Cento anni di KaDeWe, la vetrina dell'Occidente
di Pierluigi Mennitti
Ideazione di
marzo-aprile 2007

Quando ad aprile saranno completati gli ultimi lavori di maquillage, il Grande Magazzino d’Occidente si presenterà tutto imbellettato e sfavillante per il suo centesimo compleanno. La Tauentzienstrasse luccicherà di strass e paillettes e Berlino tornerà a vivere, per qualche giorno, l’atmosfera bohémien degli anni Venti o quella elegante degli anni Sessanta. Specchio della trasgressione o vetrina dell’Occidente, a seconda del decennio del secolo passato prescelto. Il centenario di cui si celebra l’augusto anniversario è il Kaufhaus des Westen, il più grande magazzino d’Europa, secondo la definizione forse un po’ troppo patriottica delle guide tedesche: sessantamila metri quadrati di superficie suddiviso per sette piani, dove si vende di tutto, dai vestiti alla valigeria, dai tabacchi ai giornali e alle riviste internazionali, dai libri alla cancelleria, dai televisori al plasma  agli stereo, ai computer, ai giocattoli, ai mobili e all’arredamento per la casa, alle lampade, ai compact disc, ai biglietti per cinema, teatri, concerti rock e musica classica, basket, hockey, calcio e ogni sorta di evento possibile e immaginabile che abbia sede a Berlino. Fin su, agli ultimi due piani, il sesto e il settimo, dove il Kaufhaus des Westen celebra il proprio trionfo e la propria diversità rispetto agli altri grandi magazzini del globo, offrendo ai visitatori il meglio del meglio di ristoranti e prodotti alimentari provenienti da tutto il globo. 

E' come Harrod’s a Londra, Lafayettes a Parigi, Mecy’s o Bloomingdale’s a New York ma con qualcosa di più: la storia che gli si è incrostata addosso, anno dopo anno, decennio dopo decennio, fino a farne il simbolo di una città che a sua volta è simbolo di un Continente e di un secolo: il Novecento, il secolo del male, come lo ha catalogato l’intellettuale francese Alain Besançon, o il secolo breve, secondo la definizione dello storico marxista Eric Hobsbawm: anche qui dipende dai punti di vista. Comunque un secolo glorioso e tragico che Berlino s’è caricato sulle spalle e che questo grande magazzino racchiude nei suoi infiniti spazi espositivi.

Come tutte le cose care ai berlinesi, anche il Kaufhaus des Westen ha un suo acronimo, con il quale è noto agli indigeni: KaDeWe. Queste iniziali si ergono sulla facciata monumentale dell’entrata principale e non c’è verso di chiamarlo altrimenti per farsi intendere da chi a Berlino è, o vuol far finta di essere, di casa. KaDeWe è diventato quindi un logo: l’insegna si illumina appena cala il tramonto sull’austera facciata principale, assieme alle vetrine che ne delimitano il perimetro lungo tutto l’enorme isolato che si affaccia sulla Wittenbergplatz. La storia, un’altra terribile storia, bussa anche in questa piazza, crocevia di molte linee della metropolitana, perché vi campeggia uno dei memoriali della Shoah, un tabellone semplice che ricorda le vittime dell’Olocausto attraverso i nomi dei tanti campi di sterminio che macinavano la morte ai tempi del nazismo. Orrore e splendore, racchiusi nel fazzoletto di due strade che s’incrociano. Berlino è questa. E il KaDeWe può raccontarne la lunga storia.

