Febbraio
1969. Cambridge, Massachusetts. Seduto su una panchina, lo scrittore guarda
l’acqua grigia del Charles che trasporta lunghi pezzi di ghiaccio
e ripensa alla «millenaria immagine di Eraclito» sull’eterno
fluire del tempo. Quasi per sortilegio, gli appare al fianco un ragazzo
che fischietta maldestramente un vecchio motivo. «Con orrore»,
il vecchio riconosce la sua voce. Davanti ritrova il se stesso di cinquant’anni
prima. Seduto su una panchina a Ginevra, a scrutare le acque del Rodano
che trasportano altri pezzi di ghiaccio. Naturalmente si tratta di un racconto
fantastico: “L’altro”, con cui Jorge Luis Borges dà
inizio nel 1975 al Libro di sabbia1. Un’opera tardiva nella quale
lo scrittore rievoca le atmosfere surreali delle sue opere giovanili. I
temi che gli avevano dato il successo, ma che aveva abbandonato dopo il
1949. «Mi sono reso conto che il tipo di storia dell’Aleph e
di Finzioni sta diventando qualcosa di abbastanza meccanico», spiegava.
Ma a settant’anni, un uomo sente il bisogno di fare i conti con la
propria esistenza. Così capita che i due differenti Borges giungano
addirittura a polemizzare con passione. «Mezzo secolo non passa invano.
Dietro alla nostra conversazione di persone di varia lettura e gusti diversi,
capii che non potevamo intenderci. Eravamo troppo differenti e troppo simili.
Non potevamo ingannarci, il che rende difficile il dialogo. Ciascuno dei
due era la parodia caricaturale dell’altro. La situazione era troppo
anormale per poter durare molto più a lungo. Consigliare o discutere
era inutile, con lui, perché il suo inevitabile destino era di diventare
quel che sono»2.
Ma prima di lasciarsi, più che sull’estetica, i due Borges
litigano per la politica. Il ventenne ha appena finito di scrivere i Ritmi
rossi, veementi versi dedicati alla Rivoluzione d’Ottobre3. «Il
suo libro avrebbe cantato la fratellanza di tutti gli uomini. Un poeta del
nostro tempo non può voltare le spalle alla propria epoca»4.
Il settantenne replica sarcastico: «Gli domandai se si sentiva veramente
fratello di tutti. Per esempio, di tutti gli impresari di pompe funebri,
di tutti i postini, di tutti i palombari, di tutti quelli che abitano sul
marciapiede con i numeri pari, di tutti gli afonici eccetera. Mi disse che
il suo libro si riferiva alla grande massa degli oppressi e dei paria. “La
tua massa di oppressi e di paria”, gli risposi, “non è
altro che un’astrazione. Soltanto gli individui esistono, se è
vero poi che esiste qualcuno. L’uomo di ieri non è l’uomo
di oggi, sentenziò un greco. Noi due su questa panchina di Ginevra
o di Cambridge, ne siamo forse la prova”»5. Di fronte al giovane
bolscevico, c’è ora uno spregiatore della democrazia. «La
Russia si sta impossessando del pianeta», è il riassunto al
suo alter ego del mezzo secolo di storia che li divide. «L’America,
intralciata dalla superstizione della democrazia, non si decide a essere
un impero»6. Il 27 luglio 1976, nella prefazione della raccolta di
poesie La moneta di ferro7, andrà anche oltre: «Mi conosco
affatto indegno di opinare in materia politica, ma forse mi sarà
consentito aggiungere che diffido della democrazia, questo curioso abuso
della statistica»8. E saluta il suo “recuperato paese”,
dove quattro mesi prima c’era stato il golpe del generale Jorge Rafael
Videla. La giunta militare che affonderà l’Argentina nel dramma
dei desaparecidos e nella disfatta delle Falkland-Malvinas fu accolta da
Borges come «un gobierno de caballeros». Per ringraziarlo, Videla
lo inviterà a un pranzo in cui terzo convitato è Augusto Pinochet.
E sarà proprio questo pasto a costare al massimo scrittore ispanico
del secolo quel Nobel di cui, nella stessa decade dei 70, vengono invece
investiti altri autori certo inferiori a lui, come il cileno Pablo Neruda
o il colombiano Gabriel García Márquez. E poco importa se
l’uno ha redatto ditirambiche odi a Giuseppe Stalin e l’altro
si è sistematicamente rifiutato di condannare le repressioni dell’amico
Fidel Castro.
Le disavventure politiche non impediscono però a Borges di diventare
un idolo per legioni di intellettuali di sinistra. Le sue straordinarie
intuizioni sull’ipertestualità o i suoi interrogativi esistenziali
dicono di più all’uomo del 2000 che non le tirate retoriche
del Canto General o le nostalgie bucoliche di Cent’anni di solitudine.
