In un saggio pubblicato oltre cinquant’anni fa, il sociologo francese
Maurice Halbwachs definiva la memoria come una forma di ricostruzione parziale
e selettiva del passato che necessita per la sua attualizzazione dell’esistenza
di un gruppo capace di fungere costantemente da referente della sua elaborazione.
L’immagine del passato non si conserva e la memoria non è una
sua semplice riviviscenza, ma piuttosto una sua visibile rielaborazione
in funzione del presente, mancando la quale l’eredità del gruppo
è fatalmente destinata all’oblio o almeno ad una minoritaria
marginalità.
L’autobiografia di una nazione, se volesse aspirare ad una narrazione
dei suoi conflitti e delle sue diversità, dovrebbe garantire dunque
le medesime condizioni di ospitalità agli interpreti delle sue storie
contrapposte, integrando e offrendo medesimi diritti di cittadinanza ai
sentimenti e alle ragioni di parte – anche quelle sconfitte, che ci
appaiono oggi insostenibili – della propria multiforme memoria nazionale,
del proprio contraddittorio patrimonio di identità collettive. Le
conseguenze della guerra civile, scatenatasi nell’Italia del Nord
all’indomani dell’otto settembre, hanno legittimato, invece,
l’esistenza di un unico referente a cui incaricare la trasmissione
e la conservazione degli ideali della lotta partigiana e dell’epica
vicenda resistenziale, neutralizzando quando non ancora oscurando del tutto
la testimonianza della parte sconfitta e il ricordo parziale dei militanti
repubblichini. Le condizioni imposte dalla cultura vittoriosa e dai suoi
apparati editoriali, spesso ideologicamente chiusi a proteggere una letteratura
civile da interventi poco ortodossi rispetto alle norme di un codice a volte
scaduto al rango di vulgata, hanno in buona sostanza scoraggiato i contributi
legati alla costruzione della memoria di Salò, sopravvissuta per
lo più nei rimasugli di una memorialistica oleografica, ottusamente
celebrativa o recriminatoria, proiettata in una risentita e polemicamente
orgogliosa rivendicazione di un’esperienza rimossa o dileggiata. Difficile,
d’altronde, attendersi qualcosa di diverso: la sentenza di proscrizione
emessa dalla cultura ufficiale ha impedito l’“elaborazione del
lutto” da parte dei reduci, favorendo solo il penoso revanscismo di
quanti hanno vissuto la condizione post-bellica come quella di “esuli
in patria”.
Detto questo, non stupisce che, in sede letteraria, davvero di rado ci si
sottragga all’unanimismo della celebrazione resistenziale e che rimangano
assai sporadici sia i tentativi di illuminare la “zona grigia”
del disimpegno morale e ideologico di una parte non trascurabile della popolazione
italiana sia i documenti della letteratura di Salò, ospitata nei
cataloghi di case editrici dalla limitatissima circolazione e relegata nel
limbo dei circuiti alternativi o costretta ad affrontare censure e ostracismi.
Di questa esclusione, ben comprovata anche dagli odierni manuali di letteratura
italiana del Novecento, potrebbe con una certa fondatezza essere chiamata
a sostegno la considerazione della non elevata qualità delle testimonianze
dei reduci di Salò, ancor più evidente se si pensa all’esempio
parallelo della letteratura collaborazionista francese che vanta nomi del
calibro di Drieu La Rochelle, Brasillach e Céline. Ma si converrà
che, fatte salve le eccezioni di poche, riconoscibili opere di grandi autori,
la narrativa partigiana ha prodotto per lo più una mole di cronache
e romanzi, il cui valore è stato artatamente sopravvalutato per il
modello ideologico che offriva: vedendosi con questo accreditata di una
nobiltà artistica e di un rango francamente inaccettabili.
Difficoltà editoriali di una cronaca «truculenta e oscena»
Allo
splendido romanzo di Giose Rimanelli Tiro al piccione, questo gratificante
destino non è toccato. A leggerlo, ancora manoscritto, nel 1950,
fu Cesare Pavese che, pur giudicandolo in qualche punto ridondante, lo trovò
un rapporto sconvolgente e inusuale su quegli anni tremendi al punto da
caldeggiarne la pubblicazione. Anche Italo Calvino, a cui fu sottoposto,
lo definì «una cronaca molto viva e che ti prende e che raggiunge
il suo effetto d’orrore e schifo come poche. È un carnaio tremendo,
pieno di cose truculente e oscenità». Due recensori autorevoli.
