Nella storia della nostra intellighenzia di sinistra vi sono, non dirò
delle pietre miliari, ma almeno dei paracarri, che segnano la strada della
sua evoluzione. Ovviamente, il primo cippo sarà rappresentato dal
congresso di Livorno del 1921, che sancì la scissione del socialismo
con la nascita del Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale.
È nota l’attenzione che dedicò ad esso, ed al gruppo
torinese che ne fu tra i promotori, riunito attorno a Gramsci e a Terracini,
Piero Gobetti. Ma l’Italia viveva il “biennio rosso” e,
come reazione ad esso, furono in molti a credere nel “listone”,
salvo risvegliarsi col delitto Matteotti. Alcuni studenti torinesi, riuniti
attorno al loro professore, Umberto Cosmo, ebbero il coraggio di rispondere
alle offese di Mussolini nei confronti di Benedetto Croce («un imboscato
della storia»), con una lettera aperta che fu all’origine del
manifesto, promosso da Giovanni Amendola, in risposta all’appello
di alcuni intellettuali fascisti riuniti a congresso a Bologna nell’aprile
del ’25. Ma quando si capì che la svolta dittatoriale del colpo
di Stato del 3 gennaio (le leggi eccezionali), non avrebbe trovato un argine
costituzionale nella figura del re, e che ci si avviava anzi verso una stabile
diarchia, tra fascismo e monarchia, furono in molti, tra i firmatari di
quel manifesto che, anziché impegnarsi nella battaglia politica,
si rinchiusero in una sorta di torre d’avorio.
«Sono sicuro – scrisse Giovanni Gentile quando si trattò
per gli insegnanti di giurare fedeltà, oltre al re, anche al regime
– che, tranne quattro o cinque [...] giureranno in buona coscienza,
lealmente, e proveranno che dal 1925 al 1929 anche l’Italia intellettuale
ha fatto cammino, e l’antimanifesto va buttato, finalmente, in soffitta».
In effetti, solo undici furono i professori universitari che rifiutarono
il giuramento loro imposto. Ai cattolici, Pio XI offrì la scappatoia
di intendere la dizione “regime fascista” nel senso di “governo
dello Stato”; ma lo stesso Croce, a quanti gli si rivolgevano angosciati
per consiglio, suggerì di piegarsi «per continuare il filo
dell’insegnamento secondo l’idea della libertà»1.
Non parrebbe, tuttavia, che quel filo fosse stato trasmesso intatto. Almeno,
a sentire quanto diceva un giovane reduce dalla prigionia nel dopoguerra,
rivolgendosi direttamente ad Alcide De Gasperi, passato indenne lungo gli
anni del regime, nel rifugio della Biblioteca Vaticana: «È
vero che noi giovani fummo educati in clima fascista, è vero che
fummo fascisti. Ma di quelli che ci credettero sul serio, cioè uomini
migliori di quelli che ci speculavano sopra e non peggiori di voi anziani
che, essendo antifascisti, non riusciste né sempre provaste a liberare
l’Italia dalla tirannide»2.
Le rotte dell’intellighenzia di sinistra, da un totalitarismo all’altro
Un
secondo momento di rottura fu determinato dalle leggi razziali, agli inizi
del 1938. Quanti ne realizzarono la gravità? Ma non sembra che molta
attenzione si fosse manifestata di fronte al patto russo sovietico, siglato
da Molotov e Ribbentrop, a Mosca, nell’agosto del ’39; né
che l’aggressione alla Finlandia, nel novembre, che pure suscitò
la condanna di Umberto Terracini dal confino, avesse suscitato particolare
emozione fra i nostri intellettuali. Benché insofferenti del regime
(tanto da essere attentamente sorvegliati dalla polizia),3 essi non si peritarono
di partecipare ai Littoriali, di collaborare ad una rivista quale Primato,
sotto le ali protettrici di Giuseppe Bottai e di don Giuseppe De Luca, o
all’Enciclopedia italiana, diretta da Giovanni Gentile4. Né
avvertirono la gravità della partecipazione ai convegni di Weimar,
promossi dall’Unione internazionale degli scrittori presieduta da
Joseph Goebbels5.
