Non è gente di piazza. Lo capisci da come si muovono, con il sorriso che nasconde i gesti impacciati, come se San Giovanni in Laterano fosse il salotto di una casa troppo grande. Eppure, dicono, sono più di un milione. E in fondo è quasi una sorpresa. È uno strano autunno questo, di un caldo insolito, tiepido, ma che dura a lungo. Molti di loro sono artigiani e commercianti, la spina dorsale sommersa di questo paese. È da tempo che rifletti sul destino di questa categoria sociale. Li vedi, tutti i giorni. Li conosci. Non sono ombre. Vai dal tabaccaio a comprare le sigarette, entri in un forno e ne assapori l’odore, chiedi al meccanico la ricevuta fiscale con quell’aria da gendarme che invita a non fare il furbo, guardi con astio l’idraulico a cui hai appena chiesto: “quant’è?”, leggi curioso quanto ti costa il coperto al ristorante. Sai che esistono, lavorano, guadagnano. Ma ti accorgi adesso che mai nessuno li ha raccontati. Non ti viene in mente un grande romanzo sociale o una saga su una famiglia di commercianti o artigiani, qualcosa di simile ai Buddenbrook di Thomas Mann o ai braccianti di Silone, un lessico familiare o una stagione di vita pasoliniana, una madelaine degna di Proust. Magari non c’è. Eppure molti scrittori vengono da lì, da quel ceto né alto né basso, né troppo povero né abbastanza ricco. È da lì che arriva lo speziale Dante. Figli di commercianti erano Defoe, Kafka, Svevo, gente che ha generato o arricchito il romanzo borghese, quasi sempre ribellandosi al mondo dei padri, ai loro orizzonti, ai soldi con cui hanno studiato. Ed è normale che sia così, ma di questi padri, di queste famiglie, non resta traccia. Strano destino, davvero. Il capitalista ha avuto la sua filosofia, l’operaio ha avuto Marx e il comunismo, i colletti bianchi pagine e pagine di sociologia, il contadino i suoi pezzi di nostalgia, architrave di tutte le stagioni anti-moderne, da Virgilio a Pasolini, dall’Arcadia ai no global. E in questo orizzonte il commerciante è ancora più povero dell’artigiano, che se la cava con una fama da artista minore. Al bottegaio anche questa porta è chiusa. E allora si parta da qui, da questo nulla di identità e rappresentazione, dall’indifferenza della storia, che cancella insegne e mestieri, per capire costa sta accadendo. Quelli che non contano, che non si sono mai contati, sono scesi in piazza. La maggioranza silenziosa? Forse. Il popolo senza bandiere e ideologie? Può darsi. La corrente grigia che attraversa i secoli? Non sottovalutatela. Quella anomalia nel materialismo dialettico che è rimasta a metà strada tra il capitale e il lavoro, così testarda da resistere a rivoluzioni e restaurazioni? Meno male. È un segno anche questo che il Novecento è finito.
Prodi chiede denaro. Ma in nome di quale Dio?
I fischi di Bologna e la rabbia di Mirafiori, simbolo di ciò che è rimasto
della classe operaia, i precari in fila, sedotti e abbandonati, i sorrisi
delle Coop e quel concordato con banche e finanzieri, come se questo fosse
davvero il governo della moneta irreale, fittizia, che finalmente conta
sulla corrispondenza di razza e lignaggio con il nuovo re di Bankitalia.
