Ileana, pasionaria contro Fidel
di Federico Guiglia
Ideazione di marzo-aprile 2000

Nome, cognome e numero. Si firmano così, indicando anche gli anni trascorsi nelle prigioni di Fidel, gli esuli anti-castristi in giro per il mondo libero. Mario Chanes 30 piuttosto che Eusebio Peñalver 28, ecco i timbri, indelebili, per ricordare a tutti che 40 anni di dittatura hanno lasciato il segno pure sul fisico di chi ha avuto il coraggio di dire di no. Ma c’è un nome senza numero che fa più paura di tutti gli altri, all’ultimo regime comunista dell’America Latina. È il nome di una donna, anzi, di una pasionaria, che ha deciso di dedicare il resto della sua vita per dare la caccia all’ex barbudo della Sierra Maestra. «Deve subire lo stesso trattamento riservato a Pinochet». Ileana de la Guardia, si chiama così la borghese che vuole portare Fidel davanti a un tribunale. Lei non ha subíto l’onta della detenzione per le sue idee, che erano quelle del regime. Non è finita dietro le sbarre, perché il padre e lo zio, ufficiali di vertice, stavano dalla parte di chi incarcerava, non di chi veniva incarcerato. Non ha neppure sofferto la fame – tanto la ragazza era inserita nell’alta e privilegiata società – né l’è mancato l’amore, avendo conosciuto e sposato Jorge Masetti, agente del controspionaggio cubano e figlio di Ricardo, celebrato eroe dell’Avana scomparso tra le Ande in azione di guerriglia nei primi anni Sessanta.

Ileana, già figlia, nipote e ardente fanciulla della rivoluzione, dall’89 ne è diventata la più illustre orfana: il papà Tony verrà fucilato a conclusione del noto e mostruoso «processo Ochoa» (dal nome del generale Arnaldo Ochoa, considerato un simbolo della guerriglia in Africa), lo zio Patricio sarà condannato all’ergastolo che sta ancora scontando. «Mia cara e bellissima Ili», scrisse il padre alla figlia pochi istanti prima della drammatica fine. «Non ho più tempo. Desidero solo tornare a dirti quanto ti ho voluto bene e quanto tu hai significato per me, quanto mi hai insegnato e mostrato al termine della mia vita... So che sarai un esempio per tutti. Ti chiedo unicamente d’essere orgogliosa di tuo padre e dei tuoi fratelli. Aiutali. Ti voglio un bene dell’anima». Tony de la Guardia invia l’ultima lettera anche al «caro Jorge», marito dell’amata figlia: «Per me più che un genero, tu sei un figlio. Innanzitutto perché sei figlio di un martire che ho tanto ammirato e poi per le tue qualità di rivoluzionario internazionalista, per il tuo disinteresse e la tua semplicità...». Il colonnello Tony de la Guardia verrà riconosciuto colpevole dopo un dibattimento-beffa. Lui e altri saranno messi al muro per narcotraffico. Ileana s’accalora ancora, dieci anni dopo: «Secondo quel verdetto illegale, i vertici della guardia costiera, i militari, i capi dei servizi segreti, insomma in molti sarebbero stati a conoscenza del traffico in corso sulle nostre coste. Ma a Cuba non si muove foglia che Fidel non voglia: possibile che lui solo fosse all’oscuro di quanto accadeva alle porte di casa? Mio padre è stato fucilato per coprire le responsabilità del regime. E io voglio trascinare Castro davanti a un banco degli imputati per amore di giustizia, non soltanto di libertà. Che siano i giudici ad accertare tutta la verità, nient’altro che la verità».

Ileana parla ormai da europea, perché a conclusione di quel processo che perfino una commissione delle Nazioni Unite dichiarerà, in seguito, “illegittimo”, è stata costretta a scappare con Jorge prima a Parigi – dove furono protetti dai servizi francesi, a conferma del pericolo corso dalla giovane coppia, pronta a vuotare il sacco sulla e contro la dittatura – e poi in un appartato rifugio a Madrid. Hanno un figlio di due anni, Antonio, l’omaggio al papà ucciso. Jorge Masetti ha raccontato la sua vita, passata tra guerriglie in tre continenti – America del    Sud, Africa ed Europa –, in un libro (El furor y el delirio), appena tradotto in spagnolo dall’originale francese. Ma l’arma davvero segreta del giovanotto oggi quarantaquattrenne è la donna che l’ha seguito persino in Angola, e che ora ha il séguito dei tanti esuli, inizialmente diffidenti per questi convertiti alla libertà con la stessa buonafede con cui predicavano la rivoluzione. «Da piccola, a scuola, gli insegnanti recitavano ogni mattina lo stessa frase», ricorda Ileana. «Loro chiedevano, “pionieri del comunismo?” e noi alunni dovevamo rispondere “Saremo come il Che!”.

