Verso la fine del 2004 l’Unione Europea è subentrata alla nato
nel commando dell’operazione di peacekeeping in Bosnia. L’operazione,
realizzata grazie all’impiego di nato assets e capabilities in base
agli accordi detti “Berlin Daily”, rappresenta tanto una sfida
quanto un motivo di fierezza per un’ue che sembra mostrare di aver
imparato la lezione dalle precedenti esperienze.
Negli anni Novanta la guerra dei Balcani aveva mostrato tutta la debolezza
dei governi europei ad agire individualmente e in modo non coordinato. Era
apparsa quindi necessaria la realizzazione di una Politica Estera di Sicurezza
Comune (pesc) e di una Politica Europea di Sicurezza e Difesa (pesd). L’ue
ha pertanto successivamente proceduto a dichiarare la sua volontà
ad intervenire nell’ampio spettro delle operazioni per il mantenimento
della pace (i cosiddetti compiti di Petersberg)1, enunciate nel trattato
di Amsterdam del 1999, e ha iniziato un processo per lo sviluppo di capacità
militari nell’ambito della pesd, attraverso l’individuazione
dell’Obiettivo primario di Helsinki. Lo scopo dichiarato era quello
di sviluppare entro il 2003 una Forza di Reazione Rapida dell’ue (frr)
composta da 50-60.000 uomini e donne, mobilitabile nel giro di 60 giorni
e sostenibile sul campo fino ad un anno. Purtroppo la realizzazione di una
tale Forza è rimasta incompiuta. È infatti accaduto che i
necessari equipaggiamenti individuati per la realizzazione dell’obiettivo
primario di Helsinki risultavano solo parzialmente nella lista degli inventari,
e quindi nelle priorità di spesa per delle forze armate degli Stati
membri dell’ue.
La capacità operativa completa della frr è stata, comunque,
formalmente dichiarata nel 2003. In realtà, come è ben comprensibile,
questo obiettivo non è stato raggiunto2. Il Consiglio europeo di
Salonicco ha di fatto riconosciuto che l’ue disponeva della capacità
operativa relativamente a tutto lo spettro dei compiti di Petersberg, «anche
se con limitazioni e restrizioni dovute alle carenze riconosciute che possono
essere attenuate dall’ulteriore sviluppo delle capacità militari
dell’Unione Europea»3.
La frr ha quindi rappresentato un risultato solo quantitativo da rivedere
e aggiornare in funzione di un contesto geostrategico differente e più
attuale. In quest’ottica, il Consiglio europeo di Bruxelles del 14
giugno 2004 ha approvato l’Obiettivo Primario per il 2010 con cui
«gli Stati membri hanno deciso di impegnarsi per riuscire, entro il
2010, a rispondere con azioni rapide e decisive e con un approccio coeso
all’intero spettro di operazioni4 di gestione della crisi previste
dal Trattato dell’Unione Europea»5.
Attraverso l’Obiettivo primario 2010 gli Stati membri stanno cercando
di realizzare un obiettivo qualitativo che permetta loro di colmare le carenze
a livello di interoperabilità, dispiegamento e sostenibilità
che sono al cuore dello sforzo degli Stati membri e fattore trainante dello
stesso Obiettivo primario 2010.
La domanda sorge spontanea. È ragionevole credere che il raggiungimento
di questi obiettivi permetterà agli Stati membri di completare la
trasformazione delle loro forze armate e produrre le capacità militari
di cui l’ue ha bisogno?
L’individuazione delle carenze europee in termini di capacità
è un esercizio che è stato fatto sia a livello nato6 che nell’ambito
dell’ue7. È tuttavia necessario, come si metterà in
evidenza, che date le limitate disponibilità di bilancio, gli Stati
europei fissino priorità e obiettivi strategici di lungo periodo
ai fini della realizzazione di una più compiuta pesd che rafforzi
al tempo stesso l’Identità Europea di Sicurezza e Difesa8 (isde),
e che assicuri la complementarietà con gli Stati Uniti in seno all’Alleanza
Atlantica9.
L’esperienza dei Balcani ha fatto ben comprendere agli Stati dell’Unione
l’incompletezza del modello europeo di soft power basato solo sugli
strumenti del dialogo e del negoziato e li ha spinti a prendere coscienza
della necessità di supportare la diplomazia europea con una effettiva
e autonoma forza militare capace di difendere la società europea
dai conflitti periferici10 e dalle nuove minacce del terrorismo. Perché,
allora, gli Stati europei non riescono a procedere alla realizzazione di
una compiuta pesd? Quali sono le cause e i deficit strutturali che stanno
alla base di questa incoerenza tra gli ambiziosi obiettivi dichiarati e
i risultati effettivamente raggiunti? Perché i governi sono reticenti
a spendere di più per la sicurezza?
