiaratamente di sinistra sia lo
Scottish National Party che il partito nazionalista gallese Plaid Cymru,
al punto che furono loro a promuovere l’espulsione della Lega dal
gruppo dei partiti regionalisti al Parlamento europeo, proprio in quanto
“troppo di destra”. Insomma, esiste nel Regno Unito una vera
e propria frangia celtica anticonservatrice, contrapposta allo storico predominio
dei tories nell’Inghilterra vera e propria. E quanto all’Irlanda,
è notorio come l’ira dagli anni Sessanta in poi si sia caratterizzata
fortemente in senso marxista. Meno noto è che questa evoluzione era
già a buon punto negli anni Trenta, visto che contingenti dell’ira
parteciparono alla guerra civile spagnola al fianco dei repubblicani, e
in contrapposizione a quegli altri irlandesi della “Legione di San
Patrizio” che in nome del cattolicesimo combatterono invece con i
franchisti.
Non bisogna neanche dimenticare che, con tutto il loro cattolicesimo intransigente,
gli irlandesi alla fine del Settecento non ebbero remore ad accettare l’aiuto
della Francia giacobina per i loro tentativi insurrezionali. Ma il fatto
è che all’epoca presbiteriani e cattolici erano uniti nella
lotta contro il potere anglicano, anche perché entrambi esclusi dai
diritti civili. E ci sarebbe voluto un secolo perché la sempre più
marcata cattolicizzazione del nazionalismo irlandese ributtasse i protestanti
nelle braccia del lealismo.
Un punto di svolta fu probabilmente lo scandalo che nel 1889 travolse il
leader nazionalista protestante Charles Stewart Parnell, sposatosi a una
sua ex amante da cui il marito aveva divorziato in seguito a quell’adulterio,
e dunque demonizzato dai pulpiti cattolici, malgrado una vita trascorsa
a difendere la causa irlandese. Altro particolare poco noto ma importante:
nel 1182 re Enrico II d’Inghilterra iniziò la conquista dell’Irlanda
proprio con l’aiuto e l’incoraggiamento del Papato, che non
ne poteva più delle smanie di autonomia liturgica e dottrinale della
Chiesa locale. Fu solo per l’incidente di percorso che spinse Enrico
VIII a litigare con Roma per Anna Bolena se, divenuti eretici i re inglesi
ex “difensori della fede”, furono invece rivalutati come “popolo
difensore della fede” gli ex eretici. D’altra parte, se gli
Stuart furono dei campioni del cattolicesimo, sia pure con qualche ambiguità,
la Scozia è invece stata una roccaforte del calvinismo, e il Galles
del metodismo. E fu il celtico Pelagio agli albori della Chiesa a predicare
quell’eresia liberal ante litteram secondo cui il peccato originale
non esisteva, e che tanto fece infuriare Sant’Agostino. Il nome greco
del grande eretico, “uomo del mare”, non era altro che la traduzione
di un originale britannico Morgan, tuttora ampiamente diffuso in Galles.
Ma vogliamo proprio puntualizzare tutto fino in fondo? In realtà,
non è neanche del tutto corretto dire che l’Inghilterra “conquistò”
la Scozia e il Galles. È vero infatti che nel 1282 quest’ultima
regione era stata occupata da Edoardo I. Ma nel 1485 fu invece un esercito
gallese a sconfiggere a Bosworth Field il re inglese Riccardo III, che trovò
la morte gridando la famosa frase shakespeariana «Il mio regno per
un cavallo!». Solo che il vincitore Enrico Twdwr, inglesizzato in
Tudor, era sì discendente diretto di Rhys ap Gruffydd, leader della
resistenza anti-inglese nel XII secolo. Ma suo nonno Owain aveva sposato
in segreto Caterina di Valois, vedova del re d’Inghilterra Enrico
V, mentre suo padre Edmund aveva sposato una discendente di re Edoardo III.