Naturalmente, la disfatta italiana dell’8 settembre ’43 richiese
delle scelte nette. Chiusa l’esperienza del “lungo viaggio attraverso
il fascismo”, la maggioranza optò per il partito comunista,
spostandosi da un totalitarismo all’altro6.
Il referendum del 1946 vide schierati i nostri intellettuali per l’opzione
repubblicana e, due anni dopo, essi furono pronti ad entrare nell’Alleanza
della cultura, schierandosi per il Fronte popolare, la coalizione social-comunista
che aveva per logo il faccione di Garibaldi. Si chiamavano Libero Bigiaretti,
Sibilla Aleramo, Natalino Sapegno, Luigi Russo, Delio Cantimori, Galvano
Della Volpe... Con loro erano i più giovani Mario Alicata, Pietro
Ingrao, Dario Puccini, Carlo Muscetta... L’operazione dei Quaderni
del carcere di Antonio Gramsci dava, ai loro occhi, una parvenza di rispettabilità
ad un marxismo risciacquato nelle acque del Golfo di Napoli. L’idillio
continuò anche quando, scomparso Stalin nel marzo 1953, scoppiarono
violente dimostrazioni e scioperi in Bulgaria nel maggio, una rivolta a
Plzen, in Cecoslovacchia, ai primi di giugno, e poche settimane dopo, con
maggior ampiezza, in Germania, causando un intervento diretto dell’Armata
Rossa per sedare i disordini.
Vi fu allora qualcuno, fra tanti intellettuali “organici”, che
ebbe un qualche ripensamento? Eppure non può dirsi che mancassero
informazioni sull’urss. André Gide lo aveva avvertito sin dal
1936, col suo Retour de l’urss7; Guy Vinatrel aveva pubblicato, nel
1949, la propria testimonianza su L’urss concentrationnaire8; Buio
a mezzogiorno (Darkness at Noon), di Arthur Koestler, tradotto in ben trentatré
lingue, era apparso in Italia per i tipi della Mondadori nel 1946; Vicktor
Kravchenko aveva “scelto la libertà” nel 1947;9 La fattoria
degli animali di George Orwell era apparsa in Italia nel 1953 per i tipi
della Mondadori; il volume a più mani su Il dio che è fallito,
sarebbe stato pubblicato da noi nel 195710.
Chi avesse voluto, si sarebbe ben potuto documentare. Invece, eravamo stati
deliziati da incredibili reportage dall’urss. Così Corrado
Alvaro poteva scrivere: «Ho sentito sulla bocca di molti russi, parlando
di avvenimenti truci nel mondo, la frase “fortunatamente noi gli orrori
li abbiamo passati”, e cioè le stragi, il sangue, le guerre
civili. Questo è il loro più grande bene»11. E Roberto
Bertoni (che aveva capito tutto), rivendicare la similarità tra fascismo
e comunismo12. Libero Bigiaretti, arrivato alla Kolyma (cioè nelle
terre del Gulag), non si accorgeva di nulla e descriveva «appartamenti
puliti, quasi eleganti [...] Le camerate (dodici letti ciascuna) sono spaziose,
luminose e gaie, non hanno niente del collegio o della caserma»13.
Una descrizione talmente idilliaca che ha qualcosa di macabro. Ma, come
scriveva Calvino, «Militare nel Partito è il nostro modo di
esistere»14. Così si sarebbe potuto cadere nel lirismo più
smaccato, come succedeva al poeta Alfonso Gatto: «Diciamola pure “rossa”
quest’Emilia ormai salutata dalla luce di un mondo che sorge. È
il colore del sereno. Vi spunta la stella dei braccianti che navigano la
terra per tutta la vita, la luna spiccata come una falce»15.