I
bilanci della difesa e loro fondamentali capitoli di spesa
Un
rapido sguardo ai livelli di spesa per la difesa nei bilanci europei ed
americano mette subito in evidenza l’enorme divario esistente tra
le due sponde dell’Atlantico. Gli usa spendono più del doppio
della somma dei bilanci che i venticinque Stati europei destinano alle spese
per la difesa. Il divario nel livello di spesa tra le due sponde dell’Atlantico
sta poi aumentando sempre più qualora si osservi che gli usa hanno
previsto un incremento degli stanziamenti destinati al settore della difesa
da 401,3 miliardi di dollari nel 2004 a 469,8 miliardi di dollari nel 2007,
mentre lo stanziamento globale degli Stati membri dell’Unione Europea
nel settore raggiunge all’incirca la cifra di 185 miliardi di dollari
all’anno.
Sarebbe certamente irrealistico per gli europei puntare a raggiungere i
livelli di spesa americani. La cosa potrebbe non inquietare più di
tanto qualora si tenesse conto del fatto che la superpotenza statunitense
ha interessi geostrategici globali e una percezione della sicurezza diversi
da quelli europei. Dobbiamo quindi, piuttosto, prestare attenzione ad altri
indicatori che possono meglio mostrarci le differenze esistenti tra i paesi
europei relativamente alla destinazione delle risorse per poter riuscire
ad individuare le carenze che affliggono la realizzazione degli obiettivi
della pesd.
In termini percentuali gli usa spendono per la difesa il 3,4 per cento del
loro pil. In Europa, solo la Grecia spende il 4,4 per cento del pil, seguita
da un gruppo di sei paesi che superano la soglia del 2 per cento (Francia
2,5, Regno Unito e Cipro 2,4, Portogallo 2,3, Repubblica Ceca 2,1 e Slovacchia
2,0). Seguono l’Italia e la Polonia con l’1,9 per cento, l’Ungheria,
la Lettonia e la Lituania con l’1,8 mentre il record negativo è
rappresentato dall’Irlanda con un livello di spesa pari al 0,6 per
cento del pil11.
Se si ragiona poi in termini assoluti, i sei più importanti paesi
produttori di armi, i cosiddetti Letter of Intent (loi) countries12 coprono
più dell’80 per cento del totale della spesa europea per la
difesa e rappresentano circa il 98 per cento della spesa militare per la
ricerca e lo sviluppo (r&d). La sommatoria dei bilanci della difesa
dei dieci nuovi Stati membri dell’Unione Europea rappresenta solo
il 5,7 per cento del budget della difesa dell’Europa a quindici. Infine,
differenze significative esistono anche tra i loi Countries che vedono il
Regno Unito, la Francia, la Germania e l’Italia in una posizione di
preminenza rispetto agli altri13.
Per riassumere, quindi, esistono grandi differenze tra i paesi europei sia
in termini percentuali che assoluti relativamente alla spesa per la difesa.
Si distinguono essenzialmente tre gruppi: i dieci nuovi paesi membri sono
di gran lunga lontani dai “vecchi quindici” ed anche all’interno
di questi ultimi, vi è il gruppo dei loi countries che si distacca
dagli altri.
Altre differenze strutturali esistono, inoltre, tra gli Stati membri relativamente
alla destinazione della loro risorse.
Per quanto riguarda la spesa per l’equipaggiamento, la Francia e la
Gran Bretagna, che hanno eserciti di professionisti, spendono porzioni relativamente
grandi degli stanziamenti destinati alla difesa allo scopo di mantenere
le loro forze ben equipaggiate e continuamente modernizzate. Ma altri Stati
(Svezia, Grecia, Finlandia e Portogallo), che hanno ancora forze armate
di leva e desiderano per lo più mantenerle ad un alto grado di operatività
a livello interno e interoperative a livello ue/nato, devono spendere una
elevata percentuale dei loro bilanci di difesa per l’acquisizione
di equipaggiamenti, affievolendo in tal modo la quota di risorse destinabile
alla r&d.
Gli Stati europei hanno quantomeno intrapreso processi di ammodernamento
delle loro forze armate. I nuovi paesi membri dell’Unione Europea,
che sono anche membri della nato, hanno avviato uno sforzo importante in
tal senso con il supporto dell’Alleanza.
Anche i “Quindici” hanno adattato le loro forze alla nuova situazione
del post guerra fredda. La progressiva eliminazione del servizio di leva
e la creazione di eserciti di professionisti stanno favorendo la nascita
di forze più preparate e meglio equipaggiate con un abbattimento
dei costi necessari al mantenimento di truppe altrimenti troppo numerose
e la conseguente liberazione di risorse da investire in approvvigionamenti
e, soprattutto, per la ricerca e lo sviluppo nel settore della difesa.
È dunque la percentuale del bilancio per la difesa dedicata alla
ricerca e sviluppo militare un significativo indicatore di cui tener conto,
poiché dà informazioni sulla capacità di un paese di
sviluppare futuri sistemi di arma. È da sottolineare, inoltre, che
gli Stati europei spendono appena un quarto di quanto spendono gli usa per
r&d. La conseguenza è che il ritorno in termini di efficacia
sugli investimenti effettuati e non è proporzionato rispetto a quanto
investito. L’Unione europea, considerata globalmente, ottiene, in
termini percentuali, un ritorno inferiore rispetto a quello degli usa14.
