Se il rifiuto della libertà di ricerca e
d’espressione negli anni del totalitarismo hitleriano è stato celebrato con
i ben noti falò letterari – è altrettanto vero che i roghi dei libri non
sono mancati neppure negli scorsi, democraticissimi, cinquant’anni.
L’intellighenzia “di sinistra” che ha retto le sorti della cultura italiana,
infatti, è stata impietosa verso ogni genere di voce diversa e nuova. Non si
contano i “ritardi” in fatto di traduzioni, ma è ancora più grave che la
memoria di autori e pensieri noti e apprezzati già all’inizio del Novecento,
sia stata chirurgicamente rimossa.
E’ il caso di Frédéric Bastiat, di cui quest’anno ricorre il duecentesimo
anniversario della nascita. Bastiat venne letto e apprezzato da Maffeo
Pantaleoni, Francesco Ferrara e Vilfredo Pareto, eppure oggi è difficile che
se ne parli in qualsiasi facoltà di economia del Belpaese. Non gli è toccata
sorte migliore, del resto, nella natìa Francia, dove solo negli ultimi
vent’anni, per iniziativa dei nouveaux économistes (Gérard Bramoulle,
Jean-Pierre Centi, Jacques Garello, Henri Lepage, Pascal Salin), se ne è
riscoperta l’importanza. La situazione è diversa in America, dove un libello
come La Loi è considerato, e a ragione, un piccolo classico. Merito
dell’economista Leonard Read che, quando nel 1946 decise di aprire la
Foundation for Economic Education, saccheggiò Bastiat a piene mani.
Read era consapevole dell’importanza di avvicinare al grande pubblico le
idee del maestro von Mises – ed aveva compreso che ci voleva una prosa
facile, essenziale, uno stile brillante per toccare non solo la mente ma
anche il cuore dei lettori. La loi, datato 1848 (e scritto sull’onda
della “rivoluzione di febbraio”), aveva già avuto una traduzione inglese, ad
opera di anonimo, nel 1853. Read ne fece approntare una nuova, e più
decorosa, versione a opera di Dean Russell, assistito in quell’occasione da
un grande economista e studioso francese, Bertrand de Jouvenel. Stampata la
prima volta nel 1950, vendette sessantamila copie. Nel ‘56 ne vennero
“tirate” altre diecimila, nel ‘61 altre dodicimila, è calcolato che a oggi
ne siano in circolazione più di mezzo milione. Tant’è che è difficile
imbattersi in un giovane liberale o libertario che non l’abbia ben impresso
in mente.
Proprio la facilità di lettura causò a Bastiat la scomunica di Joseph
Schumpeter, che ancor oggi grava su di lui. Schumpeter riconobbe che era
stato «il più grande giornalista economico di sempre», ma aggiunse che «non
è un cattivo teorico, semplicemente non è un teorico». Un giudizio
altrettanto lapidario fu quello di Karl Marx, da cui ci tenne a prendere le
distanze un grande liberale italiano, Bruno Leoni. Già nel 1949, dalla prima
pagina del Sole 24 Ore, Leoni metteva in guardia i lettori italiani
che «Bastiat non era affatto quello sciocco che il suo contemporaneo Carlo
Marx fece le viste di credere», purtroppo furono in pochi a prestare
attenzione a questo ammonimento.
Tuttavia, a Novecento concluso, si può dire che Bastiat si è preso la sua
bella rivincita tanto su Marx quanto su Schumpeter. L’utopia marxiana s’è
sgretolata nel 1989, e Schumpeter, da buon economista, sbagliò
clamorosamente le proprie previsioni (sosteneva infatti che il comunismo
fosse il triste, ma ineludibile, epilogo della società capitalistica).
