L'Europa del sì
di Domenico Naso
Ideazione di gennaio-febbraio 2007

Gli ultimi dati forniti da Eurobarometro sembrano essere piuttosto chiari: la maggioranza degli europei non vuole la Turchia nell’Unione. I cittadini dei venticinque Stati membri sembrano avvertire come una minaccia l’eventuale ingresso di Ankara nella casa comune del Vecchio Continente. Nonostante la radicata e consolidata diffidenza dell’opinione pubblica e l’avversione al progetto di allargamento dell’influente asse franco-tedesco, il difficoltoso cammino di Ankara verso Bruxelles è tuttavia accompagnato dalla posizione favorevole di alcuni altri importanti Stati membri che per ragioni diverse stanno cercando di facilitare, per quanto possibile, i negoziati.

È il caso di Italia, Spagna e Grecia, unite nel loro sì ai turchi da una forte vocazione mediterranea e da interessi economici non trascurabili. L’appoggio alla causa turca di Madrid, Roma e Atene deriva anche da motivi diversi tra loro, di carattere molto più pratico e “terreno” rispetto all’ideale mediterraneo che tanta fortuna ha avuto nella storia dell’umanità. Ma è altrettanto innegabile che i tre Stati abbiano nel loro dna una forte vocazione al dialogo tra le sponde del mare nostrum, tra le culture e le religioni che lo animano. Diverso è il sì inglese, dettato più che altro da motivazioni atlantiche e dalla voglia di continuità tra ue e nato, all’interno della quale la Turchia ha ricoperto per oltre mezzo secolo il ruolo di bastione orientale.

L’Italia è uno dei paesi europei storicamente più favorevoli all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Sono cambiati i governi, le ideologie, le linee politiche, ma un punto fermo nella politica estera nostrana c’è sempre stato: l’appoggio ad Ankara nella sua corsa a ostacoli verso Bruxelles. Il perché va ricercato in differenti fattori storici, economici e politici. La vocazione mediterranea del nostro paese è piuttosto evidente: nonostante la solida alleanza con gli Stati Uniti, infatti, i politici italiani non hanno mai sopito la loro predilezione verso una impostazione della politica estera euroasiatica ed eurocentrica. Allargare l’Unione Europea alla Turchia, dunque, equivarrebbe a soddisfare alcuni decennali indirizzi politici italiani, oltre che riporre al centro la questione mediterranea, alla quale l’Italia è ovviamente legata per motivi geografici, storici ed economici. A riprova della trasversalità politica che accompagna l’appoggio alla causa turca, basta tornare indietro di qualche anno e rileggere alcune dichiarazioni dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: il 13 novembre 2002, durante il primo incontro tra il premier e il fresco trionfatore alle elezioni turche Tayyip Erdogan, le parole di Berlusconi erano già piuttosto chiare: «Siamo il vostro migliore amico nell’Unione Europea. L’Italia vi porterà in Europa»1.

Passano gli anni (e il semestre italiano di presidenza del 2003) ma la sponsorizzazione italiana non si ferma e il 25 maggio 2005 l’allora premier italiano aveva lodato il governo di Ankara affermando che  Erdogan «ha realizzato grandi riforme. Ha realizzato un’azione di governo che ha favorito uno sviluppo fortissimo. Ha portato l’inflazione dal 30-40 per cento a sotto il 10 per cento. Si è costruito un ruolo importante nei rapporti con i leader europei. E ora la Turchia non ha nulla di diverso rispetto agli altri paesi europei. Per questo l’Italia sarà in testa ad aiutare la Turchia nei negoziati»2.

Abbiamo scelto due diversi momenti (inizio e fine) dei cinque anni di governo di Berlusconi, a dimostrazione del fatto che l’appoggio italiano all’ingresso della Turchia in Europa è stato costante e deciso nel quinquennio 2001-2006. I motivi sono molteplici e tutti da analizzare: economici, politici e strategici. L’ingresso della Turchia nell’Unione Europea rappresenterebbe un importante vantaggio commerciale ed economico per il nostro paese. Basti pensare che nei primi due anni di governo Berlusconi l’interscambio commerciale Italia-Turchia è cresciuto addirittura del 30 per cento e le nostre esportazioni in territorio turco del 33 per cento. Sicuramente hanno giocato un ruolo importante i rapporti eccellenti, anche personali, tra Berlusconi e il suo omologo turco e in quest’ottica diventa lapalissiano perché il governo italiano avrebbe voluto imprimere un’accelerazione ai negoziati con l’Unione Europea.