In questo caso, il divario deve essere considerato fonte di preoccupazione
perché l’investimento nel settore della r&d significa sostegno
alla base tecnologica dell’industria della difesa in Europa.
Se poi passiamo in rassegna le differenze interne all’ue vediamo che
il Regno Unito e la Francia destinano il 13 per cento degli stanziamenti
dei bilanci militari alla r&d, il che rappresenta una percentuale di
gran lunga superiore a quella di altri paesi nel settore.
Questo tipo di impegno non è purtroppo seguito dagli altri Stati
membri. La potenza successiva, la Germania, destina la metà della
percentuale impegnata dalla Gran Bretagna e dalla Francia, e il paese seguente,
la Spagna, dedica solo la metà di quest’ultimo. Ci sono poi
paesi come il Portogallo, la Danimarca e il Belgio che impegnano per la
r&d meno dello 0,05 per cento dei loro bilanci di difesa, il che significa
che le loro forze armate sono condannate all’attuale status quo o
comunque ad acquistare equipaggiamenti e tecnologia all’estero.
I paesi che effettuano bassi investimenti nella r&d sono tendenzialmente
orientati verso la nato e contano sulle importazioni di tecnologia militare
e di equipaggiamenti dagli usa. Viceversa, Francia e Regno Unito, che effettuano
più alti investimenti, impiegano molto poco l’equipaggiamento
americano, pur essendo, le forze armate più moderne e tecnologicamente
avanzate d’Europa.
Da osservare, che i governi europei nell’effettuare l’approvvigionamento
sono naturalmente portati a scegliere l’opzione meno costosa piuttosto
che quella europea, che, molto spesso, è quella americana: quasi
il 40 per cento dell’equipaggiamento nelle forze armate europee è
di origine americana.
Poiché la situazione odierna è quella per cui i venticinque
Stati sovrani hanno ciascuno propri contingenti nazionali, ministeri della
difesa, staff militari, organizzazioni di supporto e sistemi di approvvigionamento,
la naturale conseguenza è che il livello di duplicazione nelle forze
armate europee è altissimo.
L’Europa non solo destina molto meno degli usa alla difesa ma, una
grande parte di ciò che gli Stati spendono va a duplicare strutture
già esistenti in altri paesi con una conseguente moltiplicazione
delle spese. I costi unitari, inoltre, sono in aumento poiché la
debole domanda dei governi nazionali impedisce la loro ripartizione su quantità
sufficientemente elevate da permettere fruttuose economie di scala.
I paesi europei, dunque, mostrano ampi divari in termini di capacità
militari, differenti politiche di investimento, diverse priorità
di spesa, scarsi ritorni sugli investimenti. Queste differenze strutturali
rappresentano complessi elementi per la realizzazione di una più
compiuta difesa europea che non potrà non essere realizzata senza
che si tenga conto di tali disparità e differenze.
Specializzazione,
cooperazione e creazione di capacità comuni
Gli
Stati membri sono ben consci della necessità di continuare a perseguire
la trasformazione delle loro forze armate al fine di formare eserciti di
professionisti e di provvedere alla realizzazione di un sistema difensivo
che tenga conto delle nuove sfide del contesto internazionale, facilitando
il passaggio da un tipo di difesa statica, tipica del periodo della guerra
fredda e concepita per la protezione del territorio, alla creazione di forze
più flessibili, più mobili e in grado di essere dispiegate
in lontani teatri di guerra, così come sottolineato nel documento
dell’ue relativo alla “Strategia per la sicurezza europea”.
Gli Stati stanno, di fatto, compiendo importanti passi in questa direzione.
Purtroppo, tra le difficoltà che i paesi membri si trovano a far
fronte vi è soprattutto quella della necessità di reperire
mezzi finanziari necessari per questa trasformazione. Accade, pertanto,
che per ragioni di bilancio e per l’alto livello di spesa richiesto,
molti Stati membri non sono in grado di continuare a fornire l’intero
spettro delle capacità all’interno delle loro forze armate
siano esse aeree, marittime o terrestri.
La conseguenza è che certe capacità militari possono essere
mantenute soltanto nell’ambito di una cooperazione con altri Stati.
Appare sempre più evidente che, se si vorranno perseguire trasformazioni
sostanziali delle capacità militari nazionali, esse dovranno necessariamente
implicare un certo grado di specializzazione e cooperazione internazionale
nonché la possibilità di mettere in comune alcune di queste
capacità. Tali “capacità collettive”, pertanto,
non saranno più in possesso dei paesi membri partecipanti ma apparterranno
all’ue in quanto tale sull’esempio degli awacs della nato. È
questa una sfida di alto livello se si considera che per ogni singolo Stato
la difesa è un settore estremamente sensibile, anche se, a ben guardare,
un certo grado di specializzazione è sempre esistito dal momento
che non tutti gli Stati membri possiedono l’intero spettro delle capacità
militari. Tuttavia, è solo negli ultimi anni che il dibattito attorno
ai temi della specializzazione e della cooperazione sta crescendo d’importanza.
