Piero Badaloni ha festeggiato in anticipo. Alla fine di gennaio, per celebrare
il suo ritorno a Roma dopo gli anni dell’“esilio” a Bruxelles
ed a Berlino, ha riunito i suoi amici del Tg1, della rai e della politica
in un pub del quartiere Prati. E, con il pretesto formale del tanto sospirato
“ritorno”, ha brindato ad una sorta di pre-investitura alla
direzione della corazzata informativa della prima rete del servizio pubblico
radiotelevisivo, quel Tg1 che ormai da più di cinquant’anni
viene considerato lo specchio politico del paese. Alla festa, infatti, c’erano
tutti i giornalisti di area ulivista della testata ancora temporaneamente
diretta da Clemente Mimun, il consigliere di amministrazione “unionista”
Nino Rizzo Nervo, l’ex consigliere di amministrazione ed attuale senatore
prodiano Luigi Zanda, l’ex presidente della rai artefice della “guerra
santa antiberlusconiana” durante le elezioni del 2001, Roberto Zaccaria.
Ed a tarda sera, salutato da canti inneggianti alla sicura vittoria del
prossimo 9 aprile, è giunto il leader di riferimento dell’intera
compagnia, Romano Prodi, che nell’abbracciare il suo vecchio corrispondente
personale da Bruxelles negli anni della presidenza della Commissione ue,
lo ha di fatto investito alla suprema carica del Tg1.
A voler fare una mappatura classica dei rivolgimenti che potrebbero verificarsi
nel mondo dell’informazione italiana nel caso il centrosinistra dovesse
vincere le elezioni politiche di primavera, bisognerebbe partire proprio
dal Tg1 e dalla rai. Badaloni, che è stato redattore del telegiornale
prima di essere eletto con il centrosinistra alla presidenza della Regione
Lazio ed essere stato successivamente inviato come corrispondente di fiducia
di Prodi a Bruxelles, dovrebbe essere il successore naturale di Clemente
Mimun. Il manuale Cencelli non scritto della lottizzazione stabilisce, infatti,
che a dirigere il principale telegiornale del servizio pubblico sia un giornalista
di fiducia del presidente del Consiglio. E, quindi, al primo posto della
mappatura del mondo dell’informazione nella legislatura del centrosinistra
dovrebbe naturalmente figurare Piero Badaloni in quanto pupillo di Prodi.
Ma il condizionale è d’obbligo. E non perché l’ex
presidente della Regione Lazio potrebbe essere bruciato sul filo di lana
da un qualche altro superprotetto del leader dell’Unione. Durante
gli anni del comune soggiorno a Bruxelles Prodi e Badaloni hanno stabilito
rapporti di ferro. Ma perché, anche se apparentemente tutto è
rimasto immutato nel mondo dell’informazione nazionale dai tempi della
lottizzazione ufficiale e trionfante, una serie di modificazioni sotterranee
si è verificata. Ed è facile prevedere che gli effetti di
questi sommovimenti tellurici incominceranno a mostrarsi in superficie proprio
nel caso il centrosinistra dovesse conquistare il governo del paese.
Partiamo proprio da Badaloni e dalla regola secondo cui il Tg1 va diretto
da un giornalista di fiducia del leader del partito vincitore. Durante la
prima repubblica l’applicazione della regola era scontata. Visto che
il principale partito di governo, qualsiasi governo, era la Democrazia Cristiana,
l’editore di riferimento del Tg1 era la dc e la designazione del direttore
del telegiornale spettava al segretario dello scudo crociato. Nella seconda
repubblica, cioè negli anni del maggioritario, la regola ha trovato
una analoga applicazione. Il direttore del Tg1 è sempre stato designato
dal leader della coalizione vincente.
Ma che succede se il leader della coalizione non coincide con il leader
del partito più forte della coalizione stessa? Chi diventa l’editore
di riferimento del Tg1? Il leader della Coalizione o il leader del partito?
La questione non è di lana caprina. E la conferma viene dal fatto
che in rai non tutti danno per scontato l’avvento della direzione
Badaloni in caso di vittoria elettorale dell’Unione. Prodi è
un leader anomalo. Non ha un partito di riferimento alle spalle. Ed il partito
più forte della sua coalizione è rappresentato dai Democratici
di sinistra, forza politica con alle spalle una lunghissima tradizione di
egemonia culturale e di pratica “occupazione” della rai. Di
conseguenza, dallo “specchio politico” del paese incominciano
a riflettersi bagliori fin troppo significativi. Da New York Giulio Borrelli,
che è già stato direttore del Tg1 in quota ds, lancia messaggi
di pronta disponibilità a lasciare la “grande mela” per
piombare a Saxa Rubra e rialzare la bandiera diessina sul pennone della
corazzata informativa della rai. A sua volta, da Parigi, dove è appena
arrivato dopo una lunga e piacevole permanenza a Londra, il brillante Antonio
Caprarica, in nome del fatto che oltre ad essere stato “comunista”
è anche “bravo”, si candida a mostrare la propria bravura
in nome e per conto del proprio partito al posto del prodiano Badaloni,
da tutti considerato un pesce lesso.
Dietro il balletto dei nomi, ovviamente, c’è la questione politica.
