Durante la guerra fredda la Turchia ha giocato un ruolo essenziale per la sicurezza dell’Occidente. Ha costituito il fianco Sud della nato, impedendo la penetrazione sovietica verso il Mediterraneo e, assieme all’Iran dello Shah, allora alleato degli Stati Uniti, verso il Golfo. Ha costituito anche un avamposto occidentale verso Est.
Dopo il crollo del muro, il ruolo geopolitico della Turchia è completamente mutato. È divenuto più importante, ma si è differenziato a seconda che venga considerato con un’ottica americana o una europea. Muterà ancora a seconda che i legami di Ankara con Bruxelles divengano più organici e che la Turchia entri a far parte dell’ue, oppure che il processo di ammissione nell’Unione si rallenti o si interrompa e che la Turchia decida di assumere un ruolo geopolitico autonomo, in cui prevarrebbero le sue radici islamiche.
L’entrata della Turchia nell’Unione Europea modificherebbe poi profondamente la natura stessa di quest’ultima, mentre la sua esclusione muterebbe molto probabilmente gli attuali assetti interni della Turchia, di Stato secolare, caratterizzato da un islamismo moderato. Va da sé che la re-islamizzazione della Turchia – finora efficacemente contrastata dalla borghesia imprenditoriale turca e soprattutto dalle forze armate, eredi della tradizione kemalista – allontanerebbe la Turchia dall’Europa e dagli Stati Uniti, trasformandola in un avamposto dell’Islam. Si tratta di uno scenario preoccupante soprattutto in relazione all’influsso che una Turchia, frustrata e offesa nelle sue aspirazioni di entrare a far parte integrante del club europeo, potrebbe avere sui musulmani balcanici e soprattutto sui milioni di immigrati islamici in Europa. Ankara si sentirebbe tradita. È infatti consapevole del ruolo cruciale che ha giocato a favore dell’Occidente nei quarantacinque anni della guerra fredda. L’esclusione avrebbe ripercussioni molto rilevanti.
Tra l’altro confermerebbe – non solo in Turchia ma nell’intero mondo islamico – lo scenario dello “scontro di civiltà” descritto da Samuel Huntington. Secondo il politologo americano, attualmente la Turchia si trova nelle condizioni di un torn country, diviso fra il secolarismo istituzionale imposto da Kemal Ataturk, con la trasformazione dell’impero ottomano in uno Stato-nazione di tipo europeo, e il populismo islamico. L’esclusione dall’Unione – unita alle sue pressioni per Cipro, per il rispetto dei diritti dei curdi e, alquanto contraddittoriamente, per l’aumento del controllo civile sulle forze armate, vere garanti del secolarismo – creerebbe un forte risentimento, le cui conseguenze sono facilmente prevedibili.
Un anticipo degli scenari che potrebbero prospettarsi è dato dalle recenti intese fra Ankara e Teheran sul problema delle irrequiete minoranze curde nei due paesi. Esso potrebbe preludere ad intese più ampie fra i due paesi islamici che etnicamente non sono arabi – ma, anzi, sono storicamente contrapposti agli arabi – e che sono fra i più avanzati sia culturalmente che tecnologicamente di tutto il mondo musulmano. Ciò farebbe cadere i rapporti di collaborazione della Turchia con Israele. Tali rapporti hanno rappresentato un elemento di stabilità in un Medio Oriente i cui equilibri sono attualmente modificati dai successi conseguiti dagli sciiti: in Iran, con l’eliminazione da parte degli Stati Uniti dei suoi due nemici tradizionali, i talebani in Afghanistan e Saddam Hussein in Iraq; con l’aumento del potere dei partiti sciiti non solo in Iraq, ma anche negli Stati del Golfo, dove gli sciiti costituiscono consistenti minoranze; e infine con il successo dell’Hezbollah in Libano. Particolare attenzione va poi rivolta a quanto accade politicamente nelle correnti – collegate almeno indirettamente allo sciismo – degli alawiti siriani e degli alevi turchi. Finora sottomessi al potere sunnita, gli sciiti dell’Iraq, del Golfo e del Libano hanno dimostrato negli ultimi anni un accentuato dinamismo. Una collaborazione fra la Turchia e l’Iran potrebbe dare vigore alle fantasie dell’unità dell’umma, cioè dell’intero mondo islamico, progetto geopolitico che si è da sempre contrapposto a quello dell’unità del mondo arabo.