Piuttosto che dare l’indipendenza alla sua terra preferì dunque
rivendicare la corona di Inghilterra e Galles assieme, col nome di Enrico
VII. Fu tra l’altro per sostenere le sue pretese dinastiche che fece
scrivere la storia di re Artù, dando poi il nome di Arturo al suo
primogenito, morto prima di ascendere al trono. E fu anzi durante il regno
di suo figlio Enrico VIII, il secondogenito, che l’Act of Union del
1536 sancì la formale annessione del Galles all’Inghilterra.
Quanto alla Scozia, era invece arrivata indipendente all’età
moderna, malgrado i reiterati tentativi di occupazione fatti dagli inglesi
nel Medio Evo. Non fu conquistata, ma fu il re di Scozia Giacomo VI Stuart,
figlio della famosa Maria Stuarta, che ereditò come Giacomo I il
trono d’Inghilterra alla morte di sua zia Elisabetta I, la nubile
figlia di Enrico VIII. Che poi essendo l’Inghilterra più ricca
e popolata sia stata la Scozia a essere fagocitata nell’abbraccio,
questo è un altro paio di maniche...
Eredità
celtica, ce n’è per tutti
Tornando
alla destra, si può ricordare che dalla sovrapposizione della croce
cristiana al simbolo solare dei druidi, al tempo della predicazione di San
Patrizio, nacque la croce celtica. E dai cimiteri irlandesi questo segno
è rimbalzato nella simbologia dell’estrema destra europea,
da quando negli anni Trenta i fascisti francesi decisero di lanciarlo come
emblema politico-esoterico affiancabile alla svastica tedesca e al fascio
littorio italiano. Ma in campo ambientalista e new age si ricorda invece
oggi che quella dei celti era una religione ecologista, collegata ai boschi,
alle sorgenti, alla natura. Già dai tempi della Norma di Bellini
il grande pubblico conosce i druidi come sacerdoti che accettavano la parità
dei sessi, ammettendo nei propri ranghi le donne. Naturalmente, queste mitologie
libertarie lasciano scettici gli studiosi più preparati. «I
celti erano governati da oligarchie militari, non hanno mai mostrato una
capacità di aggregazione politica», ci diceva nel 1991 Sabatino
Moscati. «Ma dedurre da ciò una vera e propria ideologia è
confondere la realtà».
In effetti, fu la loro incapacità di organizzarsi di fronte alla
minaccia di latini, germani e slavi a cancellare i celti dal continente.
E anche a impedire ai celti britanno-gaelici, pur protetti dalla marginalità
geografica, di salvaguardare la loro indipendenza da Inghilterra e Francia.
Tuttavia, proprio dalla loro evanescenza deriva una scarsezza di informazioni
per cui ognuno può trarre acqua al suo mulino. Se gli ecologisti
si sono richiamati al loro naturalismo, e il radicalismo di destra ne ha
esaltato il tradizionalismo, la corrente democratica francese ha invece
cercato nella loro storia le radici della sovranità popolare. «I
nostri antenati i galli» inizia il famoso libro di storia della scuola
laica e repubblicana, e fu un popolare slogan della rivoluzione francese,
quello della rivolta del popolo gallo-romano contro i discendenti degli
invasori germanici, che Sieyès incitava a «rispedire nelle
foreste della Franconia». Si può aggiungere il “comunismo
primitivo”, che ha ammaliato i marxisti fino alla passione no global
per l’icona “anti-imperialista” di Asterix; la refrattarietà
all’idea di Stato, che piace ai liberisti; la resistenza dei culti
druidici alla cristianizzazione e lo spiritualismo panteista, che hanno
affascinato i mistici, e di cui un’eco in stile new age faceva spesso
capolino sul quotidiano leghista Padania all’epoca della “fase
indipendentista” del 1996-2000, quando il centro dell’immaginario
leghista erano le ampolle con l’acqua del “Dio Po”. Ma
va ricordato che la fase “celtica” venne nella Lega dopo la
mania per Alberto da Giussano e le nostalgie asburgiche del primo periodo
autonomista, e anche dopo la riscoperta longobarda del secondo periodo federalista.