Chi comanderà all’interno del centrosinistra? Il leader senza
partito che non può esprimere un leader alla guida del governo? A
sua volta, dietro la questione politica si nasconde una questione ancora
più complessa. Che riguarda non solo la rai ma anche il resto del
mondo dell’informazione nazionale. E tira in ballo gli assetti strutturali
dei media nazionali facendo saltare tutti i criteri tradizionali della vecchia
lottizzazione.
La questione degli assetti riguarda la proprietà dei mezzi d’informazione
ed il loro rapporto con la politica. Negli anni della prima repubblica ed
in quelli della seconda il rapporto tra politica e proprietà editoriali
è stato di sostanziale dipendenza delle seconde dalla prima. Alla
lottizzazione della rai, che rispondeva ad un criterio esclusivamente e
squisitamente politico, corrispondeva una lottizzazione pressoché
analoga delle televisioni commerciali e della carta stampata. Nel servizio
pubblico la dipendenza ha fissato un criterio che è stato sostanzialmente
conservato sia con il centrosinistra, sia con il centrodestra. Cioè
il criterio del due a uno. Dal ’96 al 2001 il centrosinistra ha controllato
Tg1 e Tg3 lasciando al centrodestra il Tg2 (e sul resto dell’azienda
pubblica è stato applicato lo stesso schema). Dal 2001 al 2006 è
avvenuto il contrario (due terzi al centrodestra ed un terzo al centrosinistra).
E nelle reti commerciali e nei grandi giornali d’informazione (con
le scontate eccezioni dei quotidiani nazionali d’opinione la Repubblica
e il Giornale) il meccanismo è stato analogo. Negli anni dell’Ulivo
anche le testate giornalistiche di Mediaset hanno seguito l’esempio
della rai. E nessuna proprietà dei grandi giornali d’informazione
ha mai cambiato un direttore senza prima consultarsi ed avere la benedizione
e l’avallo dei responsabili delle principali forze politiche al governo.
Lo stesso è avvenuto negli anni iniziali del centrodestra. Per la
verità più per inerzia imitativa di un governo che non avendo
la cultura dell’informazione egemonica ha abbandonato a se stesso
il settore dei media, che per una autentica volontà di rispettare
le regole del pluralismo.
Ma dalla metà della legislatura berlusconiana in poi (volendo fissare
una data si potrebbe indicare quella dell’avvento di Luca Cordero
di Montezemolo alla guida della Confindustria), il rapporto tra politica
e proprietà editoriali si è radicalmente modificato. Alla
vecchia subordinazione delle seconde alla prima è subentrata la scelta
dei grandi gruppi industrial-finanziari-bancari che controllano la grande
stampa d’informazione italiana, di trasformarsi essi stessi in soggetti
politici attivi e di utilizzare i propri giornali come armi con cui combattere
le proprie battaglie politiche.
Il fenomeno che si è determinato è stato la generalizzazione
e la moltiplicazione dei “giornali-partito”, che però
non sono come quelli tradizionali l’espressione di filoni di pensiero
radicati nella società italiana ma solo gli strumenti di difesa degli
interessi dei gruppi industriali, finanziari e bancari che controllano i
pacchetti azionari dei giornali stessi. L’esempio più eclatante
è quello del Corriere della Sera, quello più significativo
è invece l’esempio del Sole 24 ore, il giornale della Confindustria
diventato organo di battaglia del gruppo egemone dell’associazione
degli industriali italiani. E la casistica può continuare toccando
tutti gli altri quotidiani i cui editori di riferimento hanno interessi
diversi rispetto a quelli semplicemente editoriali.
Il potere economico, finanziario e bancario ha di fatto ribaltato il rapporto
con la politica. E quando la politica ha tentato di resistere o ha cercato
di ritagliarsi uno spazio vitale all’interno del potere economico,
finanziario e bancario, ha dovuto vedersela con una reazione durissima fatta
di micidiali colpi mediatici e giudiziari. Il caso Unipol e quello della
scalata alla rcs sono fin troppo indicativi delle modificazioni in atto
e di quanto potrà avvenire nel corso della prossima legislatura.
A partire dalla stessa rai che, dopo essere stata lo specchio del trionfo
della politica su ogni altro potere, potrebbe diventare lo specchio della
vittoria dell’economia, della finanza e delle banche sulla politica
e sulle istituzioni.
Non va dimenticato, a questo proposito, che il tema della privatizzazione
del servizio pubblico è destinato a diventare il nuovo terreno di
scontro tra politica ed economia, tra partiti e “poteri forti”.
E che la battaglia per l’ingresso nella rai di questi “poteri
forti” (o, se vogliamo, lo smembramento della rai a vantaggio di componenti
del patto di sindacato rcs, di Carlo De Benedetti, di Franco Caltagirone
e via di seguito) rischia di diventare più accesa e più dirompente
di quella sulla bnl o sulla scalata fallita al Corriere della Sera.
Chissà, allora, da quale nome si dovrà partire tra qualche
anno per la nuova mappatura del mondo dell’informazione italiano.
Da Badaloni o da Paolo Mieli?
Arturo Diaconale, direttore de L’opinione ed editorialista de il Giornale,
si occupa principalmente di politica interna.
(c)
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