Sebbene esistano già alcuni esempi di cooperazione militare a livello
multilaterale tra gli Stati europei, quali l’Eurocorpo, è solo
con l’Obiettivo Primario di Helsinki per il 2003 e, ancor più,
con quello stabilito per il 2010, che l’intero processo di rafforzamento
delle capacità militari ha subito un’accelerazione e una connotazione
squisitamente europea. Il processo intrapreso ha come scopo quello di assicurare
il raggiungimento di un duplice obiettivo. Da un lato riguarda la possibilità
di utilizzare forze armate che siano rese disponibili da parte degli Stati
membri per realizzare operazioni dell’ue, dall’altro, concerne
un impegno mirante a colmare le lacune più significative in termini
di assets e capabilities dei paesi europei soprattutto nei settori di comando
e controllo, intelligence e trasporto strategico.
A parte l’obiettivo primario 2003 e 2010, la specializzazione che
si è sperimentata fino ad oggi, ossia la possibilità che certe
capacità non siano più gestite a livello di alcuni Stati membri
bensì all’interno di un quadro di cooperazione multinazionale,
è avvenuta solo su base bilaterale o multilaterale, non a livello
della globalità degli Stati membri dell’ue. La differenza tra
i due tipi di approccio è evidente soprattutto da un punto di vista
qualitativo. Nel primo caso, infatti, le decisioni sono prese o sulla base
di priorità nazionali che tengono in considerazione le necessità
militari di ogni singolo paese, o addirittura semplicemente spinte da esigenze
di risparmio. Questo tipo di programmazione è fatta senza che si
presti attenzione alle conseguenze che gli eventuali tagli o incrementi
di certi tipi di spesa possano avere per l’Europa come insieme.
La pianificazione e il coordinamento a livello di ue, cioè attraverso
un meccanismo di top-down, terrebbe invece conto non tanto e non solo degli
attuali limiti espressi dall’obiettivo primario o dal divario con
gli usa, quanto, e soprattutto, delle priorità che l’ue ha
espresso nel suo documento sulla strategia per la sicurezza e quindi delle
necessità specifiche e reali dell’Europa in quanto tale.
Una riflessione aggiuntiva deve essere fatta riguardo alla necessità
di una programmazione di lungo periodo che vada al di là di quelli
che sono gli obiettivi previsti per la data del 2010 poiché è
solo in tal modo che gli Stati possono procedere a ristrutturazioni importanti
delle loro forze armate ripartendo su un arco temporale più esteso
lo sforzo finanziario necessario a tal fine.
Solo all’interno di uno stabile e definito quadro europeo sarebbe
possibile decidere come gli Stati membri possono contribuire alla sicurezza
europea e attraverso quali capacità, applicando appieno sia il concetto
di specializzazione che la messa in comune delle loro forze armate e rendendo
possibile l’armonizzazione e la massima coordinazione nella politica
degli approvvigionamenti.
Una programmazione di lungo periodo farebbe sì che le ristrutturazioni
a livello nazionale tenessero conto fino dall’inizio delle necessità
dell’Unione invece di includerle alla fine del processo quando le
decisioni sono già state prese sulla base di considerazioni nazionali.
Allo stato attuale, nell’assenza di una pianificazione globale di
lungo periodo a livello continentale, la cooperazione strutturata permanente15
potrebbe fornire un primo quadro europeo di riferimento all’interno
del quale sviluppare la cooperazione e la specializzazione tra tutti quegli
Stati che desiderano farlo.
Parlare di integrazione militare implica anche porsi alcune domande che
riguardano l’equilibrio strategico tra gli Stati membri e tra questi
e l’Unione. Come può, infatti, essere realizzata la specializzazione
preservando le esigenze degli Stati membri e realizzando, al tempo stesso,
un’integrazione a livello europeo? Quali Stati dovranno specializzarsi
e in che cosa? Come trovare una soluzione che possa tener conto sia delle
esigenze di difesa e sicurezza del continente che degli stretti vincoli
economici degli Stati membri dell’ue?
La soluzione che è stata avanzata16 propone, da un lato, una completa
specializzazione dei piccoli paesi che saranno spinti a fare ancora meglio
quello che già realizzano in modo eccellente a livello nazionale,
concentrando il loro contributo su capacità specifiche che sarebbero
rese disponibili al pari di tutti gli altri Stati. Dall’altro, si
propone una parziale specializzazione dei grandi paesi che pur mantenendo
un ampio spettro di capacità nazionali saranno, comunque, spinti
a porre una certa enfasi sul settore in cui tradizionalmente hanno svolto
un ruolo predominante.
Dall’analisi dei bilanci di difesa e dalla situazione che ne è
emersa è prevedibile che, parallelamente a tali sviluppi, si assista
all’emergenza del direttorio della Gran Bretagna, della Francia e
della Germania nella costruzione di una “difesa europea”, il
che potrebbe condurre ad una serie di frizioni motivate da timori di sopraffazione
da parte di quegli Stati che ritengono che le posizioni dei tre grandi potrebbero
non essere conformi alle loro esigenze nazionali.