Dopo il 2000, con il ritorno nella Casa delle Libertà, la Lega ha
iniziato una quarta fase, ispirata ormai al cattolicesimo tradizionalista.
Ma nessuno di questi passaggi è rimasto senza residui, e se della
fase Alberto da Giussano resta ad esempio il simbolo, all’infatuazione
per Brenno e Braveheart si deve la passione tuttora viva nel “popolo
padano” per la musica celtica, simboleggiata da quel concorrente del
“Grande Fratello” che si era presentato alla “Casa”
con kilt e cornamusa. Ma, appunto, la musica celtica la ascoltano notoriamente
anche i giovani di destra. Mentre negli anni Settanta Allan Stivell e i
complessi irlandesi irruppero in Italia nell’ambito di quella stessa
moda per il folk che aveva accompagnato l’ascesa del pci tra 1974
e 1978, e di cui fu la massima icona il successo degli Inti Illimani. Un
dato curioso è che nello stesso Cile di oggi la musica celtica è
ormai più popolare di quella andina, al punto che i protagonisti
dei romanzi di Marcela Serrano si accendono di emozioni all’ascoltare
Loreena McKennitt.
La
musica che non c’è
Insomma,
se come spiegavamo in passato quella andina è una musica considerata
di sinistra che però nacque col concorso della Cia e finì
per fare da colonna sonora alla caduta del comunismo, la musica celtica
ha un’adattabilità ancora maggiore. Resta però un dubbio,
legato alla già citata inconsistenza musicale dei reperti archeologici
sui celti antichi e all’altrettanto citata origine mediterranea della
zampogna: ma la musica che viene definita celtica è poi veramente
tale? In effetti un grande ruolo nella nascita di questa etichetta l’ha
avuto il già citato polistrumentista bretone Alan Stivell, che in
effetti si chiama Alan Cochevelou, e che è nato in Borgogna (nel
1944) e cresciuto a Parigi. Ma bretone era suo padre, che faceva il musicologo,
e che quando aveva 9 anni gli costruì una telenn: un’arpa identica
a quella che in Bretagna si era usata fino alla fine del Medio Evo. Va detto
che quello era stato uno strumento dell’aristocrazia, non popolare.
E anche che dopo la sua estinzione era conosciuto unicamente attraverso
referenze iconografiche, tant’è che papà Cochevelou
aveva dovuto dare un’occhiata alla tuttora esistente arpa irlandese
per compiere il suo lavoro. In compenso, Cochevolu figlio ne divenne un
virtuoso, appassionandosi anche all’idea di far “risorgere”
le antiche culture celtiche al punto da assumere appunto il nome d’arte
di Stivell: in bretone “sorgente”, ma anche ipotetica ricostruzione
dell’etimologia di Cochevelou in kozh stivelloù, “vecchie
fontane”. Così studiò anche il bretone, per recarsi
poi in Scozia a imparare la locale cornamusa. Nei 26 album da lui incisi
tra 1961 e 2002 si esibisce praticamente in tutte le varietà di arpa,
zampogna, oboe e flauto dei vari paesi celtici, e canta anche in tutte le
lingue celtiche conosciute vive e morte, oltre che in inglese e francese.
«Abbatteremo i muri di vergogna che ci impediscono di guardare il
mare/ le torri che ci separano dai nostri stretti fratelli di Scozia, di
Galles e d’Irlanda», diceva una sua composizione (in francese)
del 1974.
In concomitanza col suo successo è cresciuto anche un nuovo movimento
regionalista bretone che, a differenza di quello degli anni Quaranta, è
oggi orientato su posizioni di sinistra, anche se elettoralmente conta poco.