Una storia intrecciata al Novecento berlinese
Perché attorno a quella piazza s’è addensata un’umanità assai differente nel corso dei cento anni di vita del KaDeWe, dal bel mondo dell’aristocrazia militare prussiana, che da Potsdam sciamava verso Berlino lungo i viali della Kurfürstendamm, alla trasgressiva popolazione artistica del decennio d’oro, quella della Weltstadt weimariana degli anni Venti, cosmopolita e multietnica, che aveva eletto Berlino a capitale del mondo e il KaDeWe a suo emporio d’elezione. Divenne poi il freddo spaccio d’élite della nomenklatura nazionalsocialista e ne pagò le conseguenze, sbriciolandosi sotto le bombe della seconda guerra mondiale in una collina di macerie, una fra le tante della Berlino della Stunde Null. Nacque a vita nuova dopo la guerra e subito tornò a circondarsi di strass e paillettes, celebrandosi come vetrina d’Occidente, baluardo consumistico e luccicante delle meraviglie del capitalismo in opposizione alla seriosità pauperistica della Berlino comunista. Il KaDeWe divenne, suo malgrado, il simbolo della guerra fredda. Era lì, in quel mondo artificiale di luci e beni di consumo, che i berlinesi occidentali, ancora scossi dalla costruzione del Muro e a malapena riscaldati dalle parole pronunciate dal presidente americano John Fitzgerald Kennedy – ich bin ein Berliner – ancoravano coraggio e orgoglio per sentirsi meno abbandonati: isola sì, ma felice in un mare di comunismo e totalitarismo.

Le prime pietre dell’edificio vennero poste nel 1905 sotto la guida dell’architetto Johann Emil Schaudt per conto del fondatore, il commerciante Adolf Jandorf. Due anni di lavori frenetici e la prima versione del Kaufhaus des Westen, cinque piani di beni di lusso per una superficie di ventiquattromila metri quadrati, venne aperta al pubblico che indovinava nelle tumultuose trasformazioni urbanistiche il nuovo destino di Berlino, metropoli cosmopolita in grado di competere finalmente con Londra e Parigi. Era l’intero quartiere dove sorgeva il KaDeWe a rappresentare la sfida metropolitana di una città che, fino ad allora, era stata poco più che un conglomerato di villaggi sperduti nell’umida e sabbiosa marca brandeburghese. Nel 1870 il Kaiser avviò il piano di espansione di tre quartieri preesistenti, Wilmersdorf, Tiergarten e Charlottenburg, riunendoli sotto il nome un po’ profetico di Neuer Westen. Al Kurfürstendamm, il tradizionale boulevard della Berlino bene chiamato confidenzialmente Ku’damm, si aggiungeva quindi la Tauentzienstrasse, con il suo fiore all’occhiello, il grande magazzino come ce n’erano nelle altre capitali d’Europa. E l’aristocrazia si muoveva dai tradizionali luoghi di ritrovo guglielmini, l’Unter den Linden, la Friedrichstrasse, il Café Kanzler che allora si trovava all’incrocio delle due strade, ai nuovi Viertel occidentali, liberati dai fumi delle fabbriche della rivoluzione industriale tedesca che il vento di ponente spingeva verso le mefitiche periferie orientali.

Dalla crisi del primo dopoguerra alla “scene” degli anni Venti
La prima guerra mondiale sprofondò i sogni imperiali nella povertà e nella miseria, e anche le luci del KaDeWe divennero più fioche. I reduci sciamavano per le piazze orientali, la Potsdamer, l’Alexanderplatz, alla ricerca di cortei socialisti dove sfogare la protesta e di mezzucci con i quali sbarcare il lunario. Pochi erano i ricchi, rintanati nelle grandi ville del Grunewald e di Wannsee. La maggioranza si accalcava sudicia e malfamata agli angoli dell’Alexanderplatz o nei cortili dei casermoni popolari, scenari prediletti dalla matita del caricaturista Heinrich Zille o dalla penna del romanziere Alfred Döblin. La situazione non si quietò mai e, a un certo punto, i tedeschi la smisero di cercare ordine e benessere nella Repubblica di Weimar. Berlino lasciò da parte la politica e gli affari e s’inventò altre strade per rivitalizzare i sogni metropolitani. La strada dell’arte, del cabaret, della musica, del teatro. Nacque la Scene, una sorta di movida che da allora divenne il segno distintivo della città segnandone mode e stagioni, dal cabaret alla Love Parade.