Ci volle il rapporto segreto di Nikita Kruscev al XX Congresso, perché
si costringessero tante “mosche cocchiere” ad un profondo ripensamento
all’interno del loro mondo: «Il 1956 non era stato solo un trauma
interno al mondo comunista, ma si era riflesso sulla cultura di sinistra,
introducendo elementi nuovi di “revisionismo” che in altre epoche
erano rimasti isolati, col suo groviglio di proposizioni irrisolte, un naturale
terreno di coltura»16. Si arrivò così all’appello
a Giuseppe Di Vittorio perché, nella sua veste di segretario dell’internazionale
sindacale, si recasse in Ungheria a constatare de visu il carattere della
rivolta,17 e alla lettera indirizzata da centouno intellettuali romani alla
Direzione del pci,18 «una presa di posizione etico-politica»19.
Speranze mal riposte, quando proprio Togliatti sposava in pieno la tesi
di Stalin dell’aggravamento della lotta di classe via via che si procedeva
nella realizzazione del socialismo. In un fondo su l’Unità20
e in un corsivo siglato col solito pseudonimo su Rinascita, il leader comunista
spiegava come fosse assurdo credere che «esistendo oggi le condizioni
della competizione pacifica, non vi saranno più altre forme di lotta,
non potranno più esservi rotture rivoluzionarie violente [...] Questo
è un serio errore, perché porta al disarmo ideale e potrebbe
anche portare al disarmo pratico delle forze rivoluzionarie che avanzano
[...]»21. Oggi sappiamo che si dovette proprio a Togliatti la pressione
sui dirigenti sovietici per l’intervento militare in Ungheria (“un
dovere di classe”), e che lo stesso Memoriale di Jalta fu dato alle
stampe in funzione anti-krusceviana.
Pur tuttavia, lo strappo del 1956 si rivelò maieutico anche al di
là dell’area partitica. Non a caso, furono gli anni della nascita
o del rinnovamento di riviste che intendevano, comunque, continuare a muoversi
nel mondo della sinistra, quali Ragionamenti, pubblicato da Roberto Guiducci,
Franco Fortini, Alessandro Pizzorno e Franco Momigliano; Problemi del socialismo
di Lelio Basso; Passato e presente, promosso da Antonio Giolitti dopo la
sua uscita dal pci; Tempi moderni di Fabrizio Onofri, anch’egli uscito
da quel partito dopo uno scontro pubblico con Togliatti; il settimanale
Corrispondenza socialista attorno ad Eugenio Reale, una figura di spicco
nella leadership comunista (con Luigi Longo, egli era stato il rappresentante
italiano alla costituzione del Cominform)22 e Michele Pellicani, raggiunti
da un rinsavito Alfonso Gatto e da numerosi altri ex. Sul fronte dell’estrema,
la diaspora degli intellettuali comunisti avrebbe portato alla nascita di
riviste quali Quaderni rossi di Renato Panzieri (già direttore di
Mondo operaio), Classe operaia diretta dall’operaista Mario Tronti;
La Sinistra di Lucio Colletti (con venature da IV Internazionale).
Sulla passata militanza comunista e sulle prospettive strategiche della
sinistra si interrogava lo stesso Giolitti con un saggio affidato all’editore
Einaudi: Riforme e rivoluzione, suscitando un duro attacco su l’Unità
da parte di Valentino Gerratana, il quale lo accusava di aver portato il
dibattito al di fuori delle istanze di partito23. Come se non si fosse appena
visto che spazio potesse essere assicurato a chi avesse voluto discutere
all’interno del pci! Il caso di Valdo Magnani, deputato e segretario
della Federazione di Reggio Emilia, colpevole di aver chiesto un dibattito
aperto sul titoismo, espulso dal partito assieme ad Aldo Cucchi, altro deputato
comunista che aveva solidarizzato con lui, risaliva ad appena cinque anni
prima24 e sarebbe stato difficile dimenticare il giudizio sprezzante di
Togliatti sui due: «Anche nella criniera del più nobile destriero
possono annidarsi dei pidocchi»25. Ma ancor più recente era
stata l’esperienza di Fabrizio Onofri, membro del Comitato Centrale
del Partito, il quale, quando aveva chiesto di poter intervenire su Rinascita
in vista del futuro congresso, si era visto pubblicare il proprio articolo
con un titolo sprezzante, dettato dallo stesso Togliatti: “Un inammissibile
attacco alla politica del Partito comunista italiano”26.