Dal collasso dell’impero ottomano in poi, la Turchia si è astenuta da interventi e da ingerenze esterne, eccetto nei casi di Cipro, dove è intervenuta nel 1962 e nel 1974, di qualche incursione nella regione curda dell’Iraq e di pressioni sulla Siria, per far cessare il sostegno di Damasco ai guerriglieri curdi del pkk. Tale politica rispetta il programma kemalista ed è fortemente sostenuta dall’esercito. Lo si è visto nelle due guerre del Golfo, a cui la Turchia non ha partecipato. In quella del 2003 non ha poi consentito neppure il transito della quarta Divisione americana, destinata ad attaccare l’Iraq dal Nord.
Diverso è stato il comportamento nei confronti dell’Asia Centrale e dell’Azerbaigian. Soprattutto il presidente Turgut Ozal – quello stesso che nel 1987 aveva presentato domanda di ammissione all’Unione Europea (già nel 1959 la Turchia aveva però chiesto di entrare a far parte della Comunità Economica Europea) – e il presidente Demirel avevano appoggiato una politica di forte presenza turca in tutta l’immensa regione che va dal Caspio alla Cina, abitata prevalentemente da popolazioni turchiche, le quali avevano sempre mantenuto qualche legame con la Turchia. Basti ricordare come il colonnello Enver Pascià, che aveva diretto la resistenza turca in Libia contro gli italiani, sia diventato un eroe dell’indipendenza del Turkestan negli anni Venti contro la riconquista dell’Armata Rossa. Il prestigio della Turchia nella regione – pur limitato dalle sue ridotte risorse finanziarie e dalle satrapie politiche dominanti in Asia Centrale – non è trascurabile. È stato utilizzato soprattutto dagli Stati Uniti e dalla Germania e potrebbe costituire un vero e proprio asset per l’intera Unione Europea, soprattutto nel suo tentativo di differenziare le sue fonti di riferimento energetico. Ciò implica però la necessità da un lato che le vie di trasporto del gas e del petrolio non vengano controllate da Mosca e, dall’altro lato, che l’Asia Centrale non cada nell’orbita cinese.
Anche in questo caso, il riavvicinamento fra la Turchia e l’Iran potrà avere impatti geopolitici molto importanti, data la tradizionale presenza della brillante cultura persiana in tutta l’Asia Centrale. Ciò, da un lato, aumenta l’importanza geopolitica della Turchia per il futuro dell’Europa e, dall’altro lato, sottolinea la necessità di un accordo – di solito ricondotto solo alle difficoltà incontrate in Iraq – fra gli Stati Uniti e l’Iran. Qualora ciò non avvenisse, Teheran – che già partecipa come osservatore allo sco (Shanghai Cooperation Organization) e che ha ricevuto cospicui investimenti cinesi e indiani nel settore petrolifero – verrebbe inevitabilmente attirata nell’orbita geopolitica di Pechino. La Cina sta costruendo una moderna rete infrastrutturale sia verso l’Asia Centrale sia attraverso il Pakistan, che la potrebbe collegare con il Golfo, anche per via terrestre. La linea di confronto fra l’Occidente e la Cina non si situerebbe solo sul Pacifico, ma anche ad Ovest, sul Golfo. La sicurezza energetica dell’Europa verrebbe così a dipendere dalla Cina, mentre le teocrazie petrolifere sunnite, che finora hanno sostenuto gli interessi occidentali, correrebbero un nuovo pericolo, molto più serio di quello rappresentato dal fondamentalismo safarita o dall’aumento del potere sciita.
Per inciso, ciò sottolinea anche l’importanza sempre più vitale del corridoio Baku-Tbilisi-Ceylan per la sicurezza energetica dell’Europa e di quella del corridoio Europa Centrale-Mar Nero-Caucaso-Asia Centrale (traceca), per lo sviluppo di una nuova “via della seta”.
Da quanto sopra detto appare evidente l’importanza geopolitica non solo regionale ma globale della Turchia e l’impatto che essa avrà sugli equilibri dell’intera Eurasia.