Si decise di divertirsi, una sorta di Deutsche Vita d’avanguardia, vissuta nei caffè letterari, nelle case dei filosofi, negli atelier dei pittori e negli studi di architettura. E poi tracimata negli ambienti popolari dell’operetta, nei Biergarden dove spopolavano le canzonette, nelle bettole di strada, nelle Kneipe, addirittura nelle case di piacere, luoghi del sesso libero e della pornografia più sfrenata. E poi il cinema, che esplose proprio in quegli anni, creando i primi miti di celluloide, con il contorno di registi, produttori e impresari. Fu l’epoca degli artisti, la stagione bohémienne impressa nei volti e nelle voci di Otto Dix, Carl Einstein, Alfred Döblin, Marlene Dietrich, Bertold Brecht, Fritzi Massary, Fritz Lang, Claire Waldorf, Karl Kraus, George Grosz, Max Liebermann, Otto Kemperer. Molti di loro non erano berlinesi di origine ma immigrati ed outsider che lì trovarono il loro spazio e la loro consacrazione. Fu anche l’ultimo trionfo di quello straordinario connubio tedesco-ebraico che il Führer si sarebbe incaricato di spazzare via per sempre. Berlino aspirava intellettuali da tutta Europa, se qualcuno voleva vivere lo spirito del tempo doveva assolutamente trovare un alloggio sulle rive della Sprea: arrivarono fra i tanti Billy Wilder, Christopher Isherwood, Richard Tauber, Gitta Alpar, Ralph Benatzk. Ungheresi e rumeni esaltavano la scena jazzistica. E dall’Italia giunsero Luigi Pirandello e Giuseppe Antonio Borghese (quest’ultimo fin dagli anni Dieci), Rosso di San Secondo e Filippo Tommasi Marinetti a raccontare con tumultuose iperboli la velocità meccanica di una modernità che sembrava inarrestabile.

Ci penserà il nazismo a metterci un freno. Ma nel frattempo i locali si riempivano, fumosi e alcolici, trasgressivi e libertini. Quello di cui si discuteva nei caffè letterari di Unter den Linden, della Budapesterstrasse, del Kurfürstendamm o della stessa Tauentzienstrasse sarebbe rimbalzato qualche giorno dopo negli ambienti di New York e di Parigi, di Londra e di Mosca. Anche il KaDeWe riprese il suo ruolo di specchio delle brame metropolitane. I vestiti dall’Inghilterra, i profumi dalla Francia, i tessuti dalle Fiandre, le scarpe dall’Italia. Le sere si allungavano in notti bianche e infinite e il carosello del lusso, anche a rate, riprese a girare negli androni del grande magazzino. Il KaDeWe inserì il suo nome tra altre istituzioni cittadine: il Café Jaenicke, ritrovo abituale dei giornalisti; la Weiss Czarda, punto d’incontro dei divi del cinema. Il Romanisches Café, buen retiro dei poeti e degli scapigliati; l’Admiralpalast e il teatro Metropol gareggiavano in arditezza con le Folies Bergère e il Casino de Paris, le mille sale da ballo attiravano le gesta dei tanti gigolò di professione. E i più ricchi (o quelli e quelle che si sceglievano i letti dei più ricchi) potevano addormentarsi con le prime luci dell’alba sotto gli stucchi e le lenzuola delle costosissime suite dell’Hotel Adlon, con vista sulla Brandeburger Tor: sarà un caso che anche questo storico albergo, distrutto durante la seconda guerra mondiale, cancellato dalla toponomastica cittadina nei quarant’anni di ddr e poi completamente ricostruito dopo la caduta del Muro, festeggi nel 2007 i suoi cento anni di vita. La stessa età del KaDeWe, anche se ha almeno quarant’anni di vuoto da recuperare. In un ambiente tendenzialmente e naturalmente progressista non potevano mancare (non mancano mai) i Saloonkommunisten, i comunisti da salotto, intellettuali vestiti all’inglese con la mente e il cuore fra i soviet di Mosca. Anche loro avevano eletto il Romanisches Café come quartier generale, a un tiro di schioppo dal KaDeWe dove acquistavano bianche camicie di seta e papillon per combattere con maggior coerenza il capitalismo.