E infatti il volume, già in bozze, sembrò pronto ad uscire
con Einaudi, Rimanelli ricevette un regolare contratto di edizione, anche
se Vittorini, che con Calvino era la vera entità grigia della casa
editrice dello struzzo, impose la pubblicazione di una prefazione “politicamente
corretta”, che affermasse con tanto di necessaria professione di antifascismo
la lontananza emotiva e ideologica dello scrittore dalle scelte fatte dall’autobiografico
protagonista del romanzo. Rimanelli fece buon viso a cattivo gioco, si allineò
alle direttive politiche richieste, si fece interprete egli stesso degli
stereotipi neorealistici, ma tutto questo non bastò. La morte di
Pavese prima, le pregiudiziali ideologiche in seno alla redazione einaudiana
poi bloccarono l’uscita del libro, che vedrà la luce solo tre
anni dopo per Mondadori. E, in effetti, di ragioni scandalose e “inopportune”,
il volume di quello sconosciuto scrittore ne aveva da vendere.
L’infanzia nel Molise arcaico e addormentato, il seminario in Puglia
e il ritorno avventuroso verso casa, la fuga – diciottenne –
su un camion di tedeschi in ritirata dopo lo sbarco degli alleati a Salerno,
il soggiorno clandestino nel Veneto, il rastrellamento delle ss e le settimane
di prigionia e lavori forzati a Villafranca, ancora la fuga e poi l’arresto
come disertore. Quindi l’adesione alla Repubblica Sociale, sotto le
cui insegne combatte in Valsesia, dove viene ferito, e in Valcamonica, dove
avviene la resa sua e del suo plotone. La prospettiva della prigione alleata,
il treno che lo porta in Africa, da cui scappa e il mesto, vilipeso ritorno
nel paese natio.
Questa, in sintesi, la storia del protagonista: visti i tempi, letterariamente
sui generis, anche per la descrizione del suo mondo remoto delle origini,
ancora avviluppato alle suggestive risonanze ancestrali del Molise più
profondo. A sorprendere e sconcertare i lettori, abituati alle oleografie
resistenziali alla Viganò, ai manicheismi antropologici di un Vittorini
(gli “uomini” e i “non uomini”) o alle favole dell’epos
ariostesco in salsa calviniana, fu però soprattutto la visione iperbolicamente
espressionista che usciva da quella stridente narrazione, condotta da un
punto di vista inedito sulla guerra civile, del tutto diverso dalle decine
di cronache e diari pubblicati negli anni precedenti. Era infatti il resoconto
autobiografico dell’esperienza drammatica della guerra di un giovane
inconsapevole «che vede la Resistenza dalla parte sbagliata».
Pavese ne fu colpito: la vicenda dello sbandamento generazionale compariva
tra le pagine di quell’ignoto narratore come la proiezione di una
condizione che aveva vissuto anche lui, in prima persona, e di cui la mitologia
di quegli anni aveva preferito non tener conto.
Ragioni che spiegano perché le difficoltà editoriali legate
alla pubblicazione del libro sono tutt’altro che casuali: nella terribile
ecatombe della guerra civile descritta da Rimanelli valori edificanti non
ce ne sono e la retorica pedagogica affidata alle storie partigiane è
qui sostituita dalla tensione angosciante di una militanza vissuta senza
alcuna consapevolezza ideologica.