Liberi dall’ingombro del ciociaro Fazio ora si può giocare al risiko delle
banche. Peccato che Prodi e la sua maggioranza guardano all’Italia con
ghigno punitivo, con i Verdi che hanno sposato in pieno il modello di vita
degli Amish. Vade retro progresso. Con gli appelli post-comunisti contro i
ricchi, con il garantismo seppellito, con la giustizia declinata in
vendetta. Ti capita in mano un libretto pubblicato in 2000 copie
dall’Insegna del pesce rosso. La data dice che è del 1975. L’autore è uno
storico fascista amico di Ezra Pound, uno che piaceva a Prezzolini e non
dispiaceva a Pasolini. Si chiama Fernando Ritter. È morto una ventina di
anni fa. Non c’è nulla di suo nelle tue radici, ma qualcosa nel suo discorso
ti colpisce, qualcosa di quasi profetico. Scrive: «I veri grandi padroni del
capitalismo moderno sono i trafficanti in debiti statali e privati, creatori
di moneta scritturale, cioè di pseudocapitale. Alla lotta di classe è
subentrata così la lotta tra sottoclassi, tra categorie, tra gruppi. Lotta
settoriale, che oppone il proletariato industriale a quello agricolo, il
proletariato dei paesi industrializzati a quello dei paesi in via di
sviluppo, lotta che si è frazionata mettendo i lavoratori dei grandi
complessi industriali, diventati in realtà strumento di amministratori e
sindacalisti, contro i lavoratori della media e piccola industria. E questo
mentre si delinea la lotta dei sessi e quella delle generazioni, che finirà
per opporre duramente i giovani contro i vecchi, sempre più intenti a
scaricare sui primi il peso delle proprie pazzie e della propria
imprevidenza. Lotte di sottoclassi e di categorie sociali, di sessi, di
generazioni, che saranno rese ancora più dure dall’imputridimento delle
strutture sociali». Il titolo del libro è Lo pseudocapitale e sembra il
nostro presente. Il guaio è che di fronte a questo scenario Prodi e la sua
maggioranza non hanno neppure cercato di dare una risposta. Il guaio di
questo governo è che non sai cosa pensa. L’unica cosa che sai è che vuole
qualcosa: denaro. Ma in nome di quale Dio, dopo le stangate degli anni ’90,
dopo la campagna per l’euro, dopo stagioni di cinghie tirate, gli italiani
dovrebbero ancora sacrificarsi?
Non solo tasse. Questa gente è stanca di tante cose
Non è solo una questione di tasse. La voce di questa gente è stanca di tante
cose. Prodi e la sua maggioranza in questi mesi di governo hanno messo su la
faccia più antipatica e hanno riciclato il qualunquismo acido di chi va in
cerca, da sempre, di un capro espiatorio. L’Italia fa fatica a quadrare i
conti, i parametri di Maastricht sono una camicia stretta per il fisico di
questo paese. Il timore di non essere competitivi in un mercato senza
frontiere è reale. Il numero di imprese strategiche, in grado di reggere con
tranquillità tutti i cicli economici, è molto basso. Il pil cresce con un
ritmo da peso welter. I giganti sono un’altra cosa. L’euro ha ridotto i
salari reali, le famiglie spendono e s’indebitano, ma devono comunque fare i
conti con la fine del mese. La fiducia è stata minata dalle prediche di
professori e profeti apocalittici. I consumi frenano. Non c’è davanti un
secolo di carestia, ma la propensione al vittimismo di chi ha facoltà di
parola non aiuta a cambiare marcia. Il mercato, purtroppo, ha la stessa
raffinatezza psicologica di un buttafuori: se ti senti povero, sei povero.
Il resto sono chiacchiere. La ricetta di Prodi, e della sua maggioranza, è
stata questa. Primo pensiero: come riequilibrare il rapporto pil/deficit?