La normalizzazione nazista e le bombe degli alleati
Nel 1927 il Kaufhaus passò sotto la proprietà del gruppo Hermann Tietz che tre anni dopo affidò agli architetti Schaudt e H. Ströming un ulteriore ampliamento per competere con gli altri grandi empori della città, il Wertheim e il Karstadt. Ma la festa durò poco. Dagli Stati Uniti arrivò la grande depressione del 1929 che in Germania accentuò povertà e miserie già presenti. Anche Tietz dovette cedere a una doppia pressione: quella finanziaria della Dresdner Bank verso la quale si trovava scoperto per un prestito di oltre 14 milioni di Reichsmark e quella politica dei ministri nazisti ormai al potere che premevano per il passaggio dell’intero settore in mani “ariane”. Alla fine di complesse trattative e ambigue manovre, l’imprenditore Georg Karg acquistò l’intero pacchetto del gruppo Tietz, nel frattempo rinominato Hertie dalle iniziali del suo ormai ex fondatore. Era il 1940. Ancora tre anni e la bomba di un aereo alleato ne avrebbe centrato il tetto, provocando l’incendio e la distruzione dell’intero fabbricato.

Anni dopo, quando la città era ormai immersa nel miracolo economico dei Cinquanta, il pittore Wilhelm Götz-Knothe sublimò la paura che quel benessere appena ritrovato potesse essere effimero in uno dei quadri più significativi di quel periodo: il Trümmergrundstück am KaDeWe, il deposito di macerie del KaDeWe. Sulla tela non spicca la facciata del magazzino ma il cumulo di macerie che vi si nascondeva dietro, a simboleggiare la precarietà e la fragilità di un benessere (il KaDeWe) fondato anche sulla rimossione del passato (le macerie). Il quadro è del 1958, ma già nel 1950, in una città dove lavoravano ancora febbrili le Trümmerfrauen, gli operai avevano ritirato su i primi due piani del magazzino. Che accompagnò il Wirtschaftswünder tedesco così come aveva accompagnato i sogni di lusso dei decenni precedenti. Berlino, però, era ancora una volta qualcosa di diverso dal resto della Germania.

Era la Frontstadt della guerra fredda, il punto nevralgico del confronto politico, militare e ideologico fra Est ed Ovest. E il Kaufhaus des Westen divenne qualcosa di più di un grande magazzino di beni commerciali: fu la vetrina dell’Occidente, lo specchio magico nel quale si riflettevano le meraviglie del capitalismo, il punto di luce da cui si irradiavano, fin nei vicoli più oscuri della notte comunista di Berlino Est, i successi del libero mercato.

Le guerre, calde o fredde che siano, si nutrono di miti che vanno anche al di là della realtà: poco contava, nel clima di forte scontro ideologico, che il libero mercato della Germania fosse sostenuto da una robusta presenza dello Stato nell’economia, secondo i dettami teorici del Wohlfahrtsstaat ideato da Ludwig Erhard, il padre dell’economia sociale di mercato. O che la stessa ricchezza di Berlino Ovest fosse a carico del resto del paese, le cui fabbriche rimesse in funzione grazie al Piano Marshall pompavano a pieno regime anche per pagare il lusso della metà occidentale dell’ex capitale, divenuta un’isola di libertà in un mare di totalitarismo.

La città divisa e la vetrina dell’occidente
Si riaprivano le fiere, di automobili, di nuove tecnologie, di lavatrici. Venne ospitata la prima edizione della “Settimana verde internazionale”, la fiera agraria che diventerà il principale appuntamento fieristico berlinese. Ripartiva il campionato di calcio, la cui prima edizione postbellica fu giocata nel 1950 fra gli spalti del vecchio Olympiastadion hitleriano. Si illuminava di nuovo la vita lungo la Kurfürstendamm, ormai divenuta la strada principale senza più la concorrenza dell’Unter den Linden o della Friedrichstrasse, confinate nel settore sovietico.