Negli anni Settanta c’è stato perfino quale fugace attentato
di un movimento terrorista ispirato all’ira e all’eta. Ma l’importanza
del revival celtico in Bretagna è stata soprattutto culturale, con
la creazione della vasta rete di scuole in bretone Diwan e con la rete altrettanto
ampia delle orchestre Bagad. Oltre che con i dischi di Alan Stivell la Bretagna
ha poi contribuito al boom dell’idea di panceltismo musicale con il
Festival Interceltico di Lorient, che nato nel 1971 è ormai arrivato
alla trentacinquesima edizione. E lì la fusione tra l’aggressiva
ideologia panceltista bretone, il successo che la musica irlandese già
riscuoteva sul mercato Usa e l’immagine tradizionalmente forte del
folklore scozzese ha fatto il resto. Ironicamente, quello che rimane defilato
è il Galles, pur essendo la regione al mondo dove una lingua celtica
è più diffusa.
Non solo, comunque, il successo della musica celtica ha spinto varie regioni
d’Europa a imitare la richiesta di “ammissione” al celtismo
già riuscita alla Galizia. Un po’ in tutta Europa il modello
bretone-irlandese-scozzese ha influenzato in profondità gli arrangiamenti
e la scelta strumentale dei complessi di folk revival, alle prese col problema
di un repertorio che spesso è raccolto dalla voce di informatori
anziani come melodia nuda e cruda. In Italia questo è stato in particolare
il caso del Nord, che come tutte le aree più sviluppate ha conservato
di meno certe tradizioni organologiche invece ancora presenti nel Centro-sud.
È stato per questo, molto più che per l’influenza leghista
o per improbabili affinità elettive pre-romane, se oggi in alta Italia
l’arrangiamento in stile celto-irlandese è dominante. Paradossalmente,
anzi, in genere nei festival leghisti, a presenza più popolare che
intellettuale, la proposta di “folklore padano” è invece
fatta in quello stile liscio-coro alpino che deriva dalla musica leggera
italiana pre-era del rock, e che resta l’unica grande “confezione”
alternativa al modello celtico.
Naturalmente, in questo modo una grammatica musicale comune alla fine si
è creata. Ma, come è facile da capire, più per uno
sforzo ideologico consapevole che non per vera e propria riscoperta di una
ipotetica cultura pervenuta dall’antichità. Lo stesso Stivell,
in particolare, ha orientato la propria ricerca verso un filone strumentale
volutamente arcaizzante di arpe e fiati, trascurando del tutto quell’organetto
che invece nel folklore bretone recente ha avuto un’influenza massiccia,
al punto che i preti dai pulpiti lo avevano ribattezzato “scatola
del diavolo”. Ma questa ricerca melodico-armonica aristocratica non
ha in compenso disdegnato i flirt ritmici più spericolati con bassi,
chitarre elettriche e batterie, secondo la moda rock degli anni Sessanta.
Allo stesso modo, quel che oggi è considerato l’organico tipico
del complesso irlandese è stato messo assieme dall’industria
discografica statunitense, alla voluta ricerca di un prodotto in grado di
interessare il campanilismo della vastissima comunità di oriundi
irlandesi degli States. Così ad esempio si è imposto l’accompagnamento
della chitarra, non a caso non presente nella più purista strumentazione
dei Chieftains. Allo stesso modo si è reso onnipresente il tamburello
bodhran, che in precedenza era usato sempre da solo, e essenzialmente in
contesti rituali. Insomma, l’orchestrina irlandese al cui suono saltellano
Leonardo di Caprio e Kate Winslet in Titanic non è anch’essa
più storica dei kilt di Braveheart o del romano con l’orologio.
D’altra parte, anche l’organico tipico della bagad si forma
tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Cinquanta, quando si
decise di adottare la cornamusa scozzese al fianco e spesso anche al posto
del più antico ma meno versatile biniou bretone. Sia il biniou che
la bagpipe scozzese, ribattezzata biniou braz (=grande), fanno coppia con
quel tipo di oboe popolare senza chiavi che in Bretagna chiamano bombarde,
e che corrisponde strettamente al piffero dell’Italia del Nord e alla
ciaramella dell’Italia centro-meridionale. La concomitanza di date
lascia intuire che un gran ruolo lo ebbe sia lo sbarco dei reggimenti Highlanders
durante il d-day, sia l’esilio di soldati bretoni in Gran Bretagna
al seguito di De Gaulle. Altre tradizioni vanno più indietro, ma
ben di rado oltre i tre o quattro secoli, e mai fino all’anno Mille.