Avamposto, ponte o barriera: i ruoli geopolitici
della Turchia
Il primo ruolo geopolitico che può giocare la Turchia è quello di avamposto
dell’Europa verso il Medio Oriente, il Golfo e il Caucaso. La possibilità di
svolgere tale ruolo è subordinata a diverse condizioni. Innanzitutto,
all’entrata della Turchia nell’Unione Europea. Poi, al fatto che l’Europa si
risvegli dal suo attuale “torpore” o “paralisi geopolitica” e si metta in
condizioni di avere una politica estera veramente comune, dotandosi anche
dei mezzi necessari – militari e non – per realizzarla. Di fatto, queste due
prime condizioni sono contraddittorie. L’ammissione della Turchia all’ue
consente un’esportazione della stabilità istituzionale, sociale ed economica
europea, ma comporta l’importazione di instabilità o, quanto meno, una
maggiore disomogeneità in Europa. Essa renderebbe ancora più difficile una
politica comune. Perché tale pericolo non si materializzi occorre un
rafforzamento dei legami transatlantici. L’esperienza del passato ha
dimostrato come non solo contro, ma anche senza gli Stati Uniti, l’Unione
Europea tenda a dividersi. Quindi, perché la Turchia possa giocare appieno
il ruolo di avamposto occorre che l’Occidente sia in grado di conciliare
percezioni ed interessi europei ed americani, che nel Medio Oriente e nel
Golfo sono oggi spesso contrapposti. Evidentemente la Turchia si presterà a
giocare tale ruolo solo se avrà benefici politici ed economici tali da
indurla a proseguire nel processo di modernizzazione del paese e a
consolidare il secolarismo istituzionale interno rispetto all’islamismo.
Come già accennato, qualora la Turchia non dovesse essere ammessa all’Unione
e si determinasse il prevalere di tendenze nazional-islamiste, essa potrebbe
giocare un ruolo inverso: quello di avamposto dell’Islam verso l’Europa.
Il secondo ruolo che gioca la Turchia è quello di barriera, cioè di Stato cuscinetto fra l’Europa e il Medio Oriente. Sarebbe un ruolo analogo a quello che ha svolto durante la guerra fredda nei confronti dell’urss. Beninteso, Ankara potrebbe accettare di svolgere tale ruolo, solo in cambio di benefici adeguati. Essi dovrebbero essere soprattutto economici, con forti sostegni europei anche finanziari che configurerebbero quella sorta di special partnership che taluni politici europei hanno proposto in alternativa alla membership turca nell’Unione. Si tratta di un’eventualità che ritengo alquanto improbabile, anche in relazione all’orgoglio e al nazionalismo turco. La loro azione potrebbe travolgere la difesa delle componenti più occidentalizzate della società turca, dalla borghesia imprenditoriale alle forze armate. L’islamismo populista avrebbe quindi grandi probabilità di prevalere. Il tentativo di strumentalizzare la Turchia come barriera a protezione dell’Europa finirebbe quindi per trasformarne il ruolo geopolitico turco in quello di avamposto dell’Islam verso l’Europa. Ciò comporterebbe fra l’altro la fine di ogni progetto o speranza di democratizzare l’Islam. Inevitabilmente la Turchia sarebbe risucchiata verso l’Iran e, tramite esso, verso la Cina. La linea di contatto fra Cina e Occidente potrebbe spostarsi addirittura al Mediterraneo Orientale.
Un terzo ruolo geopolitico che gioca la Turchia è quello di ponte. Tale ruolo di collegamento – che potrebbe essere sia cooperativo che competitivo – è proteiforme. In primo luogo, la funzione di ponte sarebbe fra l’Europa, il Medio Oriente, il Golfo, il Caucaso e l’Asia Centrale. In secondo luogo, tale ruolo si esplicherebbe fra gli islamismi moderati, almeno in parte secolarizzati, compatibili con i principi di democrazia e di libertà occidentali. In terzo luogo, il territorio turco servirebbe da ponte per i rifornimenti energetici dell’Europa. L’Europa potrebbe affrancarsi almeno parzialmente dalla dipendenza dall’instabile area del Golfo da un lato e da quella della Federazione Russa dall’altro, contenendo anche le tendenze di quest’ultima di utilizzare petrolio e gas come strumenti di pressione politica. Il Blue Stream fra Baku, Tbilisi e Ceylan potrebbe essere ulteriormente potenziato per consentire l’accesso al petrolio del Kazakstan e al gas del Turkmenistan. Con la stabilizzazione dell’Iraq, potrebbe essere ripristinato l’oleodotto fra Kirkuk e Ceylan. Esso sarebbe analogo per il Sud al Baltic Stream di Putin e Schröder per il Nord Europa. Le royalties che riceverebbe la Turchia faciliterebbero il rafforzamento della sua economia, già peraltro uscita negli ultimi cinque anni dalla crisi che aveva conosciuto nel decennio precedente.
Tali tre ruoli della Turchia coesistono nella politica estera di Ankara, con importanza variabile a seconda del contesto interno ed esterno. Il fattore fondamentale al riguardo sarà costituito dall’ammissione o no della Turchia nell’ue.