Anche in questo caso la cooperazione strutturata permanente potrebbe rivelarsi
un utile strumento per uscire da questa empasse, poiché permetterebbe,
per un verso, ai tre paesi in questione di progredire sulla base di quella
visione strategica che soltanto grandi potenze possono avere, supportati
dal consenso di quei paesi che si dichiarano desiderosi di raggiungerli.
Dall’altro lato, la cooperazione strutturata permanente assicura che
le attività svolte dai tre paesi rimangano fermamente incardinate
all’interno di un quadro europeo evitando con ciò che l’ue
stessa venga relegata ad una posizione di secondo livello e di semplice
ratifica di decisioni prese in altri consessi.
Queste ultime considerazioni ci fanno ben comprendere come il fatto di collegare
strettamente tra di loro le capacità militari dei paesi europei ha
un senso solo se tale processo è coronato da un consenso politico
che riconosca il ruolo dell’ue come attore internazionale. Trattasi
infatti di uno spinoso ed eterno problema della costruzione comunitaria
che è, in definitiva, quello relativo all’istituzione di un
vero “governo europeo” e dell’esercizio efficace della
leadership politica.
Una Golden Rule per la difesa e sicurezza nell’Unione Europea
I
bilanci europei, imbrigliati negli stretti vincoli di Maastricht non consentono
ai paesi di procedere ad un aumento delle spese destinate al sostegno della
politica di sicurezza e difesa con inevitabili conseguenze dal punto di
vista di una piena realizzazione degli obiettivi di capacità militari
necessari alla piena realizzazione di una difesa europea. Una finestra di
opportunità è lasciata aperta qualora si adottasse una regola
che introduca una innovazione qualitativa.
Se l’intenzione dell’Unione Europea e dei governi è quella
di promuovere la r&d per risolvere il deficit tecnologico del settore
della difesa e della sicurezza in un contesto continentale, c’è
da chiedersi se non sia preferibile applicare anche a tale settore un approccio
diverso da quello stabilito dai rigidi criteri di Maastricht e dal Patto
di Stabilità e Crescita, che permetterebbe di rafforzare la stabilità
economica e la crescita dei paesi europei abbinandola ad obiettivi di sicurezza.
La soluzione sarebbe quella di una piena accettazione di una golden rule.
Il Patto di stabilità e di crescita disciplina il comportamento fiscale
dei paesi dell’Unione Europea, obbligandoli a rispettare il vincolo
del bilancio in pareggio nel medio periodo e consentendo un deficit transitorio
non superiore al 3 per cento del prodotto interno lordo. Nel conto del disavanzo
non si fa distinzione tra spese correnti, cioè spese per consumi,
e spese in conto capitale, volte cioè a finanziare investimenti.
In tal modo, i governi di Eurolandia incontrano un serio ostacolo a realizzare
programmi di investimenti pubblici, anche quando questi sarebbero necessari
per la crescita e per la sicurezza.
La golden rule nella sua formulazione classica concerne la possibilità
di escludere le spese per investimenti dal calcolo del rapporto deficit/pil.
Considerato il contesto europeo in cui gli Stati membri operano si deve,
tuttavia, procedere ad aggiungere tre importanti principi17. Il primo è
un principio di flessibilità pluriennale che consente ai singoli
paesi di governare le congiunture sfavorevoli, riconoscendo loro la possibilità
di ricorrere alla spesa in deficit nei momenti difficili e recuperare nei
momenti di crescita. Questo è possibile se il periodo su cui si calcola
lo sfondamento del 3 per cento è un triennio e non più solo
un anno. Il secondo principio concerne la qualità della spesa che
deve essere volta a finanziare spese in conto capitale e non spese correnti.
Il terzo ed ultimo principio suggerisce che questa regola debba essere applicata
solo a progetti che hanno una portata europea e una gestione sopranazionale.
Lo scopo deliberato è quello di far sì che il loro finanziamento,
anche in deficit, si differenzi dagli investimenti pubblici interni che
costituirebbero un sostegno alla domanda interna con il risultato di generare
tensioni inflazionistiche. Inoltre, nel finanziare solo progetti con portata
continentale, si eviterebbero comportamenti opportunistici da parte dei
singoli Stati che camufferebbero le spese correnti in spese in conto capitale.
È questa una svolta non solo quantitativa ma soprattutto qualitativa
che permetterebbe alle spese per la sicurezza di entrare di diritto nell’agenda
europea contribuendo in tal modo alla realizzazione di un meccanismo di
top-down che farebbe sì che certe politiche vengano gestite non più
a livello dei singoli Stati, bensì europeo e tenendo conto delle
esigenze collettive dell’ue.
Questi temi richiedono una governance del sistema che concerne una pluralità
di interventi coordinati a livello di Unione con la partecipazione attiva
degli Stati membri che mantengono competenze essenziali in materia. Si dovrà
favorire l’interpenetrazione delle differenti politiche dell’Unione
e con un approccio che superi i limiti di una semplice cooperazione intergovernativa.
Per questo di dovrà fare in modo che l’Unione Europea e gli
Stati membri collaborino senza riserve per raggiungere gli obiettivi comuni
nel rispetto delle competenze e degli interessi, dei valori e delle priorità
di ciascuno dei protagonisti.
