La
seconda parte di Deus caritas est collega il pontificato di Benedetto XVI
a quelli che lo hanno immediatamente preceduto e ha un valore ecclesiale.
Ma la prima parte, che fonda dottrinalmente la seconda, ha anche un profondo
valore filosofico.
Dio è amore in un senso a prima vista lontanissimo da quello in cui
“fanno l’amore” gli uomini; ma Papa Ratzinger non esita
a collegarli. L’ambiguità linguistica ha un’origine storica
precisa nel Cantico dei Cantici, dove ad amore corrispondono due termini
molto diversi: dodim è la ricerca incerta di un completamento; ahabà
è il rapporto personale con l’altro a cui ci si unisce e con
cui ci si aiuta vicendevolmente. In origine il Cantico dei Cantici era un
inno nuziale e dipingeva l’evolversi del rapporto tra i sessi nel
matrimonio. Sovrappostasi a questo significato letterale un’interpretazione
allegorica, il Cantico verrà a significare il rapporto tra Jahweh
e il suo popolo, poi tra Cristo e la Chiesa e tra Dio e l’umanità.
I traduttori greci – che da Alessandria diffondevano la conoscenza
della Bibbia nel mondo – di fronte a quella distinzione di termini
provarono un certo imbarazzo. Per dodim serviva bene eros, ma per l’altro
termine, enigmatico, i Settanta non trovarono di meglio che adottare un
termine di suono simile: agape, dal verbo agapao, che si trova già
in Omero col significato di “prendersi cura di” (persona o cosa:
latino diligo). Agape assumerà poi il senso di banchetto fraterno
fra amici, mentre charitas si addossa le connotazioni attive di chairo,
gioire e gradire, onde charis grazia, e quindi charitas. La carità
è il dono e insieme il sentimento con cui si dona e la gratitudine
con cui si riceve. Tutte queste accezioni si trovano nel parlare comune
quando, ad esempio, si ringrazia; o in Dante, quando Trasone domanda a Taide,
a cui ha donato una schiava: «Ho io grazie grandi appo di te?»
e Taide risponde con adulazione: «Anzi, meravigliose» (Inf.
XVIII, 134). Densa di significati attuali e potenziali, perciò, l’affermazione
che «Dio è amore» o charitas (p. 3: 1 lettera di Giovanni,
4,16).
Fatte queste premesse, si potrebbe pensare che il Papa rimuova quei significati
di “amore” che non attengono alla teologia. Ma Ratzinger non
li rimuove. Anzi, premette che «l’amore tra uomo e donna […]
emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui confronto, a prima
vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono». Che è come
dire: spesso oggi il sesso vorrebbe disinteressarsi della religione, ma
la religione non si disinteressa del sesso confinandolo nella sfera degli
“dèi falsi e bugiardi”. Senza dubbio esistevano consuetudini
e istituti a cui non si può ritornare, come non si può ritornare,
poniamo, ai sacrifici umani; ma dobbiamo capire Abramo e Jefte non meno
di Agamennone, per capirne la sublimazione: il sacrificio per l’uomo
del Figlio di Dio. Allo stesso modo, non si può ritornare alla ierodulia,
o sacra prostituzione, che inghirlandava il Mediterraneo come il Mar del
Giappone (si pensi a Erice e a Porto Venere). In questi istituti –
che sul piano temporale fornivano sollievo ai naviganti e cospicui redditi
alla classe sacerdotale – «l’eros veniva celebrato come
forza divina, come comunione col Divino». Ma la degenerazione dei
culti della fertilità era di moda anche allora, e Eraclito la depreca:
«Se non facessero per Dioniso la processione, compirebbero atti immondi».
La
separazione tra i due aspetti è tipica delle sette gnostiche: ciò
che fa il corpo non tocca lo spirito. L’uomo spirituale (o “pneumatico”)
non è menomato da quei comportamenti che per contro manifestano la
degenerazione inesorabile dell’uomo “carnale”. Di qui
il comportamento anomistico di molti catari, “puri”, o puritani.
Il purismo si manifesta in particolare nel protestantesimo come reazione
alla degenerazione della Chiesa di Roma, nuova Babilonia, ma spesso mette
capo all’anomismo dimenticando la sua origine religiosa. «In
realtà eros e agàpe non si lasciano mai separare completamente
l’uno dall’altro».
Nessuno di noi esisterebbe senza la forza di Venere genitrice, cantata da
Lucrezio. Per quanto persuasi dell’opportunità di conservare
la specie, i miei genitori non mi avrebbero generato in forza di quella
sola considerazione. Tolstoj vecchio poteva auspicare che sparisse la concupiscenza
– da cui era stato terribilmente affetto – perché giudicava
non necessaria la continuazione della specie; e fu per questo censurato
dalla Chiesa ortodossa. Ma il congiungersi del maschio e della femmina non
si riduce a un processo fisico. La scienza ha fatto passi da gigante nello
spiegare il modo in cui essa avviene, e con ciò ha reso più
profondo il mistero. Io sono uno, e vengo necessariamente da due. L’attuale
mania della clonazione vorrebbe evitarlo; e, del resto, molte specie si
producono anche in natura per clonazione, ma non senza una duplicazione
che, presupposta alla stessa congiunzione sessuale, ne spiega solo in parte
l’enigma.