Era la rinascita della Berlino americana, che trovava nella way of life dei vincitori la sua nuova identità. E, come detto, riaprì i battenti anche il KaDeWe, fra profumi e scarpe con i tacchi a spillo, cappelli improbabili e brutte copie dei vestiti di Chanel e Dior. Il lusso vero arriverà con il tempo. Ma al momento, ai berlinesi bastava. E il giorno della re-inaugurazione, la fila che partiva dalla Tauentzienstrasse, di fronte all’ingresso tirato a lucido, arrivava fino alla Ku’damm, come a riannodare il filo del glorioso passato. Era qui, a Ovest e non a Est, che rinasceva la Berlino cosmopolita. Di nuovo Weltstadt, non Frontstadt. Era l’illusione di una città-isola ma serviva a dimenticare le tensioni che già la dividevano e che un decennio dopo si materializzeranno in filo spinato, torrette di avvistamento, muri di cemento, cani da guardia, famiglie separate.

Prima che questo accadesse nel 1961, il KaDeWe era frequentatissimo anche dai berlinesi dell’Est che potevano ancora superare il confine. Più che comprare, osservavano le meraviglie del mondo occidentale, riservandosi i pochi spiccioli per acquistare le riviste internazionali nei chioschi della Ku’damm, Time, Esquire, Life, oltre ai tedesco-occidentali Heute e Der Spiegel. Il Muro venne eretto anche perché in decine di migliaia, abbagliati dalle luci della vetrina dell’Occidente e da un sistema economico e sociale più libero e dinamico, decisero di non tornare più indietro, svuotando la Germania comunista di uomini e risorse fisiche e intellettuali.

L’ultimo piano, il salone globale delle delikatessen
Il grande magazzino era di nuovo il simbolo di un simbolo, il mito consumistico di una città in competizione ideologica. I lavori di ampliamento furono frenetici e nel 1956, mentre Budapest bruciava le sue speranze di libertà contro i carrarmati sovietici, Berlino inaugurava altri piani del KaDeWe. Adesso erano sei, vestiario innanzitutto ma anche i primi elettrodomestici prodotti dalle riattivate aziende tedesche: saranno il simbolo del benessere ritrovato. E soprattutto la sezione che avrebbe, da qui in poi, caratterizzato il KaDeWe in tutto il mondo: quella alimentare. Lissù, in cima a tutto, con piccole finestre da cui si poteva guardare una brutta città moderna che cancellava le ultime tracce della guerra, il sesto piano, il salone delle Delikatessen. Negli anni futuri, ai prodotti confezionati si aggiungeranno quelli freschi provenienti da tutto il mondo. Il pesce e le carni, i formaggi e i salumi. Si trovavano tutte le mostarde possibili e immaginabili, dalle regioni tedesche ma anche dalla Francia, dal Belgio, dai Paesi Bassi. Il caviale russo e i merluzzi norvegesi, i prosciutti spagnoli, le ostriche della Manica e le aragoste dalla West Coast americana. Era anche l’unico posto fuori dalla Campania dove poteva trovarsi la mozzarella di bufala fresca, raccolta il giorno prima dai caseifici di Battipaglia e trasportata all’aeroporto di Tempelhof con l’aereo. E poi i vini, gli champagne, i distillati, finanche il caffè espresso, prima che l’invenzione del franchising lo facesse gustare in ogni angolo del globo. E poi le birrerie con le migliori bionde del paese, i punti di degustazione del vino, con le più esclusive selezioni del Continente e veri e propri ristoranti, di carne, di pesce, di ostriche e, via via che il sesto piano riscuoteva successo, con i cibi di tutto il mondo. Il mondo era a Berlino, anzi al KaDeWe, nonostante tutto.