L’importanza e il valore di Bastiat, viceversa, sono stati ampiamente
riconosciuti dai più profondi fra i liberali. Del giudizio di Leoni s’è già
detto. Ma anche Ludwig von Mises colse l’originalità di Bastiat, come pure
il Premio Nobel Friedrich von Hayek. Murray Rothbard ne era tanto entusiasta
da intitolare proprio a Bastiat il “Circolo” cui diede vita con gli amici di
gioventù.
Nato il 29 giugno 1801 a Bayonne, nella Francia sud-occidentale, Claude
Frédéric Bastiat perde i propri genitori all’età di dieci anni, e da allora
viene accudito dai nonni. Lascia la scuola a diciassette anni per lavorare
nell’azienda di famiglia, dove sperimenta sulla propria pelle i vizi di quel
protezionismo che poi combatterà nei suoi scritti. Quando Frédéric ha
venticinque anni, viene a mancare anche il nonno, ed egli si trasferisce a
Mugron, dove passerà gran parte della propria vita. A Mugron gestisce il
podere di famiglia, attività che nei successivi vent’anni gli consentirà di
dedicare gran parte del proprio tempo agli studi: assieme al vicino di casa,
Felix Coundry, discute dei temi più disparati, e fa incursione nei più
diversi campi delle scienze e della letteratura.
Il suo primo articolo è datato 1834: si tratta di una risposta a una
petizione dei mercanti di Bordeaux, i quali richiedono misure di tipo
protezionistico. «Voi vorreste un privilegio per pochi, io chiedo libertà
per tutti», li incalza Bastiat. La collaborazione con il Journal dés
Economistes – di cui poi diventerà un punto di riferimento – incomincia
invece nel 1844. In questi anni Bastiat non solo studia gli economisti del
passato, ma allaccia una profonda amicizia con Richard Cobden, la cui “Anti
Corn-Law League” gli serve a modello per l’analoga “Association du
Libre-Exchange” con cui combatterà il neocolbertismo. La sua produzione è
ricca e abbondante, malgrado i pochi anni che ha avuto per scrivere – muore
a Roma dove era venuto a cercare conforto dalla tisi, nel 1850.
Molte delle riflessioni di Bastiat anticipano idee e dibattiti che
giungeranno a piena maturazione soltanto nel Novecento: James Dorn ritrova
una certa assonanza fra il pensiero di Bastiat e quello di Hayek, che
riconduce sostanzialmente all’analoga attenzione dedicata al problema della
“giustizia”, alla comune enfasi posta su un diritto che sia “generale, equo
e certo”, alla distinzione fra giustizia e il pernicioso principio di una
“fraternità legale”. Tuttavia, sicuramente ciò che più unisce Bastiat a
Hayek è l’analisi del rapporto fra diritti di proprietà, competizione e
conoscenza. Bastiat riconobbe, prima di Hayek, che la competizione conduce
alla cooperazione sociale e a un’utilizzo più efficiente della conoscenza.
Bastiat scrisse che i mercati funzionano in modo che «i piani o gli
interessi di un individuo tendono ad armonizzarsi naturalmente
(spontaneamente) nel modo più armonioso possibile». Ci sono, in nuce, quelle
note che caratterizzeranno poi la riflessione hayekiana. Bastiat era già
consapevole che il mercato implica un processo, dinamico, di “scoperta”,
tanto da individuare un pericolo nell’interventismo governativo in quanto,
quando esso è la regola, «la gente smette di discutere, di contare, di
ragionare persino, perché la legge fa tutto per loro e l’intelligenza stessa
diventa inutile».