Ma l’atteggiamento di Berlusconi negli ultimi anni non ha solo origini economiche. L’importanza strategica e geopolitica dell’ingresso della Turchia in Europa è stata più volte ribadita dai suoi sostenitori, sia per il ruolo di argine ad Oriente che la Turchia ha sempre ricoperto anche dentro la nato, sia per il delicato momento storico-politico all’interno del quale un paese islamico moderato come quello turco potrebbe fungere da ponte tra due mondi così diversi e in rotta di collisione da anni.

La situazione non è cambiata con l’avvicendamento Berlusconi-Prodi a palazzo Chigi. Anche il centrosinistra, per motivi più o meno simili, ha un atteggiamento favorevole nei confronti del difficile processo di adesione della Turchia. Da presidente della Commissione europea, Romano Prodi aveva dovuto miscelare sapientemente la sua posizione con quella di alcuni influenti paesi membri, tentando un compromesso che ancora oggi, con Manuel Durão Barroso a capo della Commissione, non ha dato i frutti sperati.

Da primo ministro, invece, Prodi ha potuto ribadire con maggiore fermezza la posizione italiana, storicamente favorevole a prescindere dalle divergenze di natura politica. Gli sviluppi recenti del negoziato e l’impasse dovuta al caso cipriota hanno però costretto il premier italiano ad esternare dubbi e porre paletti. La posizione del centrosinistra, oltre a considerare gli aspetti economici e commerciali dell’ingresso turco in Europa, tiene in conto anche aspetti di natura più prettamente politica e culturale: un grande paese musulmano all’interno dell’Unione Europea sarebbe il simbolo di un ritrovato dialogo tra Occidente e Islam moderato, ponendo fine allo scontro di civiltà che a sinistra non ha mai riscosso particolare successo.

Ma se la politica spinge Ankara tra le braccia di Bruxelles, lo stesso non si può dire per l’opinione pubblica italiana. Il consueto Eurobarometro dà conto della posizione della popolazione italiana: solo il 27 per cento dei nostri connazionali è favorevole all’ingresso turco e il timore più grande riguarda l’aumento dei flussi migratori verso il nostro paese.3

Meno marcata la distanza tra opinione pubblica e leadership in Spagna. Zapatero sta investendo molto nel suo rapporto con la Turchia di Erdogan, all’interno di quella che il premier spagnolo ha chiamato Alianza de Civilizaziones (Alleanza di Civiltà), proposta lanciata durante la cinquantanovesima Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 21 settembre 2004. Si tratta di un’alleanza tra Occidente e mondo arabo e musulmano al fine di combattere il terrorismo internazionale con il dialogo e non con interventi militari. Va da sé, dunque, che per il successo di questa iniziativa l’apporto turco è fondamentale. In questo quadro va inserita la recente visita di Zapatero a Istanbul e il rinnovato appoggio spagnolo alla causa turca. Ai motivi di natura storica ed economica (paragonabili a quelli italiani) la Spagna zapateriana aggiunge una spinta più ideologica e diplomatica, in aperto contrasto con la politica adottata dall’amministrazione Bush negli anni successivi agli attentati dell’11 settembre.

Durante l’incontro sul Bosforo del novembre scorso tra Zapatero e Erdogan, l’inquilino della Moncloa ha ribadito il suo impegno affinché il negoziato tra Ankara e Bruxelles non venga frenato dalle difficoltà e dai veti di alcuni dei paesi più importanti dell’Unione Europea: «L’Europa ha dato il meglio di sé quando ha guardato al futuro con fiducia e non con timore. Tutti sappiamo che, se c’è volontà politica, alla fine si raggiungerà la piena integrazione. La Spagna lavorerà perché l’Unione Europea tenga le porte aperte»4.

Ma a prescindere da Zapatero, la Spagna è sempre stata favorevole. Il perché è da rintracciare soprattutto in motivazioni di ordine economico. A riprova di ciò basta rileggere le dichiarazioni del premier spagnolo durante l’ultima visita ad Istanbul a cui abbiamo già fatto cenno. Più forte dell’Alleanza delle Civiltà, infatti, è il commercio estero di Madrid, che in Turchia potrebbe trovare uno sbocco non trascurabile. Per Zapatero le aziende spagnole devono «approfittare delle buone relazioni politiche con la Turchia per investire in quel paese. È un mercato pieno di possibilità e con uno dei maggiori potenziali a livello mondiale»5.

E non si tratta solo di parole a uso e consumo del successo diplomatico della visita: l’azienda spagnola OHL, leader nel campo delle costruzioni, infatti, parteciperà alla realizzazione del primo tratto ferroviario ad alta velocità tra Istanbul e Ankara. Ma il grosso della torta deve ancora venire con la privatizzazione del mercato energetico turco, dotato di un potenziale target di clienti sconfinato. E in prima fila c’è proprio un’altra azienda iberica, la Iberdrola.