Né ho dimenticato “el domingo rojo”, la domenica rossa, quando almeno una volta al mese gli adulti dovevano lavorare l’intera giornata gratis per lo Stato. Poi, più grandicelli, ci portavano alle esecitazioni: dovevamo sapere usare i fucili perché il nemico americano era sempre dietro l’angolo...». La figlia del colonnello non fa fatica a crescere nella crema di una società che resta ideologicamente classista e chiusa («Ci avete fatto caso? I neri, che pure rappresentano la metà della popolazione, non sono quasi presenti nel governo di Fidel né ai vertici dello Stato. Che progressisti, i comunisti!»). Proprio grazie agli studi, di buon livello, la giovane comincia a dubitare del líder massimo. Da tipico totalitario qual è sempre, coerentemente, stato, Fidel cancella gran parte della storia nazionale. Dal 1898, guerra d’indipendenza dalla Spagna, al 1956, l’anno in cui Castro sferra il primo attacco a Fulgencio Batista, l’uomo forte che verrà deposto tre anni dopo, quel che succede a Cuba finisce tra parentesi. Sessant’anni eliminati all’ombra della rivoluzione, che depenna persino il passato di progresso, persino i fatti più innocenti, come i primati. Negli anni «tagliati», l’isola ebbe i treni prima ancora della Spagna, ma era meglio non ricordarlo. Oppure ignorare l’esistenza di ben cinque catene televisive negli anni precedenti l’insurrezione castrista, che ne consentirà e controllerà rigidamente solo due, e di Stato. Ma è l’incontro con Jorge che fa diventare Ileana pasionaria senza saperlo. Figlio anche lui di quei salotti di regime, la ragazza lo accompagna in Angola. Da agente speciale, Jorge ha l’incarico di rappresentare un’impresa di commercio.

Quattro mesi in Africa per diffondere il verbo castrista, perché bisognava ovunque e comunque «creare uno, due, tre Vietnam», come diceva Ernesto Guevara de la Serna, il leggendario Che, argentino di nascita e cubano d’adozione, esattamente come Ricardo, quel padre di Jorge che Ileana non ha fatto in tempo a conoscere, se non sulle insegne di scuole, strade e piazze intestate alla memoria di quel mito scomparso per sempre – neanche il suo corpo verrà mai più ritrovato – proprio tra le montagne argentine. Ricardo ed Ernesto erano stati compagni d’università, oltre che compatrioti. Jorge e Ileana, la coppia che non vacilla, s’abbevera a quella fonte. «La guerra, la guerra, siamo sempre contro la guerra, ma una volta che l’abbiamo fatta non possiamo più vivere senza di lei», scriveva Pablo Neruda, insuperato poeta cileno, rivelando la confessione che aveva appena raccolto dalla viva voce del Che. Neruda commenta: «L’ascoltavo stupito, perché per me la guerra è una minaccia, non un destino». Ma i giovani avevano letto anche altro del mitico comandante, «era la letteratura della nostra scuola», sottolineano entrambi. «Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che lottano per liberarsi e sono coerente con quello che credo», ecco l’“ispirazione” del Che, che aggiungeva: «Molti mi diranno avventuriero e lo sono. Soltanto che lo sono di un tipo differente, di quelli che rischiano la pellaccia per dimostrare le loro verità». Sembra il ritratto di Ileana e Jorge, sia pure completamente rovesciato, perché oggi essi mettono in gioco la loro esistenza contro quella rivoluzione che in altri e archiviati tempi li aveva inebriati. Ancora una volta era ed è, paradossalmente, il Che il maestro di vita. «Siate sempre capaci – scriveva Guevara alle figlie poco prima d’essere catturato e ucciso sulle montagne boliviane – di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo».