Risposta: facciamo pagare le tasse a chi non le paga. Secondo pensiero: e se
non basta? Risposta: tagliamo le spese senza farlo sapere troppo in giro. Il
primo punto è quello più interessante da analizzare, perché fa emergere
antipatie ancestrali. Gli evasori non hanno nomi e cognomi. Sono una
categoria sociale. Si grida “anche i ricchi piangano”, ma poi i veri ricchi
non si ha neppure il coraggio di guardarli in faccia. È l’antipatia verso
quelli che Paolo Sylos Labini, dall’alto del suo azionismo, bollava come
“piccoli borghesi”, gente misera che pensa solo ad arricchirsi, che ha la
pancia del salumiere e la catena d’oro del macellaio. È lo stereotipo a cui
si affida l’intellettuale quando mal sopporta la ricchezza altrui, che non
arriva dalla prostituzione mentale, dai libri non letti e dalle conferenze
pagate tanto a ora, ma da quel traffico indegno che si chiama commercio, il
mestiere di chi si sveglia la mattina alle sei e va in negozio anche con la
febbre e chiude la sera con l’ansia di chi magari non ce la fa e pensa allo
scoperto in banca, alle fatture da pagare e agli ordini che a Natale non sai
mai se sono troppi o troppo pochi, perché magari quest’anno i panettoni non
si vendono e allora ve li mangiate tu e i tuoi figli prima che scadano. Le
tasse le devi pagare, tanto prima o poi la finanza arriva e ti ribalta i
registri, e magari se hai un’attività che ha a che fare con gli alimentari
arrivano pure i Nas e in Parlamento c’è una legge che pretende di indicare,
tutti i giorni, in un diario, la provenienza di tutti gli ingredienti che
compongono la tua merce. Le uova per la crema da dove le hai prese?
Scrivilo. E il latte? Segna. E tu ti chiedi dove trovi il tempo per lavorare
se tutte le sere ti tocca fare il piccolo scrivano fiorentino. E le tasse
poi bisogna proprio pagarle tutte tutte? Il commercialista dice sì, certo
che così proprio non ci stai. Magari lo Stato le prevede tanto alte perché
sa che c’è un margine di errore, un’evasione, chiamiamola così, fisiologica.
Se le pagano tutti, certo, sarebbero più basse, ma questo è un cane che si
morde la coda. E nel frattempo che tutti pagano e lo Stato tiene sotto
controllo la sua voracità le tue cambiali vanno in protesto. Fallito, razza
d’imbecille di un lavoratore che rischia in proprio. Tu, mediocre via di
mezzo, tra i due feticci della scienza economica: capitale e lavoro,
appunto. Quelli che da una vita cerchi di far dialogare, in questa
schizofrenia da padrone-operaio di se stesso. Ma, comunque, ci sei abituato.
Solo che il governo se ne frega e ti vuole alla gogna.
Entrare nelle loro case e raccontare la loro etica
del lavoro
È questo, più delle tasse, che è difficile da digerire. Questa maggioranza
che ha il volto dei boiardi di Stato, di ex sindacalisti, di intellettuali
che dal vecchio comunismo hanno traghettato l’acrimonia contro la mezza
borghesia e il popolino, ha rispolverato la “guerra di classe”. E la sta
teorizzando con una serie di luoghi comuni. Ecco guardate il nemico dello
Stato, quello che se ne frega del bene pubblico, l’interprete più meschino
dell’individualismo, grasso e ignorante, che vota Berlusconi e guarda le sue
tv, che non legge i nostri libri, che inquina, che depreda il consumatore,
che ha fatto la cresta passando dalla lira all’euro, che specula sulle
miserie umane e, soprattutto, non paga le tasse. Eccolo, l’artigiano e il
commerciante che ha sulla dichiarazione dei redditi la lettera scarlatta
della partita iva. È lui il nuovo kulako da mandare in Siberia a rieducarsi.
L’anarchico senza locomotiva, il reietto che ha fatto della sua casa il suo
castello, della proprietà privata il vessillo contro lo Stato, quel
Leviatano che incarna, a destra come a sinistra, la religione del bene
pubblico. E così sia. Il resto non importa. Le guerre di classe non fanno
prigionieri. Non importa raccontare che commercianti e artigiani non sono
uno stereotipo, come non lo è l’operaio, il contadino, il dipendente
pubblico o il libero professionista. Bisognerebbe entrare nelle case di
questi “piccoli borghesi”, farsi raccontare la loro etica del lavoro, che
non gli dà gloria, ma soddisfazioni quotidiane. Bisognerebbe raccontare le
storie delle loro intraprese, di certi azzardi e di alcune intuizioni,
scelte coraggiose che avrebbero suscitato l’ammirazione di Werner Sombart e
suffragato alcune teorie sul carisma del mercante. Bisognerebbe raccontare
le sfide degli artigiani, di un meccanico con le mani sporche di grasso che
smonta un motore e trova il difetto, come in una vecchia canzone di
Battisti. Bisognerebbe osservare i libri dei loro figli, l’orgoglio di farli
partire da una paesino per guadagnarsi un pezzo di laurea che ormai non vale
più nemmeno un mestiere. Una minoranza, diranno i nemici di classe. Forse
sì, forse no. Neppure l’istat o l’Osservatorio iard li ha mai raccontati. Ma
è come dire che anche gli intellettuali onesti sono una minoranza. È parlare
per sentito dire.