Budapest 1956, la catastrofica posizione della dirigenza del Pci
Davvero,
come sosteneva Togliatti, si poteva concludere che «la sostanza del
regime socialista non andò perduta, perché non andò
perduta nessuna delle precedenti conquiste, né, soprattutto, l’adesione
al regime delle masse di operai, contadini, intellettuali che formano la
società sovietica»?27 A quel passato Giolitti sarebbe riandato,
“quasi con rabbia”, nelle lettere idealmente indirizzate alla
nipote Marta: «Il prezioso, faticosamente accumulato e amministrato
patrimonio di consensi e partecipazione degli intellettuali “organici”
e “simpatizzanti” fu devastato non tanto dagli eventi del 1956,
precorritori e annunciatori – per chi voleva capirli – di quelli
del 1989, quanto piuttosto dalla catastrofica posizione assunta allora dal
gruppo dirigente del pci. Uso a ragion veduta l’aggettivo “catastrofica”,
perché l’incapacità del partito di cogliere quella che
si presentava come un’occasione storica per recidere, finalmente,
il “legame di ferro” e sciogliere il nodo della doppiezza determinò
– non solo per il pci e per la sinistra, ma per l’Italia –
la catastrofe di una democrazia anchilosata e di una sinistra impotente
per la durata di una generazione: trentatré anni, dal 1956 al 1989»28.
In una seduta, che immagino assai tesa, della Direzione del pci, quella
del 20 giugno 1956, Togliatti ebbe il coraggio di denunciare «alcune
manifestazioni di vacuo disfattismo culturale e ideologico» chiedendo
che la discussione fosse responsabile, dimostrando di aver perso davvero
il polso della situazione29. Ma fu proprio la sua forte leadership a impedire
che, dall’interno del partito, emergessero figure capaci di coagulare
un ripensamento critico. Non ne ebbe la forza Di Vittorio, al quale pure
i centouno si rivolsero, così come anni dopo non ne ebbe la forza
Giorgio Amendola, al quale guardarono i miglioristi (un magazine del tempo,
Firenze sera, nel febbraio del 1962, introdusse un suo servizio su quel
gruppo con un titolo in copertina che diceva: “Il club dei miglioristi.
Rifondazione della sinistra o via salottiera al socialismo?”) .
Uscito dal pci, nel marzo del ’58 Fabrizio Onofri cercò di
coinvolgere un ampio numero di amici e simpatizzanti attorno ad una sua
impresa editoriale (prendendo con sé, come segretario di redazione,
Renzo De Felice),30 tanto da scrivere, in un primo numero pilota: «È
la prima volta, crediamo, che una rivista nasce in Italia con la collaborazione
e l’apporto diretto di un numero così ampio di personalità
e di lettori: attraverso una consultazione che s’è svolta a
tutti i livelli – dall’operaio di fabbrica allo specialista
– e in cui uomini delle più varie tendenze politiche e culturali
(ma tutti orientati verso il rinnovamento e il progresso della nostra società
nazionale) hanno liberamente espresso le proprie esigenze e formulato i
propri suggerimenti»31.
L’iniziativa non ebbe un grande successo e solo due anni dopo il periodico
riprendeva le pubblicazioni con una nuova serie, che sarebbe andata avanti
per altri quattordici numeri trimestrali, sino al settembre 1963, rivolgendosi
alla sinistra democratica e aprendo il suo primo numero con un saggio sulle
“Modificazioni strutturali e politiche del Partito comunista italiano
al suo 9° congresso”, presentato come rapporto del Centro italiano
di ricerche e documentazione, del quale la rivista era adesso espressione,
e attribuibile al suo stesso direttore.