Non si può però liquidare Bastiat semplicemente come un precursore di Hayek,
significherebbe smarrire il senso più autentico della sua opera. La cifra
della distanza fra l’uno e l’altro sta nell’appiattirsi di Hayek su una
giustificazione “utilitaristica” della libertà individuale. Come nota
giustamente Dorn, non cogliendo l’importanza di dare una fondazione “etica”
al liberalismo, Hayek finisce per cadere nella stessa trappola statalista e
social-democratica da cui mise in guardia i lettori de La via della
schiavitù (La società libera risulta, oggi, un testo giustamente caro
ai socialisti – le affinità in questo senso del libro le intuiva già Helmut
Schmidt, che al loro primo incontro salutò Margaret Thatcher dicendo che
«siamo tutti hayekiani»). Bastiat si avvicina viceversa, come notato da
Gérard Bramoulle, alla grande tradizione della Scuola Austriaca che ha i
propri punti di riferimento in Ludwig von Mises e Murray Rothbard. Non sono
un caso le parole di profonda stima che Rothbard gli dedica nel secondo
volume della sua storia dell’economia, riconoscendogli un ruolo importante
anche per la sua confutazione della distinzione di Adam Smith fra beni
“produttivi” e “improduttivi”.
Tanto a Mises quanto a Rothbard, come nota Bramoulle, Bastiat è unito da una
logica adamantina, ma al papà dell’anarco-capitalismo lo avvicina
soprattutto il suo giusnaturalismo. Il punto debole del “rule of the law”
hayekiano, è che non ci fornisce un criterio solido per giudicare l’uso
della violenza: manca in Hayek una teoria della coercizione, il che
legittima una sua eventuale lettura in un senso contrario allo stesso
obiettivo dello “stato minimo”. Viceversa, Bastiat, che pure alla legge
dedica forse il suo pamphlet più brillante, ci offre un qualcosa di
superiore al “rule of the law”: un “rule of justice”, possiamo chiamarlo
così, fondato su una teoria dei diritti. La loi, non a caso, è
soltanto una forma di «organizzazione collettiva dei diritti individuali per
garantirne una difesa legale».
Bastiat ci ha lasciato una teoria “forte” del liberalismo che non scivola,
come invece fa Hayek, in un “utilitarismo delle regole” condannato ad avere
un esito statalista. Allo stesso modo, Bastiat non avrebbe mai adottato a
modello (come l’ultimo Hayek) quella frase di Hume secondo cui «le regole
della morale non sono le conclusioni della nostra ragione», che svela
l’intrinseca debolezza di un liberalismo relativista per vocazione.
Paradossalmente, lo stesso Hayek finì per ammettere la superiorità
dell’impostazione di Bastiat, rimarcando (nell’introduzione a un’edizione
dei Selected essays di quest’ultimo), che «Bastiat aveva ragione nel
guardare alla libertà di scelta come un principio morale che non deve mai
essere sacrificato alle condizioni d’opportunità». Ciò lascia spazio a
un’ovvia considerazione: a dispetto di qualsiasi preteso “utilitarismo” (o
di qualsiasi preteso “evoluzionismo”), un liberale deve pensare per forza
alla libertà come un fine morale.
Proprio per la sua impostazione giusnaturalista, come sottolineato da Carlo
Lottieri, gli argomenti di Bastiat contro il positivismo giuridico sono di
rara efficacia: perché, sotteso, vi è il recupero di tutta una serie di
dimensioni della persona umana, prima ancora che del soggetto giuridico, che
sfuggono invece ad altre scuole di pensiero. Egli, dimostrandosi in questo
perfetto economista (proto) “austriaco”-misesiano, coglie la ricchezza di
ogni singola esperienza umana, e ha per primo l’intuizione di intendere
l’economia come scienza “dell’azione umana” (scrive nelle Armonie
economiche: «il soggetto dell’economia è l’uomo... l’unico soggetto che
ha capacità di scegliere, giudicare e agire»). C’è un collegamento fra
queste due dimensioni del suo pensiero: la comprensione dell’agire
economico, questa sua intuizione proto-prasseologica, è tutt’uno con
l’impostazione giusnaturalista. Perché il riconoscimento della lex
aeterna che preesiste al diritto positivo, e della proprietà privata
come diritto pre-politico, implica una visione “cristiana” della persona
come un qualcosa di unico e irriducibile a un’equazione.