Una guerra senza buoni né cattivi
Marco Laudato, il giovane protagonista, fugge dalla società immobile dove è condannato a trascorrere una vita soffocante, si lascia affascinare dal rumore dei camion tedeschi che vanno verso il Nord e che lo invitano ad abbandonare quella ripetitiva gora paesana in cui ha trascorso l’adolescenza. È così che inizia il suo rocambolesco, sofferto itinerario nell’Italia traumatizzata dall’8 settembre che lo porta a vestirsi dei panni delle Brigate Nere. Non lo fa per un preciso convincimento, ma solo per sottrarsi alla fucilazione in quanto catturato per essere scappato da un campo di lavoro nazista. Del resto, la sua è un’avventura che non ha nulla di politico, essendo, per usare le parole di Pavese, quella di «un giovane traviato, preso nel gorgo del sangue, senza un’idea». E infatti le parti che si combattono in quella contrapposizione insensata e fratricida gli si rivelano da subito cariche di un repertorio di parole d’ordine, di slogan, di ragioni emotive e ideali che gli sfugge del tutto. Può così affermare a chiare lettere che a lui «non importava niente della divisa»; anche l’idea della «bella morte», che compare nella trascendente religio mortis volontaristica dei soldati di Salò (si pensi al titolo stesso di un’altra significativa opera della narrativa repubblichina, A cercar la bella morte di Carlo Mazzantini), è qui vanificata dalla disfatta materialità del morire «a pezzi», da un’agonia senza fine a cui nessuna illusione eroica può dare riscatto. Le medaglie non sono altro che «patacche» che «danno a tutti», l’ottimismo della propaganda sull’«immancabile vittoria» o sull’imminenza dell’«ora di Hitler» è derisa e mistificata e anche il sesso, spesso presente nei resoconti salotini come la residua traccia di un giovanilismo ribaldo e frenetico, ha qui ben poco della piacevole carnalità di un’iniziazione liberatoria, degradando piuttosto ad esigenza fisiologica o al livello laido e disgustoso di certe figurazioni che ricordano i quadri di Otto Dix: una prostituta è descritta mentre russa «con la bocca aperta, il viso stirato e grasso», con una «bolla di bava all’angolo della bocca» in cui fa capolino un «dente d’ottone bianco»; oppure Anna, la bella infermiera che si occupa di Marco, quando viene ferito, è condannata a sprecare la sua giovinezza e a diventare penosamente «un fossile inutile intorno a uomini storpi che hanno solo il desiderio di scoppiare, giacché non possono ottenere più nulla dalla bellezza». Nessuna riparazione può fornire una giustificazione consolante ad una lotta imposta da altri e subìta con la certezza di avviarsi ad una inevitabile conclusione: «Ci hanno vestiti di stracci [...], di noi hanno fatto le nuove legioni, ci hanno riempita la bocca di canti e ci hanno detti di andare. Andare! Ma andare dove? Non abbiamo mai saputo dove dovevamo andare. Ci hanno mandati a morire, morire massacrati, tutti insieme». Tutti insieme: i fratelli di questa parte e i fratelli di quell’altra, i partigiani, i nemici contro cui combattere, che hanno gli stessi volti e gli stessi sguardi, specie davanti alla morte ineluttabile. Infatti, se manca la classica tipologia oppositiva buono-cattivo che infarcisce molta parte della narrativa resistenziale, è perché qui le ideologie rivelano la loro natura pretestuosa, gli aspetti seducenti e ingannevoli di specchietti per le allodole, intrisi di falsi obiettivi e retoriche propagandistiche bugiarde e strumentali. La realtà invece è una sola, valida tanto per i militi di Salò quanto per i partigiani, accomunati dal cervellotico groviglio di confuse aspirazioni: a combattere contro «ombre inafferrabili», per difendere – da una parte e dall’altra – la «Patria», che invece «ci ha uccisi, ci ha atterrati come rettili», e ritrovarsi invece disperatamente privi del conforto salvifico della comunanza e dell’appartenenza. Lo stato d’animo con cui Marco si arruola ricorda il “vado a vedere” con cui il Bardamu celiniano del Viaggio al termine della notte va a combattere in una guerra che non lo riguarda: anche se si comporta con coraggio, viene ferito ed è decorato per le sue azioni, continua fino all’ultimo ad essere un uomo «solo in mezzo a una guerra, che non capiva», come per Bardamu la guerra era «tutto ciò che non capivamo».
Schiacciati fra le maglie violente della storia