Dei centouno intellettuali romani firmatari della lettera indirizzata alla
Direzione del pci, molti preferirono un’uscita silenziosa non rinnovando
la tessera per il 1957, seguendo il consiglio di Delio Cantimori. Altri,
invece, fecero un pubblico mea culpa, mea maxima culpa e rientrarono disciplinatamente
nei ranghi: gli Spriano, gli Asor Rosa. Così, per Spriano, Kruscev
diveniva «un maramaldo»32 ed egli troverà un supporto
al proprio «ritorno all’ordine» (forte dello «spirito
di partito» che lo pervadeva e che gli riconosceva Togliatti),33 nelle
statistiche: il 96 per cento degli operai non seguono gli intellettuali,
«rifiutano anche la scossa che viene loro dalla presa di posizione
di un dirigente popolare come Giuseppe Di Vittorio»34. Furio Diaz,
a distanza di anni, pur non vedendo spiragli di libertà intellettuale
in un partito «che teneva fede a uno stalinismo di ferro anche dopo
la morte del dittatore e il rapporto Krusciov», esprimeva il dubbio
«che fossimo noi i cattivi politici, e che avevano ragione quei nostri
amici i quali con più decisione proseguivano la via imboccata e la
proseguirono anche dopo il 1956 e la nostra defezione […] Molte volte
mi sono chiesto se la mia specifica inclinazione illuministica, e con me
di molti altri intellettuali divenuti sempre più “apolidi”
dopo il ’56, fosse in parte all’origine di un distacco così
radicale, di uno spirito critico così aspro verso la vita pratica
che ci circondava»35.
Se per “vita pratica” Diaz intendesse il successo di pubblico,
la visibilità sui mass media, un eventuale laticlavio, certo si può
concedergli che chi non si piegò, non ebbe più una sponda
che lo accogliesse, divenne una vox clamantis in deserto. Persino Antonio
Giolitti, che pure fu accolto (obtorto collo) nel psi, non riuscì
a mantenere e a far vivere a lungo la rivista che si coagulò allora
intorno a lui, avendo Carlo Ripa di Meana come direttore responsabile. Passato
e presente ebbe infatti una breve vita, dal 1958 al 1960, pur avendo a collaboratori
figure di rilievo: da Leo Valiani a Claudio Pavone, da Luciano Cafagna a
Ester Fano, Armanda Guiducci, Enzo Collotti, Alessandro Pizzorno, Cesare
Cases, Giuliano Amato.
L’intrinseca debolezza del socialismo italiano, perennemente spaccato
nei due tronconi riformista e massimalista, fu la poderosa causa dell’insuccesso
dei molti tentativi messi in atto a quel tempo per trovare il quid consistam
della sinistra italiana. Un’altra esperienza di coagulo di fuorusciti
dal pci, simile a quella messa in piedi da Giolitti, fu, come accennavo,
Corrispondenza socialista. Il primo numero del settimanale veniva stampato
il 9 giugno 1957. Ricorderà Giuseppe Averardi: «Conobbi Reale
ai primi del 1957. Venivo dalle Botteghe Oscure e da Il Contemporaneo, il
prestigioso settimanale della commissione culturale del pci [...] Ci organizzammo
come potevamo, ed eravamo in tanti e tanti vennero dopo. Discutevamo [...]
del riscatto politico di tanti ex comunisti italiani, di impegno civile,
di patria tradita, di fiducia nella rinascita di una sinistra italiana non
più ipotecata da Mosca [...] Ma la situazione era tremendamente difficile
[...] Nasceva così il nostro settimanale Corrispondenza socialista,
col progetto di non mandare disperse le immense energie che la rivoluzione
ungherese aveva liberato, in Italia, dalla cappa dello stalinismo»36.
Nessun dubbio che il clima fosse piuttosto gelido. Quando la redazione di
Corrispondenza socialista illustrò il progetto editoriale a Ignazio
Silone, questi vide più lontano di quanto loro stessi non pensassero:
«Voi sognate ad occhi aperti. Il pci non è pronto. Non fatevi
illusioni. Nenni si è fatto battere nel congresso di Venezia. Ci
vorranno anni per portare il pci fuori dalle secche»37. Conosceva
l’uomo, ricordava quanto un giorno gli aveva detto Tasca: «Nenni
riassume in sé tutto quello che c’era di negativo in Serrati,
una certa demagogia, una certa superficialità, una certa aria di
fare il finto tonto quando si discute di cose serie, una certa maniera di
evitare di andare in fondo alle cose appigliandosi a degli elementi marginali,
a dei pettegolezzi, a dei sentimentalismi»38. Nel suo attaccamento
al patto di unità d’azione, egli sarebbe stato il becchino
del psi, senza nemmeno riuscire ad evitare che i sovietici gli finanziassero
contro la scissione del psiup39.
