Il
saggio di Raymond Aron sulla rivoluzione ungherese, che presentiamo qui
di seguito per la prima volta in versione italiana, fu pubblicato nel 1957
come premessa all’edizione francese di un libro unico nel suo genere:
La Révolution Hongroise – Histoire du Soulèvement d’Octobre
d’après les documents, les dépêches, les rapports
des témoins oculaires et les réactions mondiales réunis
par Melvin J. Laski et François Bondy pour l’édition
française (Paris, Plon 1957), promosso da quel Congresso per la Libertà
della Cultura che pubblicava anche le riviste Encounter e Preuves e che
aveva da poco varato l’italiana Tempo presente, diretta da Nicola
Chiaromonte e Ignazio Silone. Purtroppo tale libro – che è
una miniera inesauribile d’informazioni sulla rivoluzione ungherese
– non conobbe mai un’edizione italiana, ed è ormai quasi
introvabile.
Le riflessioni di Aron, vecchie di quasi mezzo secolo, costituiscono una
conferma ulteriore non solo della grande capacità del pensatore liberale
francese di comprendere a fondo gli avvenimenti a lui contemporanei, ma
anche, a dispetto della prosa impassibile e dello stile distaccato, della
sua capacità di provare forti passioni: il suo saggio sulla rivoluzione
antitotalitaria contiene punte di lirismo che possono sorprendere soltanto
chi non ha dimestichezza con la sua opera (in particolare con le sue Mémoires,
pubblicate nel 1983 – anno della sua morte – per i tipi di Julliard).
Uscito anche in Ungheria nel 1993, come parte di un’antologia che
conteneva anche scritti di Camus, Castoriadis, Fejtö, Lefort, Merleau-Ponty
e Sartre, è diventato subito un classico, un punto di riferimento
imprescindibile per un pubblico al quale, per un terzo di secolo, era stato
negato l’accesso alla propria identità e alla propria storia.
Riletto a cinquant’anni di distanza, questo contributo di Aron effettivamente
non ha perso né attualità, né è stato smentito
in alcuna sua parte dalle rivelazioni degli archivi. L’analisi del
regime sovietico in Europa orientale, le sue possibilità di evoluzione,
la contraddizione logorante tra gli obiettivi dichiarati dal comunismo e
la sua pratica oppressiva, le differenze tra le varie realtà est
europee, i limiti dell’azione occidentale sono stati tutti puntualmente
confermati dall’evoluzione successiva, fino all’avvento di Gorbaciov
e al crollo del sistema. Vi è però una parte di esso destinata
probabilmente a suscitare discussioni: Aron evidenzia in modo inequivocabile
il carattere prevalentemente socialista, oltre che democratico, della sollevazione.
In questo, egli si affianca ad un altro conservatore, Indro Montanelli,
che com’è noto si recò a Budapest come inviato del Corriere
della Sera e vi registrò “la morte” non solo del comunismo,
ma anche di quello che chiamava “la nostra reazione”. Mentre
i partiti comunisti “fratelli” e i loro compagni di strada,
pur incontrando notevoli ostacoli al loro interno, farneticavano di “ritorno
al fascismo” e applaudivano i carri armati, erano proprio due avversari
irriducibili della sinistra a riconoscere che la ribellione ungherese contro
il totalitarismo si ispirava prevalentemente a principi socialdemocratici,
tanto che le forze politiche e sociali che la guidavano dichiaravano in
ogni occasione (anche dopo il secondo intervento sovietico) di non voler
recedere dalla riforma agraria e dall’esproprio delle grandi fabbriche.
Naturalmente questo non significa in nessun modo che altre forze fossero
assenti o che il loro ruolo non fosse rilevante. Il cardinale József
Mindszenty, ad esempio, era destinato a ricoprire un ruolo importante: arrestato
alla vigilia di Natale del 1948, vittima di un processo-farsa che aveva
causato la scomunica di Pio XII contro il comunismo, aveva trascorso quasi
sette anni in carcere prima di essere assegnato al soggiorno obbligato,
da dove – durante la rivoluzione – era stato liberato per ordine
del governo Nagy. Cosa sarebbe accaduto se non fossero intervenuti i sovietici?
I più concordano sul fatto che si sarebbe andati verso la formazione
di due alleanze politiche, una di tipo conservatore-democristiano e l’altra
di tipo socialdemocratico, ossia verso un normale regime parlamentare: l’Ungheria
avrebbe sicuramente mantenuto un sistema di economia mista e una politica
estera più simile a quella della Finlandia che a quella dell’Austria,
ossia filosovietica. Ma questa eventualità, che Kruscev prese seriamente
in considerazione, fu alla fine respinta e si decise di restaurare una variante
del regime comunista, approfittando della disponibilità di Kádár:
se all’Ungheria fosse stato concesso di uscire dal monopartitismo
di tipo moscovita, sarebbe stato complicato evitare una reazione a catena.
