Filosofia dell'amore cristiano
di Vittorio Mathieu
Ideazione di marzo-aprile 2006


La seconda parte di Deus caritas est collega il pontificato di Benedetto XVI a quelli che lo hanno immediatamente preceduto e ha un valore ecclesiale. Ma la prima parte, che fonda dottrinalmente la seconda, ha anche un profondo valore filosofico.
Dio è amore in un senso a prima vista lontanissimo da quello in cui “fanno l’amore” gli uomini; ma Papa Ratzinger non esita a collegarli. L’ambiguità linguistica ha un’origine storica precisa nel Cantico dei Cantici, dove ad amore corrispondono due termini molto diversi: dodim è la ricerca incerta di un completamento; ahabà è il rapporto personale con l’altro a cui ci si unisce e con cui ci si aiuta vicendevolmente. In origine il Cantico dei Cantici era un inno nuziale e dipingeva l’evolversi del rapporto tra i sessi nel matrimonio. Sovrappostasi a questo significato letterale un’interpretazione allegorica, il Cantico verrà a significare il rapporto tra Jahweh e il suo popolo, poi tra Cristo e la Chiesa e tra Dio e l’umanità. I traduttori greci – che da Alessandria diffondevano la conoscenza della Bibbia nel mondo – di fronte a quella distinzione di termini provarono un certo imbarazzo. Per dodim serviva bene eros, ma per l’altro termine, enigmatico, i Settanta non trovarono di meglio che adottare un termine di suono simile: agape, dal verbo agapao, che si trova già in Omero col significato di “prendersi cura di” (persona o cosa: latino diligo). Agape assumerà poi il senso di banchetto fraterno fra amici, mentre charitas si addossa le connotazioni attive di chairo, gioire e gradire, onde charis grazia, e quindi charitas. La carità è il dono e insieme il sentimento con cui si dona e la gratitudine con cui si riceve. Tutte queste accezioni si trovano nel parlare comune quando, ad esempio, si ringrazia; o in Dante, quando Trasone domanda a Taide, a cui ha donato una schiava: «Ho io grazie grandi appo di te?» e Taide risponde con adulazione: «Anzi, meravigliose» (Inf. XVIII, 134). Densa di significati attuali e potenziali, perciò, l’affermazione che «Dio è amore» o charitas (p. 3: 1 lettera di Giovanni, 4,16).
Fatte queste premesse, si potrebbe pensare che il Papa rimuova quei significati di “amore” che non attengono alla teologia. Ma Ratzinger non li rimuove. Anzi, premette che «l’amore tra uomo e donna […] emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono». Che è come dire: spesso oggi il sesso vorrebbe disinteressarsi della religione, ma la religione non si disinteressa del sesso confinandolo nella sfera degli “dèi falsi e bugiardi”. Senza dubbio esistevano consuetudini e istituti a cui non si può ritornare, come non si può ritornare, poniamo, ai sacrifici umani; ma dobbiamo capire Abramo e Jefte non meno di Agamennone, per capirne la sublimazione: il sacrificio per l’uomo del Figlio di Dio. Allo stesso modo, non si può ritornare alla ierodulia, o sacra prostituzione, che inghirlandava il Mediterraneo come il Mar del Giappone (si pensi a Erice e a Porto Venere). In questi istituti – che sul piano temporale fornivano sollievo ai naviganti e cospicui redditi alla classe sacerdotale – «l’eros veniva celebrato come forza divina, come comunione col Divino». Ma la degenerazione dei culti della fertilità era di moda anche allora, e Eraclito la depreca: «Se non facessero per Dioniso la processione, compirebbero atti immondi».