I risultati dei negoziati tenutisi in sede di Consiglio ecofin nel marzo
2005 per la revisione del Patto di stabilità e di crescita hanno
riconosciuto una certa flessibilità relativamente allo sfondamento
del 3 per cento del rapporto deficit/pil nel caso di riforme strutturali
che a lungo andare hanno un impatto positivo sull’economia. Tutte
le procedure automatiche sono state diluite ed è sparita la definizione
automatica delle circostanze eccezionali che permetterebbero un deficit
eccessivo temporaneo. Una maggiore discrezionalità è stata
riconosciuta al Consiglio e lo strumento dello early warning è stato
in parte depotenziato.
La riforma appare, tuttavia, incompleta. Gli Stati non hanno individuato
ex-ante quali investimenti debbano essere considerati virtuosi ed hanno
con ciò lasciato da parte la possibilità di decidere quali
settori fossero meritevoli di essere coordinati a livello europeo. Tra questi
avrebbe potuto rientrare quello della difesa. Non vi è alcun dubbio
che la scelta nella direzione dell’accettazione completa dei principi
della golden rule avrebbe rappresentato un passo strategico importante per
il sostegno alla r&d nel settore e, infine, un avanzamento sostanziale
sulla via della realizzazione di una maggior coordinazione in materia di
difesa europea che sarebbe stata finalmente riconosciuta come una delle
competenze specifiche dell’Unione.
Se l’Europa non si incammina sulla strada di un maggiore investimento
nella r&d in materia di difesa rischia di mancare l’obiettivo
della realizzazione di una più compiuta pesd e di mettere in pericolo
l’interoperabilità, la complementarietà e la compatibilità
delle forze sia a livello intraeuropeo che transatlantico. Un maggiore investimento
in questo settore permetterebbe agli eserciti europei di ridurre il divario
tecnologico con gli usa con effetti positivi per la realizzazione della
difesa europea e un rinvigorimento del legame transatlantico, soprattutto
attraverso la nato.
La Pesd e le relazioni Ue-Nato
Appare
sempre più evidente come la ristrutturazione delle forze armate nei
paesi europei debba avvenire non solo nel rispetto di quelli che sono i
tradizionali obiettivi di sicurezza nazionale ma anche in ottica di convergenza
europea e transatlantica. Il vero e principale divario tecnologico e militare
è prima di tutto la scarsa capacità dell’Europa a provvedere
alla propria sicurezza rispetto ai pericoli che la minacciano. È
da questo punto di vista che l’Alleanza strategica con gli Stati Uniti
risulta fondamentale e ci mostra come sia importante anche il divario in
termini di assets e capabilities tra l’ue e l’alleato d’oltre
oceano nella misura in cui questo ostacola l’interoperabilità
delle rispettive forze armate e quindi l’efficacia delle loro azioni
congiunte.
Di una cosa dobbiamo, comunque, essere consapevoli e cioè che l’attuale
pesd non è un punto di arrivo, bensì una delle tappe attraverso
cui gli Stati membri stanno progressivamente procedendo alla costruzione
di un’Europa della difesa. Un giorno l’integrazione sarà
un dato di fatto, frutto di tutti quegli avanzamenti, oggi chiamati in vario
modo – cooperazione, specializzazione, forze multinazionali –
ma che progressivamente stanno conducendo ad una maggiore integrazione.
Tenuto conto di questo processo in fieri, bisogna chiedersi fino a che punto
dovrà spingersi l’integrazione a livello europeo, cioè
se essa dovrà comprendere solo una porzione delle forze armate dei
paesi membri oppure la loro integrità. Se non è possibile,
ad oggi, fornire una risposta a questa domanda non si può, tuttavia
non sottolineare come sia oramai un dato inconfutabile che l’Unione
consumi sempre più l’energia politica degli Stati membri e
come lo sviluppo delle istituzioni segua questa tendenza generale. La conclusione
pertanto non può che essere quella per cui il potere militare e le
connesse strutture saranno sempre più concentrate a livello di Unione
e che la realizzazione di una difesa europea è solo una questione
di tempo.
L’attuale pesd altro non è che una struttura intergovernativa,
un po’ sullo stile della vecchia moda delle alleanze militari ma all’interno
della struttura a pilastri dell’ue. È proprio sotto questo
cappello europeo che si sta preparando a poco a poco il passo successivo
che dovrebbe condurre ad una vera politica europea per la sicurezza e la
difesa che sia genuinamente “comune”. La pesd, per come è
strutturata, non potrà “comunitarizzare” il settore della
difesa ma probabilmente potrà farlo il suo successore (cioè
la Costituzione europea con il previsto meccanismo della cooperazione rafforzata
permanente e l’istituzione di un’Agenzia europea per la difesa).
Da questo punto di vista, pertanto, anche la specializzazione e la creazione
di capacità comuni altro non sono che sintomi di una crescente integrazione
supportata dalle necessità derivanti dalle limitazioni di bilancio
e dai processi di approvvigionamento militare delle industrie della difesa
in Europa.