Conseguenze dell’ammissione della Turchia
nell’Unione Europea
È superfluo ricordare come l’entrata della Turchia nell’ue incontri notevoli
difficoltà, soprattutto per la progressiva chiusura dell’Europa su se
stessa, i ritorni dei nazionalismi e dei protezionismi, le reazioni contro
l’immigrazione extracomunitaria, la mancata ratifica del trattato
costituzionale europeo, le difficoltà dei rapporti fra l’Europa e gli Stati
Uniti per la crisi dell’Iraq, e così via. Eppure i vantaggi che ne
riceverebbe l’Europa e la stessa possibilità dell’ue di essere un attore
geopolitico globale o almeno un partner efficiente e quindi rispettato dagli
usa, dipendono principalmente dalla capacità dell’ue di accogliere la
Turchia come membro.
L’esclusione avrebbe ripercussioni ben più estese del fatto in se stesso. L’ue si configurerebbe come un club cristiano necessariamente incompatibile e contrapposto all’Islam. Gli scenari prefigurati da Huntington diventerebbero una realtà, in particolare quello, che finora veniva giudicato del tutto fantasioso, di un’alleanza confuciano-islamica.
Nel contempo, a parte le difficoltà di ammissione nell’ue come attualmente configurata, la membership della Turchia muterebbe profondamente sia la geopolitica sia le strutture dell’attuale Unione. L’ue verrebbe a contatto con la regione più turbolenta del pianeta e le sue responsabilità anche geostrategiche aumenterebbero notevolmente, obbligandola tra l’altro – come già accennato – ad un rafforzamento dei legami con gli Stati Uniti, oltre che a dotarsi degli strumenti militari ed economici necessari. Dall’altro lato, l’ammissione della Turchia comporterebbe formalmente o di fatto la costituzione di un’Unione a cerchi concentrici, con livelli d’integrazione decrescente da un centro – il “nucleo duro” o il “direttorio europeo”, capace di esprimere una pesc comune e una pesd efficace – ad una periferica con caratteristiche sostanzialmente di zona di libero scambio o di unione doganale. I confini fra i vari cerchi dovrebbero essere aperti e resi flessibili e dinamici con i meccanismi delle cooperazioni rafforzate o strutturate che unirebbero i paesi della fascia intermedia.
All’interno dell’ue vivono già una quindicina di milioni di immigrati musulmani. Nel tentativo di integrarli, vari Stati europei manifestavano una crescente tendenza a concedere loro la cittadinanza. Molti temono che l’entrata della Turchia nell’Unione possa stimolare la costituzione di partiti islamici e che questi ultimi divengano l’ago della bilancia fra le tendenze conservatrici e quelle riformiste esistenti in Europa. Personalmente ritengo che tale pericolo non esista, ma che, anzi, l’ammissione della Turchia e il conseguente rafforzamento del suo secolarismo interno possano costituire un fattore di stabilità per l’Europa, facilitando l’integrazione degli immigrati in un’Unione che non deve costituire un progetto culturale, ma uno politico, economico e sociale; un progetto aperto, non uno chiuso. Ciò avrebbe importanti conseguenze positive, dato che – a differenza degli Stati Uniti, dove il terrorismo è esterno e il melting pot funziona anche per gli immigrati islamici – in Europa il terrorismo di matrice islamica è soprattutto interno e viene alimentato dagli appartenenti alla seconda o terza generazione di immigrati. La percezione della trasformazione dell’Unione Europea in un’Unione Cristiana avrebbe effetti sconvolgenti sulla stabilità e la sicurezza interna degli Stati europei. Gli immigrati verrebbero considerati una “quinta colonna”, minacciosa per la sicurezza e per la stessa identità europea.
La fine della guerra fredda ha conferito maggiore importanza geopolitica alla Turchia. Essa dipenderà dalle decisioni che verranno prese. Il bilanciamento tra i tre ruoli geopolitici del paese – di avamposto, di barriera e di ponte – sarà grandemente influenzato dall’ammissione nell’ue. Le conseguenze di quest’ultima supereranno di gran lunga il quadro regionale. Influirebbero non solo sulle prospettive della stabilità interna europea e sulla natura stessa dell’Unione, ma anche sugli assetti geopolitici mondiali. In caso di esclusione della Turchia potrebbe avverarsi la tesi di Huntington – che, come si è detto, finora sembrava fantasiosa – di un’alleanza confuciano-islamica. La linea del confronto fra Cina e Occidente non si sposterebbe solo al Golfo, come Pechino tenta di fare ammettendo Teheran come osservatore permanente alla Shanghai Cooperation Organization, ma addirittura al Mediterraneo orientale, possibilità questa che è stata sicuramente considerata dagli strateghi cinesi nella loro decisione di inviare un contingente militare in Libano.
Carlo Jean, docente di Studi strategici all’Università Luiss-Guido Carli di Roma.
(c)
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