Come corpo sono un insieme formato dall’associarsi di innumerevoli
entità preesistenti; come organismo sono unità delle informazioni
provenienti da due gameti. Ma come individuo sono un’unità
indivisibile, e quindi non riconducibile a un processo di composizione.
Lo stesso congiungersi delle informazioni dopo la meiosi lo dimostra. Se
si cerca di ricondurre ogni informazione a un gene, ci si accorge poi che
i caratteri somatici e psichici dipendono dalla collaborazione di molti
geni. Sarebbe semplice poter dire: il colore degli occhi viene dal padre,
la forma del naso dalla madre e così via: ma poi ci si accorge che
al naso ha contribuito anche il padre e non si riesce a isolare parti di
naso paterne da altre materne. Tale impossibilità di separare deve
dipendere da una unione che non si lascia spiegare meccanicamente.
Per di più, mentre il tipo di unità di un corpo composto dipende
dal modo in cui le parti si sono unite, l’unità di un individuo
vivente – di un uomo, ma anche di qualsiasi animale superiore –
non si ottiene solo per composizione. La materia di una cellula embrionale
viene tutta dai gameti e la materia delle mie cellule attuali viene tutta
da cibi ingeriti; ma quella unità per cui io sono io e non un altro
– quella unità che mi dà un nome – non si spiega
così. Del fatto che “io” sia stato il primo a nascere
dalla congiunzione tra mio padre e mia madre e non da quelle, poniamo, di
Enrico VIII con la sua sesta moglie non c’è assolutamente nessuna
spiegazione: è la “casualità” assoluta, o cadere
nel mondo, o esservi gettati (Heidgger): un venire al mondo, non un venire
dal mondo.
Amore orizzontale e amore verticale
Ciò
fa pensare che quel “farsi uno del due”, da cui noi nasciamo,
nasconda qualcosa di più di ciò che si vede. Non si tratta
di una miscela che lasci intatti gli ingredienti, non di un composto in
cui rimangano entrambi e neppure di una soluzione tra anioni e cationi:
nella nuova unità il due non si distingue più. Ne nasce un’unità
indivisibile, che non si lascia né comporre né analizzare
e che perciò è necessario presupporre. Se dal due nasce un
uno indivisibile, vuol dire che l’uno c’era già a suo
fondamento. Ora, una unità che c’è già, non composta,
non è fatta ad arte o “artefatta”: dato che l’ottenerla
non è a nostra disposizione, il suo prodursi si esprime, nel nostro
linguaggio, come “creazione”. Ed è significativo che
le metafore per la creazione siano tratte regolarmente dal sesso, in contrapposto
al fare artificiale: Gigni, non facere: distinzione usata addirittura nel
latino del simbolo niceno. Anche in greco physis, o natura, è riferito
agli organi genitali. La generazione che fa nascere l’Uno dal due
fornisce quella metafora, perché a suo fondamento c’è
una unità più originaria di quell’unità che deriva
dal due: perché dai due venga l’Uno occorre che il due sia
già scaturito dall’Uno. L’amore che unisce i due sessi
genera l’Uno perché i due sessi sono già il frutto di
un Uno più originario. Allora la parola assume due sensi analoghi
ma diversi: amore tra i due che genera l’uno, e amore dell’Uno
che crea il due.
Per poter distinguere abbiamo bisogno di due dimensioni. C’è
un amore orizzontale tra uomo e donna e un amore verticale tra Dio e l’uomo.
In entrambe le direzioni c’è un dare e un avere, peraltro dissimetrici,
al punto che nell’amore verticale la simmetria tende a zero. Tende
senza raggiungerlo, perché è vero che l’uomo non può
dare a Dio nulla di esterno, ma può dargli se stesso, dando qualcosa
di esterno ad altri uomini («Ogni volta che avrete fatto questo a
uno solo dei miei fratelli più piccoli l’avrete fatto a me»,
Matteo 25, 40). C’è dunque un’analogia tra l’amore
dell’uomo per Dio e l’amore di Dio per l’uomo (peculiare
quest’ultimo del Cristianesimo). In questa analogia la dissomiglianza
è infinitamente maggiore che la somiglianza (come stabilì
il IV Concilio Laterano), ma ciò non toglie che sia «una e
medesima la via all’insù e all’ingiù» come
aveva detto il frammento 60 di Eraclito.
Il dono divino è gratuito, non è necessario, perché
senza creazione non ci sarebbe a chi donare. Quindi, alla luce dell’Etica
Nicomachea di Aristotele, può essere interpretato come un atto di
magnificenza: manifestazione non necessaria di grandezza, che dà
luogo alla “gloria” (o manifestazione, o doxa theoù,
che in spagnolo significa anche Paradiso). Una volta posta in atto, però,
la creazione, per il fatto stesso che pone il finito, richiede misericordia
da parte di Dio verso gli uomini e da parte degli uomini gli uni verso gli
altri: «Poiché c’è un solo pane, partecipiamo
tutti dell’unico pane» (1. Cor. 10, 17). Poiché siamo
molti, a tutti dobbiamo donare, a cominciare dai più vicini (il prossimo).