È l’ingiustizia contro il padre, dunque, che spinge la donna a muovere il mondo prima per cercare di impedire e poi per non far dimenticare quella fucilata tra farsa e tragedia. Nell’anno in cui sarebbe caduto il muro di Berlino, all’Avana si svolge ancora un dibattimento stalinista, con tanto di confessione degli accusati, trasmessa “in diretta”, ma raccolta in differita, cioè preregistrata, perché nessun dettaglio, nessuna sorpresa “controrivoluzionaria” potesse saltar fuori. «Gli imputati erano colpevoli in base al copione già scritto e pubblicato in anticipo da Granma, il giornale del regime», racconta Ileana. «Testualmente si diceva: “Sapremo lavare in modo esemplare oltraggi come questi”. Fidel incontrava ogni giorno la pubblica accusa e poi, impudentemente, sosteneva che “non voleva condizionarla”. Ma era così terrorizzato da questo giudizio, che lo seguiva personalmente, da dietro uno di quegli specchi che impediscono d’essere visti. Né voglio ricordare i maltrattamenti subíti da mio padre e da mio zio in carcere, l’impossibilità di poterli abbracciare, le torture non solo psicologiche a cui sono stati sottoposti i miei familiari». Dall’altare alla polvere per i potenti fratelli-gemelli de la Guardia. Restano però gli amici, a cui Ileana si rivolge nel disperato tentativo di salvare la vita del padre. «Eravamo molto vicini allo scrittore Gabriel García Márquez, che a sua volta era intimo di Castro», racconta. «Ci conosceva benissimo. Mio padre amava dipingere e gli aveva regalato un quadro, che lo scrittore aveva appeso alla parete della lussuosa residenza di Siboney, messagli a disposizione da Fidel. A mio padre, “Gabo” aveva dedicato il suo libro Il generale nel suo labirinto con queste parole: “A Tony, che semina il bene”.

Andammo da lui, all’una di una notte molto triste. Il quadro era sempre al suo posto e la cosa ci sembrò di buon auspicio. Lo scongiurammo a intervenire presso Fidel, che non incrociammo per puro caso: era appena stato a colloquio col comune amico. Ci disse, Gabriel García Márquez, che il processo l’aveva scosso e che era contrario alle esecuzioni. Ci assicurò che ne aveva già parlato e che l’avrebbe fatto ancora con Castro. Ci offrì il caffé. Poi, il giorno dopo partì per Parigi e non l’abbiamo, da allora, mai più sentito. Venimmo a sapere che in giro per l’Europa lo scrittore era intento a “spiegare”, quasi nelle veste di ambasciatore ufficioso, il comportamento tenuto da Fidel Castro. Come se il processo-Ochoa fosse stato un regolamento di conti tra militari e il líder massimo non avesse potuto agire diversamente». Dunque, in guerra tra loro anche gli intellettuali. A differenza dell’autore di Cent’anni di solitudine, coccolo della “revolución”, il peruviano Mario Vargas Llosa ha da tempo liquidato Castro con l’amara definizione di “decano dei dittatori”. Ma è il tradimento del Capo quello che scotta di più. Ileana non si dà pace nel riferire uno degli ultimi pensieri del padre: com’è possibile che Tony de la Guardia abbia accettato il giudizio e la fucilazione senza ribellarsi? «Fu ingannato da Fidel», risponde la pasionaria. «Il governo cubano era coinvolto in operazioni delicate e non lecite. Castro andò a parlare con papà e gli chiese che si assumesse la responsabilità di tutto. Altrimenti minacciava di fucilarlo, e sarebbe diventato il capro espiatorio dello scandalo, perché i superiori – diceva Fidel – non sarebbero stati tirati in ballo. In cambio di una confessione piena, avrebbe avuta salva la vita e non ci sarebbero state conseguenze per il resto della famiglia. Mio padre ha creduto nella sua parola. Ma lui l’ha mandato al muro. Tony de la Guardia non era affatto un trafficante di illeciti, era un funzionario del regime. Ha obbedito a ordini ricevuti. E voglio che sia una Corte con tutte le garanzie di diritto negate a mio padre, ad accertare finalmente la verità sotto gli occhi del mondo». Resta poi il risvolto politico dell’intera opera di “pulizia”. Tra quei militaroni additati a pubblico ludibrio, spiega Jorge Masetti, poteva nascere la fronda al regime. Con un curriculum “rivoluzionario” di prim’ordine alle spalle, dal generale Ochoa in giù potevano aspirare in molti ad aprire un dopo-Castro durante il regno dell’Incontrastabile. Era tutta gente forte, relativamente indipendente e piuttosto conosciuta nella cerchia che conta, quella mandata sotto processo. Difficile pensare al semplice caso nell’isola dove tutto è fatto su misura del Capo supremo.