Il dialogo Occidente-Islam e l’asse moderato da interporre tra terrorismo e unilateralismo americano, dunque, spiega solo fino ad un certo punto la premura con cui Zapatero spinge per l’ingresso turco in Europa. Le motivazioni economiche sembrano chiarire maggiormente la situazione con una Spagna che ha fortissimi interessi economici in terra turca e non ha la minima intenzione di perderli.

Più complesso e articolato, invece, è il sì greco all’ingresso della Turchia nelle istituzioni comunitarie. Il rapporto tra Atene e Ankara è storicamente difficile, segnato com’è dalle dispute sul mar Egeo e dalla difficile situazione cipriota. L’isola del Mediterraneo orientale è divisa, ormai da più di trent’anni in due parti: una greco-cipriota, riconosciuta a livello internazionale e membro dell’ue dal 2004, ed una turco-cipriota, riconosciuta soltanto dal governo di Ankara. Si capisce, dunque, il clima di diffidenza reciproca che negli ultimi decenni ha avvelenato un rapporto già difficile da secoli.

Ciononostante, durante il vertice europeo di Helsinki del 1999, la Grecia ha fatto finalmente cadere il veto che da decenni aveva posto nei confronti del suo vicino orientale, operando anche una decisa politica distensiva che ha portato ai rapporti diplomatici più che cordiali di oggi. Ma ogni tanto la questione di Cipro rifà capolino in maniera preoccupante, rischiando di cancellare i progressi degli ultimi anni.

Il negoziato ue-Turchia rischia di naufragare forse definitivamente anche (e soprattutto?) a causa del contenzioso cipriota. Il tira e molla di Ankara riguardante la questione dei porti di Cipro Nord da aprire al traffico commerciale, come richiesto da Bruxelles in uno dei 35 capitoli del negoziato di adesione, ha di molto rallentato l’iter delle trattative. La presidenza finlandese dell’ue, conclusasi il 31 dicembre 2006, ha tentato una trattativa con il governo turco ma i colloqui non hanno prodotto risultati apprezzabili.

La Grecia, pur ormai decisa ad abbattere gli steccati del passato, potrebbe essere fortemente influenzata dall’impasse di Cipro e rivedere la sua posizione favorevole all’ingresso turco nell’ue. Per adesso, è sicuro che Atene, rinunciando al pluridecennale veto, ha fatto un importante passo in avanti nei confronti del diffidente vicino orientale. Ma dalle parti del Pireo ora si attendono riscontri positivi dal Bosforo. Ma la popolazione greca sembra avere la memoria più lunga della sua classe dirigente: il no all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea ha toccato vette plebiscitarie. Più di quattro secoli di dominio ottomano evidentemente non sono facili da dimenticare per un popolo orgoglioso e fortemente identitario come quello greco. Se poi ai residui storici aggiungiamo il mancato riconoscimento turco della repubblica greco-cipriota del Sud, è facile comprendere la difficoltà dei negoziati e il peso che l’opinione pubblica potrebbe avere sul successo degli stessi.

Chiudiamo con l’appoggio britannico. Londra è uno dei supporter più decisi del cammino di Ankara verso le istituzioni comunitarie. Il motivo è presto detto: gli inglesi, così come gli americani, ritengono fondamentale l’assimilazione turca in Europa per togliere terra fertile sotto i piedi del fondamentalismo islamico. Una nazione musulmana moderata con settanta milioni di abitanti sarebbe uno strumento fenomenale per ammorbidire lo scontro di civiltà derivato dagli attacchi dell’11 settembre.

Molti ritengono quello turco un ingresso strategico, con Ankara nello stesso ruolo che già ricoprì (e ricopre tuttora) all’interno della nato. Un bastione orientale dalla duplice funzione: arginare le spinte fondamentaliste e allo stesso tempo espandere la democrazia in quella inquieta area del pianeta.

 

Note
1.       Marco Ansaldo, “L’abbraccio di Berlusconi a Erdogan «L’Italia vi porterà in Europa»”, la Repubblica, 14 novembre 2002.
2.       Fabrizio De Feo, “Berlusconi rassicura Erdogan «Vogliamo la Turchia nella Ue»”, il Giornale, 26 maggio 2005.
3.       Eurobarometro 64, Rapporto nazionale Italia, autunno 2005.
4.       Peru Egurbide, “Zapatero expresa su apoyo al ingreso de Turquìa en la Ue”, El Pais, 13 novembre 2006.
5.       “Zapatero califica a Turquía de «socio estratégico» y anima a las empresas españolas a invertir en el país”, ABC.es, 13 novembre 2006.

 

 



Domenico Naso, giornalista.

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