Così l’unità originaria dell’Uno assoluto unisce
tra loro anche i molti, e «l’amore può essere comandato
perché anzitutto è donato». L’interpretazione
sociologica di tale situazione inverte il rapporto: il pane non andrebbe
distribuito tra i molti perché viene dall’Uno trascendente,
ma l’Uno sarebbe la proiezione del “pane condiviso”. Da
decenni questa interpretazione feuerbachiana si è insinuata nella
stessa teologia cattolica, ma ora è in declino. Essa fraintende il
detto «là dove due o tre sono uniti nel mio nome, lì
sono io», come se significasse che l’unione tra gli uomini genera
Dio, anziché Dio l’unione tra gli uomini.
Corollari a margine dell’enciclica
Più
di un corollario si potrebbe trarre da questa enciclica. Ad esempio, il
carattere sentimentale dell’amore che, però, «non è
sentimento soltanto». L’incontro con Dio «chiama in causa
anche volontà e intelletto», e «non è mai concluso».
Si potrebbe poi applicare l’osservazione «l’amore mira
all’eternità», a un fenomeno frequente, che può
dare nel comico: gli amanti si giurano amore eterno e poco dopo ripetono
lo stesso giuramento ad altri. Eterno non significa, durevole, persistente,
enduring (come la pace auspicata da Bush). Significa un modo d’essere
concentrato in sé, non disperso, analogo, pur nell’infinita
lontananza, a quello di Dio, «eterno nell’istante»; perché
l’amore autentico si colloca ad un livello su cui il tempo non è
diluito, ma tende a concentrarsi in un punto. Bergson osservò una
volta che, se il linguaggio mistico si modella spesso sul linguaggio erotico,
ciò avviene perché l’erotico prende molto dal mistico.
C’è per contro un filosofo assente nell’enciclica, come
del resto in quasi tutta la dottrina cristiana sull’eros: Schopenhauer.
L’amore è un mistero anche come eros: questo lo sente anche
la gente comune sebbene ormai, purtroppo, sempre meno. Ma non è un
mistero tutto gaudioso: a volte e per tanti aspetti è dolorosissimo.
Lo scopo dell’eros non sarebbe raggiunto se si presentasse in astratto:
si attua solo a patto di divenire un inganno, con cui la specie fa credere
al singolo di perseguire un suo scopo assoluto mentre il singolo obbedisce
a una necessità che lo sacrifica. Il lato negativo dell’edonismo
erotico non è dovuto solo agli abusi: fa parte del gioco. E la teologia
è bensì in grado di spiegarlo, ma è raro che lo faccia.
Dice San Paolo: «È meglio sposarsi che bruciare»; non
specifica, però, di quanto sia meglio. Rimane il fatto notato dal
paganeggiante Lorenzo il Magnifico: se è vero che c’è
inganno, «queste ninfe hanno pur caro da lor esser ingannate».
Ho riassunto il discorso di un’enciclica teologica in pensieri tutti
filosofici e profani. Mi sono addirittura tuffato nell’astrazione:
il due che diviene uno perché ha a fondamento un uno che diviene
molti e li lega. Pur servendomi dei primi tre numeri primi, non ho accennato
alla Trinità, che porta su un livello più alto l’amore.
Voglio ricordare tuttavia la Conclusione dell’enciclica, che vede
l’amore in Maria, madre di Gesù. Gli studi mariani cadono facilmente
nel dolciastro, ma quelle sette pagine sono, al contrario, sullo stesso
piano dell’inno di San Bernardo messo in versi da Dante (e dedicato
da Comte – è divertente ricordarlo – a Clotilde de Vaux):
«Maria è una donna che ama, madre della Parola incarnata».
Nel mondo d’oggi la donna sta avviandosi al suo trionfo su un altro
piano. Il suo è il sesso forte, il più adatto all’ambiente
della società attuale. Le sopraffazioni di un tempo perdurano anche
oggi, non solo nei regimi musulmani, ma vanno restringendosi, anzi tendono
a rovesciarsi. Già nei tardi Libri profetici dell’Antico Testamento
la soggezione della donna si attenua. Nel Nuovo Testamento, pur senza scomparire,
è compensata da un fatto inaudito, che nessun ministro delle Pari
Opportunità giungerebbe a concepire: fare di una donna la madre di
Dio. Non una persona della Trinità, come pensano a volte alcuni musulmani;
e non un oggetto di adorazione come dice Calvino («Cette putaine,
que les papistes adorent»). Maria non è oggetto di adorazione,
bensì di iperdulia o supervenerazione; ma la mediazione di Maria
è centrale nella salvezza cristiana. Quanto all’annunzio (kérigma)
e alla celebrazione (leiturgia) il dogma cattolico conserva alla donna una
limitazione, ma nel servizio della carità (diakonia) le assegna il
primo posto.
Vittorio Mathieu, accademico dei Lincei, ordinario di Filosofia morale,
presidente del comitato scientifico della Fondazione Ideazione.
(c)
Ideazione.com (2006)
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