Debbo rendere atto a Silone che la sua rivista, Tempo presente, offrì
le proprie pagine ai dissidenti che uscivano dal pci, ripercorrendo l’esperienza
che lui stesso aveva già compiuto40. In un articolo pubblicato in
Svizzera nel febbraio del ’42, egli aveva scritto che l’uscita
dal partito equivaleva a una piccola morte. Ecco perché la situazione
traumatica dell’ex comunista può ricordare quella dell’ex
frate. Nessuna chiesa l’avrebbe più accolto. Ma collaborare
a Passato e presente sarebbe stato un dare ragione a Togliatti, che aveva
bollato quanti chiedevano un dibattito aperto come delle persone passate
al nemico. Era noto come, secondo il principio di sostenere le sinistre
non comuniste, per l’Italia gli Stati Uniti avessero deciso di dare
il loro appoggio proprio a Tempo presente, la rivista fondata e diretta,
dall’aprile 1956, da Ignazio Silone e da Nicola Chiaromonte, trasformandola
nell’organo della sezione italiana del Congresso per la libertà
della cultura, anche se allora nessuno avrebbe potuto immaginare (penso
lo ignorassero gli stessi direttori del periodico) che dietro il Dipartimento
di Stato c’era la Central Agency41. Si tenga del resto presente che
la scelta di sostenere Silone, da parte americana, non era affatto recente42.
Occorre tuttavia riconoscere che la preponderanza dell’attività
pubblicistica ed editoriale finanziata dai sovietici fu tale che Tempo presente
non riuscì mai a contrastare efficacemente l’appeal esercitato
nell’intellighenzia italiana dall’operazione messa in piedi
da Palmiro Togliatti attorno ai Quaderni del carcere gramsciani. La rivista
del Congresso non fu mai capace di uscire da quel limbo nel quale erano
rinchiuse altre pubblicazioni d’area liberal, quali Il Mondo di Mario
Pannunzio e Comunità di Alberto Olivetti.
La scarsa fortuna di Tempo presente fu condivisa dalle altre riviste messe
in piedi dai dissidenti. Esse non trovarono nei socialisti la sponda sulla
quale avrebbero potuto approdare. Furono lasciate in mezzo al guado. Resterebbe
da domandarsi: quale fu il costo della diaspora? Quante energie appena liberate
andarono disperse, bloccando quel ripensamento critico che pure sarebbe
stato indispensabile? De Felice cercò di perseverare nell’impegno
preso con Fabrizio Onofri, iniziando una nuova collaborazione con Il nuovo
osservatore, un quindicinale che voleva aprire alla collaborazione della
dc col psi, diretto da Giulio Pastore (il ministro della Cassa per il Mezzogiorno)
e che aveva come redattore responsabile Vincenzo Scotti.43 Ma forse il suo
maggiore impegno fu la rivisitazione del nostro recente passato, coi volumi
dedicati alla biografia di Mussolini. Quanto a Delio Cantimori, egli si
rinchiuse nei propri studi, appartato come un novello Spinoza («quando
bellatores sanguine fuerint saturi»), dando libero sfogo ai suoi pensieri
nelle lettere estemporanee indirizzate al “Caro Rossi” (a Francesco
Cesare Rossi, direttore di Itinerari) periodicamente apparse su quella rivista
fra il 1960 e il 196444.
Arrivò il 1968 e la primavera di Praga. Sembrò un deja vu,
ma sarebbe stata una magra consolazione dire, con Robert Conquest: «Io
ve l’avevo detto, razza di imbecilli». La stagione riformista
era ormai spenta, mentre avanzavano i cattivi maestri e stavamo per entrare
negli anni di piombo.