Anche lasciando da parte quello storico normanno Giraldus Cambrensis che
nel XIII secolo testimoniava come i gaeli non avessero fatto altro che copiare
la musica dei vichinghi, una ricerca attenta dimostra come in realtà
anche le famose danze irlandesi non sono in gran parte che balli di corte
della Parigi di Napoleone, mentre nel folklore bretone ci sono addirittura
le tarantelle e le monferrine che i reduci dello stesso Napoleone avevano
appreso durante le campagne d’Italia. Pure l’Italia centra molto
nello stile di Turlogh O’ Carolan: il mitico arpista irlandese vissuto
tra 1670 e 1738, e le cui oltre 200 composizioni sono alla base di quel
moderno mito dell’arpa celtica cui ha attinto lo stesso Stivell. Al
suo tempo a Dublino erano infatti di gran moda compositori nostrani come
Corelli, Vivaldi e Geminiani, e in particolare di Corelli O’ Carolan
era un grande ammiratore. Alcuni studiosi ritengono che la particolare composizione
chiamata dall’arpista planxty, solitamente in tempo di 6/8, fosse
un tentativo di imitare quel particolare movimento chiamato giga, presente
solitamente come chiusura delle sonate composte dagli autori italiani. E
la scuola violinistica italiana del Seicento e Settecento sembra centrare
molto anche nel famoso stile dei suonatori irlandesi e scozzesi, passato
poi con l’emigrazione d’oltre Atlantico a determinare certi
tipici stilemi del country statunitense.
D’altra parte, se la musica irlandese e scozzese deriva molto di più
dall’Italia che dagli antichi celti, in compenso a un’analisi
musicologica non sembra poi imparentata alla musica bretone come il mito
panceltista suggerisce. Identificando le melodie in modo empirico a partire
dall’ultima nota uno studio di Breandán Breathnach ha infatti
stimato in oltre il 60 per cento le melodie irlandesi in modo di do, contro
il 15 per cento in modo di sol o misolidio, il 10 per cento in re o dorico
e l’altro 15 per cento in la. E proporzioni simili ha la musica scozzese,
pur con qualche differenza: quasi assenza del dorico nelle Lowlands; una
certa presenza del mi (frigio); e qualche esempio del fa (lidio). Inoltre
le scale penatoniche ed esatoniche appaiono in estinzione, attraverso la
diffusa pratica del “riempimento” dei gradi mancanti. Al contrario,
la musica bretone presenta un universo modale completo, con melodie in tutti
e sette i toni, scale pentatoniche e esatoniche diverse da quelle “riempite”
in Scozia e Irlanda, e anche scale di quattro e perfino tre note. «A
prescindere dall’utilizzo di scale minori melodiche, o comunque con
occasionali alterazioni della sensibile di sapore tonale, e dell’impiego
occasionale di cromatismi che rimandano alle scale arabe ed ebraiche»,
scrivono i musicologi Raffaello Carabini, Gianni Cunich e Giancarlo Nostrini,
«la musica bretone sembra effettivamente un esempio quasi unico di
sopravvivenza dell’universo musicale medievale sino ai nostri giorni.
Se appare suggestiva la tesi che in questo caso possa aver conservata almeno
un’essenza dell’originaria genuina identità celtica della
cultura bretone, è assai più verosimile sostenere che a plasmarla
sia stata l’influenza del canto gregoriano, e in definitiva, come
alcuni studiosi bretoni hanno efficacemente sottolineato, essa ha probabilmente
più punti di contatto con le musiche dei paesi dell’estremo
Oriente che con altre tradizioni “cugine” di Irlanda e Scozia».
Insomma, la musica celtica è come il Cavaliere Inesistente di Italo
Calvino. Non c’è, ma sa di esserci.
Maurizio Stefanini, giornalista e saggista.
(c)
Ideazione.com (2006)
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