Ma una più compiuta realizzazione della pesd dipende anche da un
contesto internazionale più vasto che esce dalla portata e dal controllo
degli Stati europei e riguarda la posizione di altri attori internazionali
quali gli Stati Uniti, la Russia e la Turchia.
L’opinione dell’amministrazione Bush, relativamente allo sviluppo
della pesd, appare, in linea di principio, favorevole a un tale sviluppo.
In realtà gli usa sono preoccupati dell’impatto che essa può
avere sulle relazioni transatlantiche e in seno alla nato. Da un punto di
vista europeo, il nodo della questione è che, sebbene gli Stati Uniti
vogliono che l’ue faccia di più in termini di condivisione
degli oneri, non sembrano altrettanto desiderosi che essa acquisisca maggiori
responsabilità e poteri decisionali. Gli usa sostengono che la nato
deve avere un diritto di primo rifiuto relativamente a tutte le missioni
che l’Unione Europea desidera intraprendere. Sono disposti a sostenere
solo le missioni dall’ue realizzate nel quadro delle missioni di Petersberg
e stimano che tutte le misure adottate debbano essere decise in seno alla
nato18.
La Russia sembra non opporsi allo sviluppo della pesd. Dopo aver espresso
reticenze riguardo allo sviluppo di una Forza di Reazione Rapida europea,
il cui raggio di azione (4000 chilometri da Bruxelles) poteva coinvolgere
anche il territorio russo, sembra cominciare ad accettare uno sviluppo della
pesd, sebbene all’interno di un quadro transatlantico e non potenzialmente
soltanto europeo. È altresì vero che il comportamento della
Russia deve essere valutato prudentemente, poiché essa sta cercando
di giocare un ruolo crescente in tutte le nuove strutture di sicurezza europee
con il chiaro obiettivo di poter intervenire sullo sviluppo degli avvenimenti,
assecondandoli, piuttosto che subendone conseguenze che non sarebbe altrimenti
in grado di ostacolare qualora si trovasse in una posizione di isolamento19.
La Turchia, infine, membro della nato, non è disposta a permettere
che l’Unione Europea acceda alla pianificazione nato, alla sua intelligence
e alle sue capacità logistiche se la nato stessa non ha la sua parola
da dire sulle operazioni che l’ue intende effettuare20. È quindi
possibile che questo paese cerchi di bloccare attraverso vie indirette,
lo sviluppo della pesd che è, inoltre, intrinsecamente e strategicamente
collegata alle attività dell’Alleanza Atlantica poiché
un’Europa più forte contribuirebbe in modo accresciuto alla
definizione degli obiettivi della nato.
L’Alleanza Atlantica, che ha fondato il suo successo sul fatto di
essere una organizzazione capace di tradurre in pratica in un breve lasso
di tempo le decisioni prese a livello politico, sarebbe rinsaldata nella
sua posizione poiché incarnerebbe una partnership più equilibrata
ed efficace. Perché non è né militarmente sostenibile
né politicamente auspicabile continuare a lasciare tutto il peso
della sicurezza sulle spalle degli usa. L’obiettivo dell’Europa
dovrà essere quello di portarsi in una posizione in cui la ripartizione
degli oneri non sia più suddivisa in due strati sovrapposti, uno
più importante dell’altro ma basata su due pilastri paralleli.
L’Europa dovrà cercare di essere in grado di assumere l’onere
delle operazioni previste dai “compiti di Petersberg aggiornati”
(tenuto conto cioè del nuovo testo del Trattato Costituzionale) scegliendo,
di conseguenza, di non dover sempre ricorrere a forze non sue per operazioni
decise a supporto della propria politica estera e nella propria area di
responsabilità. Le forze militari europee, per natura, obiettivi
e dimensioni non rappresenterebbero certo un’alternativa alla nato
quanto piuttosto un complemento. La nato resta, infatti, l’organizzazione
capace di garantire la sicurezza e la difesa nell’area euro-altantica.
Con una scelta di tal genere l’ue confermerebbe il suo approccio olistico
alla sicurezza, basato sull’utilizzo di strumenti civili, economici,
diplomatici, finanziari e anche militari, mentre gli usa sarebbero orientati
ad un genere di intervento definito di hard security. Se l’ue e gli
Stati Uniti si renderanno conto della necessità strategica che hanno
l’uno dell’altro, e se questi ultimi riusciranno a capire che
il mantenimento della pace è parte intrinseca del processo di guerra,
allora la nato potrà fungere da connessione per un futuro rapporto
transatlantico costruttivo. Con questo genere di cooperazione l’ue,
gli usa e la nato potranno occuparsi di tutti gli aspetti del ciclo della
sicurezza offrendo una risposta flessibile a minacce imprevedibili e asimmetriche.
In questo risiede la chiave per il futuro delle relazioni ue-nato.
Ma la vera e ultima questione della difesa europea risiede nelle capacità
di spesa dei governi che avranno un bel da fare per convincere i loro elettori
ad investire di più nella loro sicurezza. Spetta agli europei fare
il primo passo.
Note
1. Trattasi di operazioni umanitarie e di soccorso, operazioni di peace-keeping,
operazioni di gestione delle crisi comprendenti anche le operazioni di peace-making.