Lucio Colletti attraversò un lungo cammino travagliato, per infine
approdare a Forza Italia, assieme a Piero Melograni. Ma quanti altri si
allontanarono dalla battaglia politica, quante intelligenze furono sottratte
ad una revisione culturale, che pure sarebbe stata importante per la sinistra
italiana? Se oggi lamentiamo un’egemonia degli ex-post-comunisti su
larga parte della cultura italiana, nel giornalismo, nella scuola, nelle
università, ciò si deve, a mio parere, alla pavidità
di tanti dirigenti di primo piano del pci e al tradimento che fu perpetrato
dal Partito socialista, quando rigettò in mezzo al guado quanti intendevano
approdare alle sue sponde, contribuendo ad una rifondazione della sinistra
italiana che era pur necessaria. Una lunga agonia, durata trent’anni,
e che non si è ancora conclusa.
Note
1. H. Goetz, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime
fascista, Firenze, La nuova Italia, 2000.
2. Cfr. in R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano,
Feltrinelli, 1962, pp. 10-11.
3. È questo l’appunto, di non essersi documentata presso il
Casellario politico generale dell’Archivio Centrale dello Stato, che
va rivolto a M. Serri, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte.
1938-1948, Milano, Corbaccio, 2005. Si v. la lettera di protesta di Mara
Muscetta, pubblicata su Il Foglio del 21.XII.2005: “Quella degli intellettuali
di Primato fu ‘dissimulazione onesta’”.
4. Cfr. G. Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna,
il Mulino, 1980; idem, Su Bottai, G.B. Guerri, Giuseppe Bottai: un fascista
critico, Milano, Feltrinelli, 1976.
5. M. Serri, Il breve viaggio. Giaime Pintor nella Weimar nazista, Venezia,
Marsilio, 2002.
6. E. Traverso, Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Milano, Bruno
Mondadori, 2002. Del resto, non aveva scritto Giaime Pintor, che l’Italia
non sarebbe mai riuscita a raggiungere un completo regime totalitario, diversamente
dalla Germania, da lui portata a modello? Cfr. in Doppio diario, Torino,
Einaudi, 1978, p. 120.
7. La mia copia reca l’indicazione: «cent soixante-neuvième
édition».
8. G. Vinatrel, L’urss concentrationnaire. Travail forcé esclavage
en Russie soviétique, Paris, Spartacus, 1949.
9. V. Kravcenko, I chose Freedom. The personal and political life of a soviet
official, New york, Garden city 1947, tr. it., Milano, Longanesi, 1949.
10. R. Crossman (a cura di), Il dio che è fallito. Testimonianze
sul comunismo, Milano, Edizioni Comunità, 1957.
11. C. Alvaro, I maestri del diluvio, Milano, Mondadori, 1935, p. 1.
12. R. Bertoni, Russia: trionfo del fascismo, (1931), Milano, La Prora,
1937.
13. L. Bigiaretti, “Realtà della terra siberiana”, Vie
nuove, IV, 33, 21 agosto 1949.
14. I. Calvino, “Saremo come Omero”, in Rinascita, V, 12, dicembre
1848.
15. A. Gatto, “Chiamiamola pure ‘rossa’: è il colore
del sereno”, l’Unità, 18 settembre 1954.
16. P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, p.19.
17. Sulle vicende personali del segretario della cgil nei propri rapporti
col Partito, si v. in G. Gozzini, R. Martinelli, Storia del Partito comunista
italiano, Dall’attentato a Togliatti all’VIII congresso, Torino,
Einaudi, 1998, p. 527.
18. Tra di essi chi scrive (che fu l’estensore materiale dell’appello,
assieme a Lucio Colletti e Carlo Muscetta), Natalino Sapegno, Gaetano Trombatore,
Giuseppe Carbone, Carlo Del Guercio, Luciano Cafagna, Elio Petri, Enzo Siciliano,
Mario Tronti, Umberto Coldagelli, Antonio Maccanico, Renzo De Felice, Alberto
Caracciolo, Luigi Occhionero, Mario Socrate, Luciano Lucignani, Dario Puccini,
Lorenzo Vespignani, Carlo Aymonino, Alberto Asor Rosa, Corrado Maltese,
Giorgio Candeloro, Piero Melograni, Paolo Spriano, Marisa Volpi, Vezio Crisafulli,
Salvatore Francesco Romano. Cfr. G. D’Amelio, “La lotta politica
del 1956 fra gli universitari e gli intellettuali comunisti di Roma”,
Passato e presente, III, 1960, n° 13.