La combattiva Ileana ha intanto presentato una denuncia al tribunale della capitale francese contro Fidel in persona, e l’ha fatto nella sua qualità di «erede di Antonio de la Guardia, fucilato all’Avana il 13 luglio dell’89». Ileana l’accusa di gravissimi violazioni al codice penale, alle convenzioni delle Nazioni Unite, alle stesse leggi francesi, alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Castro a Parigi come Pinochet a Londra, ecco il tentativo dichiarato dell’esile, ma irriducibile donna che non dimentica. Sta consultando l’intero carteggio legale che per più di un anno ha inchiodato l’ex dittatore cileno in Gran Bretagna per rispondere di reati a lui attribuiti in patria dalla magistratura spagnola. Strada tortuosissima sotto il profilo del diritto, che negherebbe il principio elementare e universale del “giudice naturale”, ma che Ileana spera ora di percorrere per contestare a Fidel le disumane violazioni nell’isola. Per ora i giudici francesi interpellati hanno respinto il ricorso, non nel merito, ma nella procedura: lo considerano non ammissibile, perché dovrebbe essere il danneggiato del supposto illecito a fare la denuncia. «Ma io sono rimasta senza padre per colpa di un processo illegale, che cosa c’è di più dannoso di questo?», s’infervora Ileana, in attesa della pronuncia delle ultime e forse più competenti, e comprensive, istanze parigine. Lei, nel frattempo, promuove appelli, segue il marito nelle conferenze di presentazione del libro autobiografico, raccoglie firme di parlamentari d’ogni paese europeo per costringere il dittatore rosso, dal sempre più grigio destino, a rispettare le dichiarazioni “democratiche” da lui firmate (l’ultima è quella di Viña del Mar, di tre anni fa, in cui Castro s’impegnava ad affermare lo Stato di diritto, il pluralismo politico, i diritti umani e via irridendo). E sì che la coppia più ricercata del mondo da parte della polizia castrista, s’era sposata sotto un grande ritratto del Che, «quasi a voler suggellare, nonostante i dubbi, il compromesso di continuare a lottare per la rivoluzione».

Non che all’ex ragazzo mancassero le credenziali necessarie. Aveva partecipato a tutte le più spericolate azioni “contro la controrivoluzione”. Ha assaltato banche a Buenos Aires per poter finanziare la guerriglia, ha combattutto in Nicaragua per abbattare Tacho Somoza, il padre-padrone, e doveva partecipare – ma si tolse all’ultimo minuto – all’attentato che a colpi di bazooka costerà la vita al dittatore nicaraguense nel frattempo rifugiatosi ad Asunción, in Paraguay. Per tre mesi Jorge Masetti prese parte ai preparativi del controspionaggio cubano messi in pratica a Santiago contro l’allora governante Augusto Pinochet: «Dovevamo attaccare la residenza della Moneda anche per vendicare simbolicamente il bombardamento del ’73 fatto dall’aviazione cilena contro Salvador Allende. Desistemmo solo per il rischio altissimo di vittime civili, che la nostra azione, secondo precisi calcoli, avrebbe comportato». Oggi si ritrovano i figli dei due simboli della rivoluzione cubana. L’uno, Ricardo Masetti, lontana origine bolognese, riposa da qualche parte tra le nevi della Cordigliera, venerato come un eroe; l’altro, Tony de la Guardia, è stato sepolto da un processo che l’ha giudicato come un traditore della patria. Ileana, 35 anni, sta in mezzo a due storie ben più pesanti delle sue spalle, che pure non sono fragili. La pasionaria vive tra l’immacolato ricordo del suocero e la memoria sfregiata del padre, che vuole riabilitare. Tutte le strade dei suoi sogni passano dall’Avana. Tra ricordo e memoria c’è lo stesso obiettivo: Fidel Castro.


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