Gli
archivi ci dicono che i margini di manovra esistevano, sia pure in misura
ridotta. Aron rileva, ad esempio, che l’uscita dal Patto di Varsavia
fu la conseguenza e non la causa del secondo intervento sovietico: si tratta
di un punto non marginale, di notevole importanza per la comprensione di
ciò che veramente accadde. Decine e decine di resoconti superficiali
di quegli eventi ne ribaltano la successione, asserendo che l’uscita
(solitamente definita “irresponsabile”) dal blocco militare
causò “inevitabilmente” l’intervento armato. Nulla
di più falso. È certamente vero che la conclusione delle trattative
sulla neutralità austriaca, avvenuta nella primavera del 1955 e sancita
dal ritiro dei quattro eserciti d’occupazione, aveva creato speranze
in Ungheria, ed è altrettanto vero che la richiesta di uscire dall’alleanza
voluta da Kruscev fu avanzata dagli insorti fin quasi dall’inizio,
per la precisione fin dal primo intervento sovietico. Ma il governo Nagy
non disperava di poter salvare capra e cavoli: il 30 ottobre 1956, al compiersi
della prima settimana rivoluzionaria, il famoso comunicato sovietico sull’uguaglianza
e la pari dignità dei partiti comunisti e dei “paesi socialisti”
sembrò dargli pienamente ragione. A Mosca, il vertice diviso del
pcus si vide arrivare una dopo l’altra una lettera inequivocabile
di Togliatti che con tono autorevole e sbrigativo li incitava a schiacciare
la reazione, seguita da un’analoga ed ancora più importante
richiesta da parte di Mao Zedong: questo era già sufficiente per
far pendere la bilancia verso la linea di Molotov, favorevole all’intervento.
Come se non bastasse, giunse la notizia dell’attacco anglo-franco-israeliano
all’Egitto, che forniva a Kruscev l’alibi propagandistico di
cui aveva bisogno: a quel punto la sorte dell’Ungheria era segnata,
e Mosca ordinò alle truppe che si stavano ritirando di fare dietrofront.
Fu la notizia di questo sviluppo, giunta a Budapest il 1° novembre,
che causò la decisione – condivisa anche da Kádár
– di uscire dal Patto di Varsavia: una mossa chiaramente disperata,
ma certamente non “irresponsabile”.
A proposito della spedizione di Suez, va notato che Aron in questo saggio
si definì uno di quegli intellettuali maggiormente indignati dall’invasione
dell’Ungheria che dall’attacco a Nasser. Nelle sue Mémoires,
però, avrebbe espresso rincrescimento per questa posizione non del
tutto equanime (cit., p. 494). Sappiamo dagli archivi che gli Stati Uniti,
contrari ad entrambe le azioni, esitarono a prendere una posizione più
precisa a favore della neutralità ungherese perché tale posizione
era stata proposta in sede onu dalla Francia, che voleva anch’essa
distrarre l’attenzione dai propri problemi. È possibile, come
affermarono più di vent’anni fa Fehér e Heller in uno
studio pubblicato anche in Italia, che una più forte e coerente iniziativa
occidentale guidata dagli americani a sostegno di una soluzione pacifica
della crisi ungherese avrebbe avuto qualche esito positivo, ma è
difficile non dare ragione ad Aron quando afferma che, anche senza l’avventura
di Suez, il destino della rivoluzione ungherese era segnato e il suo schiacciamento
con la forza sarebbe avvenuto comunque.
Nella
sua classica raccolta di scritti dal titolo Uscita di sicurezza, Ignazio
Silone asserì che in urss la lotta finale sarebbe stata fra comunisti
ed ex comunisti, a significare che l’essenza profondamente contraddittoria
del regime era destinata a causare prima o poi una spaccatura: gli eventi
del 1991, con il prevalere di Eltsin su un Gorbaciov ancora aggrovigliato
nell’ideologia, gli dettero pienamente ragione. Nell’Ungheria
del 1956, questa lotta si era svolta ancora al livello di stalinisti e antistalinisti:
ognuno di loro era convinto che la propria interpretazione del comunismo
fosse l’unica giusta e che gli “altri” fossero dei traditori.
Montanelli addirittura parlò dei guf, intendendo che la fonte principale
della ribellione provenisse non solo dall’interno del regime, ma dalla
sua élite politica più esclusiva. L’analisi di Aron
è pienamente in sintonia con tutto ciò, che da parte ungherese
fu sottolineato negli scritti coevi di István Bibó, il quale
vedeva proprio in questa contraddizione la differenza principale tra nazismo
e fascismo da una parte e comunismo dall’altra: quest’ultimo,
in parole povere, almeno nella versione europea conteneva in sé i
germi della propria distruzione. Aron giustamente mette in guardia contro
l’applicazione di questo principio a paesi come la Cina, alla quale
si potrebbero aggiungere Cuba e la Corea del Nord: la lunga sopravvivenza
di tutti e tre i regimi al crollo dell’urss prova che la contraddizione
di cui sopra, che Aron definisce come quella tra la tradizione dispotica
orientale e la tradizione del razionalismo illuministico, non può
essere applicata meccanicamente a realtà molto diverse. Anche la
rivoluzione antitotalitaria ungherese del 1956 è stata un fenomeno
prettamente europeo, che ha aperto la strada alla riunificazione del continente
diviso dalla guerra: ma il suo valore, consistente sia nella dimostrazione
di temerarietà che nell’aver ottenuto una vittoria a lungo
termine, è di certo universale e non si può escludere che,
un giorno, possa indicare la strada della libertà anche a popoli
molto lontani.
Federigo Argentieri, giornalista, docente presso la John Cabot University
di Roma.
(c)
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