Nel suo necrologio di Bastiat, Francesco Ferrara scriveva che egli fu
«infaticabile persecutore degli uomini che pretendevano di aver fondato una
nuova scienza, quando inventavano una nuova frase per bestemmiare l’eterna
sapienza del creatore». Bastiat intuisce che la “socialità” (quando è
concepita come “carità di stato”, come una fraternità imposta per legge) è
il più grande pericolo per la fraternità spontanea, per l’autentica carità
cristiana, che si fonda su una scelta libera e volontaria. Egli intuì le
pericolosità del livellamento legale che già il protezionismo (“precursore
del comunismo”) implicava. La “carità di stato” va di pari passo con il
decadimento di quella carità privatistica che ha costituito non solo una
delle funzioni principali della Chiesa, ma anche una risorse importante per
i più bisognosi nel corso dei secoli. Viceversa, «lo stato è la grande
finzione attraverso la quale tutti quanti cercano di vivere alle spalle di
tutti quanti», come scrive Bastiat - che in questo non solo accarezza
suggestioni anarchiche (anarchico è il suo sodale e continuatore Gustave de
Molinari), ma anticipa anche le tematiche della scuola di Public Choice. La
Public Choice eredita infatti lo stesso sguardo disincantato verso lo
statalismo, che ne è il nucleo centrale, nonostante Buchanan e Tullock
recuprino la prospettiva statuale in virtù di tutta una serie di tentativi
di “ingegneria costituzionale”.
Ancor più vicine alla prospettiva di Bastiat sono le conclusioni del lavoro
più “antistatalista”, e in ultima analisi più interessante, emerso
nell’ambito della scuola di Public Choice. Il riferimento è alle
teorizzazioni di Anthony DeJasay, il quale ne The State sviluppa una
prospettiva che lo porta a bollare lo stesso “Stato minimo” come utopia
irrealizzabile. DeJasay muove dalla domanda «cosa faresti se tu fossi lo
stato» per scardinare uno per uno i dogmi della politologia contemporanea.
L’economista ungherese illustra come lo stato, proprio per il suo essere una
finzione giuridica, rappresenta una parte della popolazione che vive di
parassitismo su un’altra. Non solo: DeJasay sottolinea come lo stato sia
anche un’invenzione (basata di volta in volta su artifici teorici diversi,
il più noto è il contratto sociale), il cui essere “storicamente” non
implica ipso facto una sua legittimità. Bastiat coniuga queste teorie
“libertarie” con la sensibilità di un cattolico. Scrive da uomo timorato di
Dio, fiducioso nella legge naturale, cultore della solidarietà personale – e
proprio per questo terrorizzato dal Leviatano. L’etichetta di “cattolico
libertario”, che Robert Nisbet appiccicò a Hillaire Belloc, gli calza a
pennello. E una delle incognite, e delle opportunità, del momento storico
che stiamo vivendo, è proprio il come e il se il cattolicesimo riuscirà ad
animare fino in fondo un’impostazione politica vicina a quella di Bastiat.
Riscoprendo nelle proprie corde ed esprimendo in politica il gusto della
libertà individuale.
Bibliografia
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(1848).
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Anthony DeJasay, The State, LibertyFund, Indianapolis, 1998 (1985).
James A. Dorn, “Law and Liberty: a Comparison of Hayek and Bastiat”,
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Thomas J. DiLorenzo, “Frédéric Bastiat: Between the French and Marginalist
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Friedrich A. von Hayek, La società libera, Vallecchi, Firenze, 1967
(1961).
Carlo Lottieri, La libertà e la legge: il giusnaturalismo liberale di
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Murray N. Rothbard, Classical Economics, Edwar Elgar, Cheltenham UK,
1995.
Dean Russell, Frédéric Bastiat: Ideas and Influence, F.E.E.,
Irvington-on-Hudson NY, 1969.
(c)
Ideazione.com (2006)
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