La separazione tra i due aspetti è tipica delle sette gnostiche: ciò che fa il corpo non tocca lo spirito. L’uomo spirituale (o “pneumatico”) non è menomato da quei comportamenti che per contro manifestano la degenerazione inesorabile dell’uomo “carnale”. Di qui il comportamento anomistico di molti catari, “puri”, o puritani. Il purismo si manifesta in particolare nel protestantesimo come reazione alla degenerazione della Chiesa di Roma, nuova Babilonia, ma spesso mette capo all’anomismo dimenticando la sua origine religiosa. «In realtà eros e agàpe non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro».
Nessuno di noi esisterebbe senza la forza di Venere genitrice, cantata da Lucrezio. Per quanto persuasi dell’opportunità di conservare la specie, i miei genitori non mi avrebbero generato in forza di quella sola considerazione. Tolstoj vecchio poteva auspicare che sparisse la concupiscenza – da cui era stato terribilmente affetto – perché giudicava non necessaria la continuazione della specie; e fu per questo censurato dalla Chiesa ortodossa. Ma il congiungersi del maschio e della femmina non si riduce a un processo fisico. La scienza ha fatto passi da gigante nello spiegare il modo in cui essa avviene, e con ciò ha reso più profondo il mistero. Io sono uno, e vengo necessariamente da due. L’attuale mania della clonazione vorrebbe evitarlo; e, del resto, molte specie si producono anche in natura per clonazione, ma non senza una duplicazione che, presupposta alla stessa congiunzione sessuale, ne spiega solo in parte l’enigma.
Come corpo sono un insieme formato dall’associarsi di innumerevoli entità preesistenti; come organismo sono unità delle informazioni provenienti da due gameti. Ma come individuo sono un’unità indivisibile, e quindi non riconducibile a un processo di composizione. Lo stesso congiungersi delle informazioni dopo la meiosi lo dimostra. Se si cerca di ricondurre ogni informazione a un gene, ci si accorge poi che i caratteri somatici e psichici dipendono dalla collaborazione di molti geni. Sarebbe semplice poter dire: il colore degli occhi viene dal padre, la forma del naso dalla madre e così via: ma poi ci si accorge che al naso ha contribuito anche il padre e non si riesce a isolare parti di naso paterne da altre materne. Tale impossibilità di separare deve dipendere da una unione che non si lascia spiegare meccanicamente.
Per di più, mentre il tipo di unità di un corpo composto dipende dal modo in cui le parti si sono unite, l’unità di un individuo vivente – di un uomo, ma anche di qualsiasi animale superiore – non si ottiene solo per composizione. La materia di una cellula embrionale viene tutta dai gameti e la materia delle mie cellule attuali viene tutta da cibi ingeriti; ma quella unità per cui io sono io e non un altro – quella unità che mi dà un nome – non si spiega così. Del fatto che “io” sia stato il primo a nascere dalla congiunzione tra mio padre e mia madre e non da quelle, poniamo, di Enrico VIII con la sua sesta moglie non c’è assolutamente nessuna spiegazione: è la “casualità” assoluta, o cadere nel mondo, o esservi gettati (Heidgger): un venire al mondo, non un venire dal mondo.

Amore orizzontale e amore verticale

Ciò fa pensare che quel “farsi uno del due”, da cui noi nasciamo, nasconda qualcosa di più di ciò che si vede. Non si tratta di una miscela che lasci intatti gli ingredienti, non di un composto in cui rimangano entrambi e neppure di una soluzione tra anioni e cationi: nella nuova unità il due non si distingue più. Ne nasce un’unità indivisibile, che non si lascia né comporre né analizzare e che perciò è necessario presupporre. Se dal due nasce un uno indivisibile, vuol dire che l’uno c’era già a suo fondamento. Ora, una unità che c’è già, non composta, non è fatta ad arte o “artefatta”: dato che l’ottenerla non è a nostra disposizione, il suo prodursi si esprime, nel nostro linguaggio, come “creazione”. Ed è significativo che le metafore per la creazione siano tratte regolarmente dal sesso, in contrapposto al fare artificiale: Gigni, non facere: distinzione usata addirittura nel latino del simbolo niceno. Anche in greco physis, o natura, è riferito agli organi genitali. La generazione che fa nascere l’Uno dal due fornisce quella metafora, perché a suo fondamento c’è una unità più originaria di quell’unità che deriva dal due: perché dai due venga l’Uno occorre che il due sia già scaturito dall’Uno. L’amore che unisce i due sessi genera l’Uno perché i due sessi sono già il frutto di un Uno più originario. Allora la parola assume due sensi analoghi ma diversi: amore tra i due che genera l’uno, e amore dell’Uno che crea il due.
Per poter distinguere abbiamo bisogno di due dimensioni. C’è un amore orizzontale tra uomo e donna e un amore verticale tra Dio e l’uomo. In entrambe le direzioni c’è un dare e un avere, peraltro dissimetrici, al punto che nell’amore verticale la simmetria tende a zero. Tende senza raggiungerlo, perché è vero che l’uomo non può dare a Dio nulla di esterno, ma può dargli se stesso, dando qualcosa di esterno ad altri uomini («Ogni volta che avrete fatto questo a uno solo dei miei fratelli più piccoli l’avrete fatto a me», Matteo 25, 40). C’è dunque un’analogia tra l’amore dell’uomo per Dio e l’amore di Dio per l’uomo (peculiare quest’ultimo del Cristianesimo). In questa analogia la dissomiglianza è infinitamente maggiore che la somiglianza (come stabilì il IV Concilio Laterano), ma ciò non toglie che sia «una e medesima la via all’insù e all’ingiù» come aveva detto il frammento 60 di Eraclito.
Il dono divino è gratuito, non è necessario, perché senza creazione non ci sarebbe a chi donare. Quindi, alla luce dell’Etica Nicomachea di Aristotele, può essere interpretato come un atto di magnificenza: manifestazione non necessaria di grandezza, che dà luogo alla “gloria” (o manifestazione, o doxa theoù, che in spagnolo significa anche Paradiso). Una volta posta in atto, però, la creazione, per il fatto stesso che pone il finito, richiede misericordia da parte di Dio verso gli uomini e da parte degli uomini gli uni verso gli altri: «Poiché c’è un solo pane, partecipiamo tutti dell’unico pane» (1. Cor. 10, 17). Poiché siamo molti, a tutti dobbiamo donare, a cominciare dai più vicini (il prossimo). Così l’unità originaria dell’Uno assoluto unisce tra loro anche i molti, e «l’amore può essere comandato perché anzitutto è donato». L’interpretazione sociologica di tale situazione inverte il rapporto: il pane non andrebbe distribuito tra i molti perché viene dall’Uno trascendente, ma l’Uno sarebbe la proiezione del “pane condiviso”. Da decenni questa interpretazione feuerbachiana si è insinuata nella stessa teologia cattolica, ma ora è in declino. Essa fraintende il detto «là dove due o tre sono uniti nel mio nome, lì sono io», come se significasse che l’unione tra gli uomini genera Dio, anziché Dio l’unione tra gli uomini.