2. Gerard Quille, “Implementing the defence aspect of the European
Security Strategy: the Headline Goal 2010”, European Security Review,
isis Europe, n. 23, luglio 2004.
3. Consiglio europeo di Salonicco, “Conclusioni della Presidenza”,
19-20 giugno 2003, par. 56.
4. Tali operazioni includono sia i compiti di Petersberg (nota 1) che, come
indicato nel documento sulla Strategia di Sicurezza Europea, tutte le missioni
concernenti le operazioni congiunte di disarmo, il sostegno a paesi terzi
nella lotta al terrorismo e il sostegno per le riforme nel settore della
sicurezza.
5. Consiglio dell’Unione Europea, “espd Presidency Report”
Bruxelles 15 giugno 2004, Annesso 1.
6. Per dare un’idea delle carenze degli Stati europei in termini capacità,
l’Iniziativa sulle capacità di difesa lanciata dalla nato nell’aprile
1999, aveva individuato 58 lacune nelle capacità militari europee,
tra cui servizi di supporto militare e sanitario; trasporto aereo tattico;
trasporto navale tattico; risorse per la gestione di comando, controllo,
comunicazioni, computer, informazione e sorveglianza e riconoscimento (C4ISR),
soppressione della difesa aerea nemica (sead), comando aviotrasportato sul
campo, interoperabilità e ricerca e salvataggio in combattimento
(csar). Per parte sua, nel 1999, l’inventario ueo sulle capacità
militari europee aveva individuato gravi carenze nei servizi di informazione
e nella programmazione tattica, ponendo l’accento sulla necessità
di migliorare profondamente la sostenibilità, la capacità
di sopravvivenza e l’interoperabilità.
7. “Declaration on UE Military Capabilities” 19th and 20th May
2003, “Capability Improvement Chart” II/2004 on 17tn November
2004 and “Military Capability Commitment Conference” on 22nd
November 2004.
8. L’Identità di Sicurezza e Difesa Europea rappresenta il
pilastro europeo in seno all’Alleanza Atlantica.
9. Lord Roberson ha dichiarato in occasione della conferenza - Defence and
Security in an Uncertain World– «we need to focus more on improving
those capabilities which are most critical for the success of a transatlantic
military coalition. The European Allies cannot hope to match the US system-for-system.
But even the US is not militarily self-sufficient. It has its own shortcomings.
The European and Canadian Allies should thus have a closer look at which
capabilities they can offer to a common operation», Bruxelles, 17
maggio 2002.
10. Per ben spiegare la necessità di una forza armata europea autonoma
e autosufficiente si pensi, a titolo di esempio, all’ipotesi di un
riaccendersi del conflitto nei Balcani mentre gli americani sono impegnati
in altri teatri.
11. Fonte: The IISS Military Balance, 2003-2004, IISS, London in Burkard
Schmitt, “Defence Expenditure (last update July 2004)”, Institute
for Security Studies. Per completare in ordine decrescente la lista abbiamo:
Svezia 1,7 per cento, Estonia, Danimarca e Paesi Bassi con l’1,6,
Slovenia e Germania con l’1,5, Finlandia 1,4, Belgio 1,3, Spagna,
1,2, Lussemburgo 0,9, Austria 0,8 e Malta 0,7 per cento del pil.
12. Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Spagna, e Svezia.
13. Burkard Schmitt, “Defence Expenditure (last update July 2004)”,
Institute for Security Studies.
14. Alistair J. K. Shepherd, «The European Union’s Security
and Defence Policy: A Policy without Substance?», European Security,
Vol. 12, n. 1 (Spring 2003), pp. 39-63.
15. La cooperazione strutturata permanente consiste in una procedura che
apre la possibilità ad un gruppo di Stati di cooperare più
strettamente tra di loro all’interno del quadro istituzionale unico
dell’Unione Europea, seguendo regole e procedure prestabilite e accettate
da tutti.
16. Sven Biscop, “European military integration: beyond the headline
goal”, and Julian Lindley-French, “A long-term perspective on
Military integration”, E Pluribus Unum? Military Integration in the
European Union, Bruxelles,12 maggio 2005.
16. A proposito della “Golden Rule “ si veda: Renato Brunetta,
“Gruppo di lavoro PPE-DE Costituzione economica” 2 febbraio
2002; Renato Brunetta, “Questo patto di instabilità”,
Panorama, 21 gennaio 2005; R. Brunetta, A. Preto, G. Tria, “Immigrazione,
alla ue serve una golden rule”, Il Sole 24 Ore 20 agosto 2004.
17. “La politique européenne de sécurité et de
défense (pesd)”, Security & Defence, mercoledì 26
gennaio 2005.
19. Dov Lynch, “Russia faces Europe”, Challot Paper n. 60, Institute
for Security Studies, maggio 2003.
20. “La politique européenne de sécurité et de
défense (pesd)”, Security & Defence, mercoledì 26
gennaio 2005.
Gloria Martini, è
manager per la gestione di progetti internazionali presso Aerospace and
Defence Industries Association Europe (Asd) di Bruxelles.
(c)
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