Ma quando il Muro rese Berlino Ovest un’isola anche blindata, la città reagì prima con spavento, poi con rassegnazione, infine con rinnovato slancio. S’inventò una vita autosufficiente, come avviene nelle isole vere. Sospesa nel tempo. Anche sussidiata. Quello che nel resto della Germania non si poteva fare, qui diventava regola e stile di vita. Ancora una volta Berlino si gettò sulla Scene: arrivavano gli intellettuali, specialmente i filosofi, gli artisti, i galleristi, gli sfaccendati, i vagabondi e una massa indistinta di eterni universitari che avevano il beneficio di saltare l’anno di servizio militare. Berlino era il fronte, non c’era bisogno di servire ulteriormente la patria. I riflessi del miracolo economico arrivavano sotto forma di spesa publica, abbondante e generosa. E la ricchezza che cominciava a circolare trovava il KaDeWe pronto a soddisfarla. Gli ampliamenti dell’immobile andarono avanti e negli anni Settanta l’intera superficie raggiunse i 44mila metri quadrati: era sempre più il simbolo del lusso e del consumo. E per questo venne di nuovo preso di mira. Mentre il confronto ideologico col comunismo di Berlino Est sbiadiva nella stanchezza della guerra fredda e nelle diplomazie dell’Ostpolitik, si apriva quello con i contestatori interni degli anni Settanta. Nella settimana di Natale del 1980, quando i bollori rivoluzionari erano già tracimati nel ribellismo anarchico dei movimenti squatter, migliaia di giovani assaltarono il quartiere del Kurfürstendamm e saccheggiarono gli scaffali del KaDeWe, simbolo dello stile di vita borghese.

Di tutt’altro tipo fu il saccheggio che il grande magazzino subì i giorni successivi al 9 novembre 1989. Con il Muro caduto e la città di nuovo virtualmente riunificata, le code di berlinesi dell’Est si fecero infinite. Per giorni e giorni, uomini appena usciti dal congelatore della storia, vestiti con abiti improbabili e scarpe di plastica, spesero i primi soldi della loro ritrovata libertà alle casse del grande magazzino. Erano i figli e i nipoti di quegli “Ossis” che negli anni Cinquanta oltrepassavano il confine per illuminarsi nelle vetrine del KaDeWe e della Ku’damm. Avevano ritrovato nel vecchio simbolo della guerra fredda il punto di riferimento dal quale ripartire per riannodare le loro storie e quelle della Germania.

La sfida del centenario, resistere allo spostamento ad est
Nei successivi tre lustri, il KaDeWe ha combattuto assieme al vecchio centro di Berlino Ovest una nuova guerra: quella contro il Drang nach Osten, lo scivolamento delle attenzioni e degli interessi cittadini verso Mitte, il nuovo centro dell’Est attorno alla Porta di Brandeburgo, all’Unter den Linden, alla Friedrichstrasse. Nuovi centri commerciali sono sorti in quelle zone: la Potsdamerplatz è stata ricostruita dal genio futurista di tanti architetti e una nuova galleria, le Arkaden, replica il modello delle shopping mall americane. Sulla Friedrichstrasse, una sorta di Fifth Avenue newyorchese spiegata ai berlinesi, i francesi di Lafayette hanno innalzato un concorrente agguerrito, che tuttavia è più noto per le arditezze architettoniche che per la buona spesa. Il KaDeWe non è rimasto fermo: ha conquistato la ricca clientela moscovita assumendo personale russo per offrire un servizio impeccabile; ha costruito il settimo piano, un panoramico giardino d’inverno gastronomico che ha raddoppiato l’offerta alimentare attraverso un self service che concede forse un po’ troppo al gusto turistico. La globalizzazione, a Berlino, continua a passare anche per i piatti offerti agli ultimi due piani del grande magazzino sulla Tauentzienstrasse. Che oggi, dopo la fusione tra Hertie e Karstadt, è divenuto un gigante del settore. Sessantamila metri quadri di spazio espositivo. I lavori che fervono per la festa del centenario. E il cuore dei berlinesi che batte sempre per il suo Kaufhaus des Westen.

 

 

Pierluigi Mennitti, giornalista.

(c) Ideazione.com (2006)
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