Corollari a margine dell’enciclica

Più di un corollario si potrebbe trarre da questa enciclica. Ad esempio, il carattere sentimentale dell’amore che, però, «non è sentimento soltanto». L’incontro con Dio «chiama in causa anche volontà e intelletto», e «non è mai concluso». Si potrebbe poi applicare l’osservazione «l’amore mira all’eternità», a un fenomeno frequente, che può dare nel comico: gli amanti si giurano amore eterno e poco dopo ripetono lo stesso giuramento ad altri. Eterno non significa, durevole, persistente, enduring (come la pace auspicata da Bush). Significa un modo d’essere concentrato in sé, non disperso, analogo, pur nell’infinita lontananza, a quello di Dio, «eterno nell’istante»; perché l’amore autentico si colloca ad un livello su cui il tempo non è diluito, ma tende a concentrarsi in un punto. Bergson osservò una volta che, se il linguaggio mistico si modella spesso sul linguaggio erotico, ciò avviene perché l’erotico prende molto dal mistico.
C’è per contro un filosofo assente nell’enciclica, come del resto in quasi tutta la dottrina cristiana sull’eros: Schopenhauer. L’amore è un mistero anche come eros: questo lo sente anche la gente comune sebbene ormai, purtroppo, sempre meno. Ma non è un mistero tutto gaudioso: a volte e per tanti aspetti è dolorosissimo. Lo scopo dell’eros non sarebbe raggiunto se si presentasse in astratto: si attua solo a patto di divenire un inganno, con cui la specie fa credere al singolo di perseguire un suo scopo assoluto mentre il singolo obbedisce a una necessità che lo sacrifica. Il lato negativo dell’edonismo erotico non è dovuto solo agli abusi: fa parte del gioco. E la teologia è bensì in grado di spiegarlo, ma è raro che lo faccia. Dice San Paolo: «È meglio sposarsi che bruciare»; non specifica, però, di quanto sia meglio. Rimane il fatto notato dal paganeggiante Lorenzo il Magnifico: se è vero che c’è inganno, «queste ninfe hanno pur caro da lor esser ingannate».
Ho riassunto il discorso di un’enciclica teologica in pensieri tutti filosofici e profani. Mi sono addirittura tuffato nell’astrazione: il due che diviene uno perché ha a fondamento un uno che diviene molti e li lega. Pur servendomi dei primi tre numeri primi, non ho accennato alla Trinità, che porta su un livello più alto l’amore. Voglio ricordare tuttavia la Conclusione dell’enciclica, che vede l’amore in Maria, madre di Gesù. Gli studi mariani cadono facilmente nel dolciastro, ma quelle sette pagine sono, al contrario, sullo stesso piano dell’inno di San Bernardo messo in versi da Dante (e dedicato da Comte – è divertente ricordarlo – a Clotilde de Vaux): «Maria è una donna che ama, madre della Parola incarnata».
Nel mondo d’oggi la donna sta avviandosi al suo trionfo su un altro piano. Il suo è il sesso forte, il più adatto all’ambiente della società attuale. Le sopraffazioni di un tempo perdurano anche oggi, non solo nei regimi musulmani, ma vanno restringendosi, anzi tendono a rovesciarsi. Già nei tardi Libri profetici dell’Antico Testamento la soggezione della donna si attenua. Nel Nuovo Testamento, pur senza scomparire, è compensata da un fatto inaudito, che nessun ministro delle Pari Opportunità giungerebbe a concepire: fare di una donna la madre di Dio. Non una persona della Trinità, come pensano a volte alcuni musulmani; e non un oggetto di adorazione come dice Calvino («Cette putaine, que les papistes adorent»). Maria non è oggetto di adorazione, bensì di iperdulia o supervenerazione; ma la mediazione di Maria è centrale nella salvezza cristiana. Quanto all’annunzio (kérigma) e alla celebrazione (leiturgia) il dogma cattolico conserva alla donna una limitazione, ma nel servizio della carità (diakonia) le assegna il primo posto.


Vittorio Mathieu, accademico dei Lincei, ordinario di Filosofia morale, presidente del comitato scientifico della Fondazione Ideazione.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuileton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006