L’unica realtà che si dipana agli occhi dell’antieroe di Rimanelli è il suo progressivo disgusto, la nausea crescente per le centinaia di compagni e nemici che cadono, andando incontro all’irreparabile fatalità della morte che li accoglie: «Sono venuto quassù cercando la libertà, e invece ho trovato l’odio». E oltre l’odio, la percezione umanissima della paura, che rappresenta la prima, embrionale, ancora tutta epidermica ed emozionale presa di coscienza dell’ipocrita zibaldone di pseudo-valori che si aggruma attorno alla simbologia retorica del coraggio e all’iconografia funerea della morte: «Ora che il fuoco inebriante della battaglia era cessato, e il fascino del sangue anche, nel petto degli uomini era tornata l’anima. Era un’anima che sentiva orrore della morte, e ai tanti morti voleva sopravvivere. Volevamo salvarci, ora». E allora non resta che maledire «questa sporca guerra che non vale nulla» e che costringe al gesto meccanico e «rivoltante» che è lo «spararsi tra italiani». Alcuni invocano ancora l’idea viscerale e belluina della lotta estrema e senza compromessi contro chi ha tradito: «Non abbiate vuoti sentimentalismi, perché i ribelli sono italiani solo di nome. In effetti essi sono i veri traditori della nostra Patria. Noi dobbiamo sterminarli perché rappresentano la parte peggiore della nostra gente». Ma è un pensiero che diviene minoritario, sfibrato attimo dopo attimo da perplessità sempre più incombenti, dalla costellazione angosciosa di inutili sacralità, di epiche mortali, di vendette illegittime. Anche chi affronta la guerra «invasato di patriottismo», è destinato ad accorgersi che nell’attraversamento di quel macabro e raggelante labirinto di sangue senza riscatto la visione della morte lo costringe al mutismo e a un’inerte rassegnazione, interrotta solo da un’ultima, disperata invocazione di pace: «Abbasso la guerra civile! Basta con questa schifezza di ribelli e fascisti. Noi siamo fascisti e va benissimo, ma siamo anche uomini fatti di sangue e ossa. E perciò basta con la guerra civile». A Marco, quanto al suo narratore, sono estranei impulsi moralistici o pedagogici e le tensioni dell’impegno politico lasciano solo lo spazio al realismo crudo delle scene di guerriglia e di morte, di imboscate ed esecuzioni che si susseguono con violenza raccapricciante. Senza estetiche positive, non rimane che imbastire uno stenografico e impietoso reportage, una sgomenta ricognizione tra macerie indistinte e aberranti: quelle che fanno dire ad uno dei soldati che «una schifezza di guerra come questa» non l’aveva mai vista. Dinanzi a questa lotta senza bene e senza male, senza colpevoli e innocenti, Rimanelli trova un’unica consolazione: che, meglio di ogni possibile ed effimera costruzione ideologica, a ricomporre fratture e laceranti antagonismi resista il bisogno di inventare una soluzione che restituisca all’uomo la forza, quasi innata ed inconsulta, di salvarsi dalle maglie violente della storia.
Contro l’establishment letterario
Un
impianto irregolare, dunque, opera di un autore che già dal suo esordio
mostrava la sua peculiare anomalia, ideologica e letteraria. Del resto,
non c’è stata solo la guerra a segnare l’esperienza umana
di quell’eccentrico scrittore che è Giose Rimanelli. Come a
ripercorrere i picareschi sentieri della sua famiglia, la sua biografia,
segnata dall’emigrazione e da un’inquieta incapacità
di mettere radici, sarebbe perfetta per i più classici misfit della
letteratura ottocentesca: avventura, follia e nomadismo. Gli ingredienti
ci sono tutti nel suo originale profilo che non ha nulla a che vedere con
l’immagine tradizionale del letterato sedentario italiano. Al ritorno
dalla guerra, il giovane scapestrato si mette in testa di raccontare la
materia incandescente della tragica vicenda vissuta nei mesi precedenti:
nasce così Tiro al piccione, mentre per sopravvivere scrive tesi
di laurea a pagamento, soggiorna in squallide stamberghe, fa persino lo
sparring-partner in una palestra romana di pugilato. Poi, agli inizi degli
anni Cinquanta, riprende il suo zingaresco vagabondaggio: Sud America, Europa
del Nord, Stati Uniti, Canada. Invia corrispondenze giornalistiche, scrive
sceneggiature cinematografiche e poi fa ritorno in Italia. A Roma, dal 1958,
il settimanale conservatore Lo Specchio, diretto da Giorgio Nelson Page,
lo invita a collaborare con interventi sulla letteratura contemporanea.
Rimanelli accetta e con lo pseudonimo di A.G. Solari pubblica veri e propri
pezzi al vetriolo sui primari e i comprimari dei salotti letterari, dominati
dalle «amabili nonne della letteratura del dopoguerra» e dai
critici «burocrati al potere» che attraverso la gestione e la
manipolazione dei premi letterari, determinano fortune e sfortune di scrittori
giovani e anziani. Scoppia l’ira di Dio: prime donne e abitanti oscuri
del sottobosco culturale italiano, chiamati in causa dall’ignoto giornalista,
aprono una vera e propria caccia all’autore, la Mondadori arriva a
mettere una taglia di mezzo milione per conoscerne l’identità.