19. P. Spriano, Le passioni di un decennio (1946-1956), Milano, Garzanti,
1986, p. 210.
20. P. Togliatti, “La presenza del nemico”, l’Unità,
3 luglio 1956.
21. Roderigo di Castiglia, “A ciascuno il suo”, Rinascita, XIII,
1956, p. 355. Cfr. in G. Gozzini, R. Martinelli, Storia, cit., pp. 545 ss.
22. Si v. il suo Nascita del Cominform, Milano, Mondadori, 1958.
23. V. Gerratana, “Una deformazione del pensiero di Gramsci e della
politica del Partito comunista”, l’Unità, 19 maggio 1957.
24. Cfr. G. Boccolari, L. Casali (a cura di), I magnacucchi. Valdo Magnani
e la ricerca di una sinistra autonoma e democratica, Milano, Feltrinelli,
1991.
25. Rinascita, febbraio 1951, p. 78. Ma non meno feroce era stato, in quello
stesso anno, il trafiletto firmato “Roderigo di Castiglia”,
sull’abbandono del pci da parte di Elio Vittorini: “Vittorini
se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato!” Canzone napoletana.
26. Rinascita, XIII, 1956, pp. 365-69. Al testo di Onofri faceva seguito
un articolo dello stesso Togliatti: “La realtà dei fatti e
la nostra azione rintuzza l’irresponsabile disfattismo”.
27. P. Togliatti, intervista a Nuovi Argomenti, 1956.
28. A. Giolitti, Lettere a Marta, Ricordi e riflessioni, p. 98. Sul “processo”
ai centouno, si v. ivi, pp. 99-100.
29. M.L. Righi (a cura di), Quel terribile 1956. I verbali della Direzione
comunista tra il XX Congresso del pcus e l’VIII Congresso del pci,
Roma, Editori riuniti, 1996, p. 53.
30. Si v. P. Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellettuale, Firenze,
Le Lettere, 2001, pp. 165 ss.
31. “Ai lettori”, Tempi moderni dell’economia della politica
e della cultura, I, 1, marzo 1958.
32. P. Spriano, Le passioni, p. 199.
33. Tale l’apprezzamento di Togliatti nei suoi confronti. Si v. al
lettera indirizzatagli il 31 ottobre, in P. Spriano, Le passioni di un decennio,
p. 212.
34. P. Spriano, Le passioni di un decennio, p. 206.
35. F. Diaz, La stagione arida. Riflessioni sulla vita civile d’Italia
dal dopoguerra a oggi, Milano, Mondadori, 1992, p. 73.
36. G. Averardi, Le carte del pci. Dai Taccuini di Eugenio Reale la genesi
di Tangentopoli, Manduria, Bari, Roma, Lacaita, 200, pp. 33-36.
37. G. Averardi, Le carte del pci, pp. 37-38.
38. Cit. in D. Biocca, Silone. La doppia vita di un italiano, Milano, Rizzoli,
2005, p. 202.
39. Oltre ai documenti tratti dall’Archivio Tasca e dall’archivio
Faravelli a cura di S. Merli (“La rinascita del socialismo italiano
e la lotta conto il fascismo, e Il socialismo al bivio. L’archivio
di Giuseppe Faravelli”, Annali Feltrinelli, XXVI, 1988-1989), si v.
il recente saggio di P. Mattera, Il partito inquieto. Organizzazione, passioni
e politica dei socialisti italiani dalla Resistenza al miracolo economico,
Roma, Carocci, 2004.
40. I. Silone, Uscita di sicurezza, Firenze, Vallecchi, 1965.
41. F.S. Saunders, La guerra fredda culturale. La cia e il mondo delle lettere
e delle arti, Roma, Fazi, 2004, p. 94.
42. Biocca, Silone, cit., 2005, p. 217.
43. Simoncelli, De Felice, cit., p. 173.
44. Cfr. G. Niccoli, Delio Cantimori. La ricerca di una nuova critica storiografica,
Torino, Einaudi, 1970, p. 247.
Sergio Bertelli, ordinario di Storia moderna all’Università
di Firenze.
(c)
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