Stanchi di faticare e sentirsi dire ladri. Ma della
destra non si fidano
Molti di quelli che erano lì, in quell’autunno romano, sono scesi in piazza
anche per questo. Erano stanchi di faticare e sentirsi dire ladri. Erano
stanchi di un professore, ex boiardo di Stato, che predicava la pubblica
onestà in nome di non si sa quale Iri. Erano stanchi dei titoli di
Repubblica e dei sermoni di Scalfari, che alla fine dell’omelia, dopo aver
incrociato numeri e teologia, concludeva con un j’accuse di classe e una
domanda retorica: chi volete che frodi il fisco in questo paese se non loro,
quelli della partita iva. Erano stanchi di non essere rappresentati da
nessuno. La destra non ha ancora conquistato la loro fiducia incondizionata.
È una questione di cromosomi culturali. Questa gente ha un’etica quasi
calvinista del lavoro. Bisogna imparare ad ascoltarli. Non amano mischiare
politica e gossip, non amano i portavoce con le veline in grembo, quel
mostrarsi avidi di potere e di tutto ciò che il potere comporta. Qualcuno
potrebbe definire la “piccola borghesia” l’ultima isola delle persone
sobrie, gente che si scandalizza per la malasanità e per le assunzioni
clientelari, gente che non metterà mai piede al Billionaire, neppure per
curiosità. La destra crassa e maccheronica che indossa fuori stagione il
guardaroba di nani e ballerine non interessa. Questo è un punto che
Berlusconi deve capire, risciacquando i volti e i personaggi della sua
classe politica locale. La destra in provincia ha ancora la maschera dei
notabili sopravvissuti alla vecchia repubblica o di nuovi parvenus che
mettono in scena la parodia del berlusconismo, tutti attori con poca
credibilità che vivono di rendita sui voti del proprio leader. È arrivato il
momento, per la destra, di recuperare due attributi latini della grande
politica. La destra deve selezionare una classe dirigente locale e nazionale
sulla base dell’auctoritas e della dignitas. Il carisma e la dignità della
persona, la sua storia, la sua cultura, il suo rigore morale. Basta
ascoltare. A Roma, in piazza San Giovanni, c’era un signore di cinquant’anni,
uno che davvero non ha mai manifestato in vita sua. Fa il gommista in un
paese dell’Umbria. È un piccolo artigiano che va avanti da solo con pochi
operai. Ha le mani grandi e il viso di chi ha faticato una vita. Vi siete
ritrovati seduti a parlare, di personaggi noti, di persone perbene. Diceva,
questo signore: «Lo sa chi mi piace? Quello della Fiat, come si chiama…
Marchionne. Ha rimesso su la baracca senza darsi tante arie. Niente
cravatta, parla come il tipico emigrante abruzzese che ha fatto fortuna in
America, ma va sul concreto e si capisce che un uomo geniale. Un altro così
è Gonfalonieri, uno che ama l’opera, che ti cita le arie di Verdi, un
padrone della tv che non vedi mai abbracciato a qualche ragazzetta in cerca
di fortuna. È questa la gente in cui io mi riconosco. E non credo di essere
il solo. La destra dovrebbe dare spazio a tipi così». E forse davvero
qualcuno dovrebbe raccontarli.
Vittorio Macioce, caposervizio de il Giornale
(c)
Ideazione.com (2006)
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