Sarà Rimanelli stesso a gettare la maschera: alla fine del 1959,
pubblica con il suo nome gli interventi apparsi su Lo Specchio in un volume
dal titolo Il mestiere del furbo, edito da Sugar. Ne esce fuori un pamphlet
irriverente e scottante, una testimonianza scomoda e coraggiosa sull’establishment
letterario di quegli anni. Chi non ne fa parte si condanna all’emarginazione
e, soprattutto, ad un oblio precoce e umiliante: «Lo scrittore che
pretenda di starsene chiuso in casa sua, lontano da tutto e da tutti, dedito
soltanto – come gli abati del periodo Impero – ad attizzare
il sacro fuoco domestico, coltivando il proprio giardino letterario, non
s’illuda di trasmigrare ai posteri: egli non esisterà per essi
dal momento che non esiste per le amicizie contemporanee. [...] Ecco, dunque,
cos’è la nostra letteratura: quando c’è, è
necessario che l’autore che la fa si mischi al branco, e quando non
c’è l’autore viene inventato di sana pianta, con premeditata
incoscienza, e portato avanti come su una picca». L’atto d’accusa
indignato contro la vanità e la corruzione morale delle conventicole
letterarie va a braccetto con una galleria sferzante e scandalosa di giudizi
controcorrente che sconvolgono il conformismo omertoso dei club letterari
del tempo, che reagiscono, vendicativi e rancorosi, chiudendo in faccia
all’autore le porte dell’editoria e del giornalismo. Eppure,
la testimonianza di Rimanelli offre un quadro di eccezionale lucidità
sulla letteratura del nostro tempo col piglio e la buona fede dell’«autodidatta
senza alcuna segnaletica rassicurante e protettiva» (questa, la definizione
che ne ha dato Sebastiano Martelli, a cui si deve la riedizione einaudiana
di Tiro al piccione del 1991).
A cadere sotto il suo giudizio, oltre che il malcostume e gli asettici vaniloqui
delle congregazioni del potere culturale, era in particolar modo lo sterile
calligrafismo della prosa d’arte, sopravvissuta agli anni del furore
ideologico post-bellico, e nuovamente in auge con l’inutile perfezione
estetica di un formalismo sentimentale a caccia di facile successo commerciale.
Mentre infatti veniva consumato il delitto di autori lontani dal narcisismo
da bacheca e dai luoghi comuni edulcorati dal risorgente mito del progresso,
si imponeva una lunga “dittatura della mediocrità” all’insegna
del più opaco ed esangue manierismo, per di più autocompiaciuta
dalle sue intangibili prerogative e garantita dal solito gotha della vecchia
generazione, uscita sempre indenne dagli incidenti della storia: «fascista
perché c’era il fascismo, antifascista all’ultimo momento,
comunista fino alla morte di Stalin» e capace di ignorare disinvoltamente
«Svevo e Tozzi, Proust e Joyce, Faulkner, Hemingway, Thomas Mann»
per lanciare invece i nani (col “vuoto dentro”) di casa nostra.
Vittima del “peccato originale”
Il “grafomane” Cassola e il troppo sorvegliato Bassani (e si badi bene, prima del nuovo battesimo di “Liale del ’63” impartitogli dalla neoavanguardia), l’“isterico autoritario” Moravia sono solo alcuni degli aureolati bersagli degli strali rimanelliani, mentre amaramente, ma anche con straordinaria preveggenza, compare il presagio che la storia letteraria sarebbe stata fatta – come infatti è avvenuto e avviene – non dagli uomini e dalle loro opere, ma «dagli almanacchi, dalle notizie di Berenice, dai ricevimenti e dalle presenze scrupolosamente registrate nei tali salotti, ai tali pranzi», specie se in odore di politicamente corretto. Quasi pleonastico dire come furono accolte le opere successive dello scrittore molisano: una specie di congiura del silenzio, in buona parte ancora vigente oggi se è vero come è vero che il suo nome è spesso assente o sbrigativamente liquidato nei repertori letterari. Del resto, anche il suo secondo romanzo, autobiografico come il primo, pubblicato nel 1954 col titolo di Peccato originale, fu accolto dalle stesse obiezioni ideologiche che erano toccate in sorte a Tiro al piccione. Questa volta, la critica marxista non mancò di scagliarsi contro la rappresentazione spietata e senza prospettive edulcorate della realtà paesana del Molise, ancora legata indissolubilmente ai valori ancestrali di tradizioni e mentalità, che lo scrittore intendeva recuperare per farne una specie di archetipico microcosmo antropologico, in cui la dimensione arcaica prevaleva su ogni ipotesi di cambiamento. Ma furono i giudizi del Mestiere del furbo a rendere quella che fino a quel momento era stata una profonda e viscerale mistificazione critica un linciaggio in piena regola. A Rimanelli, che aveva consumato così il suo suicidio nella società letteraria italiana, non rimase che l’ennesima fuga, quella definitiva: l’esilio in America, dove vive tuttora dopo una lunga carriera accademica e dopo aver continuato a scrivere prose e romanzi che ne fanno uno tra gli scrittori più significativi degli ultimi decenni.
Giuseppe Iannaccone, docente di Letteratura italiana contemporanea presso
l’Università Roma Tre.
(c)
Ideazione.com (2006)
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