Ma per glissare lo “scandalo”, le celebrazioni per il centenario
della nascita, avvenuta a Buenos Aires il 24 agosto 1899, hanno teso quasi
a cancellare il Borges politico. E lo stesso accade ora per il ventennale
della morte, in agenda il 14 giugno.
Ed è un male, perché tra il ventenne bolscevico e il settantenne
anti-democratico c’è nell’opera dello scrittore una lunga
stagione liberale dai risvolti spesso eroici. Quando il regime di Perón,
dopo avergli messo in galera la sorella, lo caccia dal suo lavoro di bibliotecario,
per spedirlo a ispezionare fiere di pollame, il quarantasettenne Borges
rifiuterà l’insultante trasferimento, al costo di rimanere
senza lavoro9. E si dedicherà anima e corpo alla Società argentina
degli scrittori di opposizione, di cui diverrà presidente. Prima
ancora, in un’Argentina dove le simpatie per l’Asse sono fortissime,
in uno dei più bei racconti della raccolta Finzioni, “Il miracolo
segreto”10, parla di uno scrittore cecoslovacco che, mentre viene
fucilato dai tedeschi, ottiene da Dio un anno di stasi soggettiva del tempo,
per terminare nella sua mente l’opera che dovrà “giustificare”
la sua vita. Nell’altra raccolta, L’Aleph, c’è
il racconto “Deutsches Requiem”11, in cui la vertiginosa pulsione
di morte dell’ideologia nazista è esplorata fino a rivelarne
l’inevitabile sbocco autodistruttivo. «Si libra ora sul mondo
un’epoca implacabile», grida un immaginario criminale di guerra
prima dell’esecuzione. «Fummo noi a forgiarla, noi che ora siamo
le sue vittime. Che importa che l’Inghilterra sia il martello e noi
l’incudine? Quel che importa è che domini la violenza, non
la servile viltà cristiana. Se la vittoria e l’ingiustizia
e la felicità non sono per la Germania, siano per altri popoli. Che
il cielo esista, anche se il nostro luogo è l’inferno»12.
Venti anni di guerra civile
ininterrotta
Una pagina
angosciosa, soprattutto se confrontata all’altra famosa scritta il
23 agosto 1944 in occasione dell’entrata degli Alleati a Parigi, e
poi inclusa nella raccolta di saggi Altre Inquisizioni: «Per gli europei
e gli americani, c’è un solo ordine – un solo ordine
– possibile: quello che un tempo portò il nome di Roma e che
ora è la cultura dell’Occidente. Essere nazisti (giocare alla
barbarie energica, giocare ad essere un vichingo, un tartaro, un conquistatore
del secolo XVI, un gaucho, un pellerossa) è, alla lunga, un’impossibilità
mentale e morale»13.
Per chi conosce un minimo la storia culturale argentina, è inevitabile
il riferimento a Facundo o civiltà e barbarie14, il grande libro
scritto dal pensatore e caudillo liberale Domingo Faustino Sarmiento contro
Juan Manuel de Rosas15, il dittatore gaucho contro cui aveva combattuto
anche Giuseppe Garibaldi da Montevideo. Nato nel 1811, morto nel 1888, Sarmiento
fu presidente della Repubblica Argentina tra 1869 e 1874, e fu probabilmente
il primo intellettuale di quello che è oggi il Terzo Mondo a percepire
quello che è tuttora il grande problema dell’esito della decolonizzazione.
Nella grande lotta per l’indipendenza dell’America Latina tra
la fine del ’700 e l’inizio dell’800 erano emersi infatti
personaggi che come l’haitiano Toussaint Louverture, il venezuelano
Simon Bolívar, l’argentino José de San Martín,
i cileni fratelli Carrera, l’honduregno Francisco Morazán guardavano
in un modo o nell’altro alle tre grandi rivoluzioni liberali del XVII
e XVIII secolo, pur non avendo ben chiara la differenza tra il modello inglese,
quello statunitense e quello francese. Oltre a ciò, erano stati influenzati
anche dall’esperienza della resistenza europea a Napoleone. Ovviamente,
nella sua componente liberal-romantica, e non sanfedista-vandeana, anche
perché una Vandea anti-indipendentista c’era stata anche contro
di loro. Tuttavia c’erano stati anche leader più radicali,
potremmo dire pre-socialisti: dall’uruguayano José Artigas
al cileno Manuel Rodríguez. Altri leader erano indipendentisti ma
fautori di un autoritarismo da Ancien Régime: dal cileno Bernardo
O’Higgins al messicano Agustín Iturbide. Il paraguayano José
Gaspar Rodríguez de Francia è l’esempio di un dittatore
assolutista e radicale allo stesso tempo, uno Stalin ante litteram. E non
mancarono leader appartenenti alla Vandea anti-indipendentista, i cosiddetti
godos, che si ritrovarono al potere dopo l’indipendenza. Un esempio,
appunto, Rosas.
In sostanza, la lotta d’indipendenza fu soprattutto una lunga guerra
civile tra creoli indipendentisti e creoli monarchici, in cui indios, negri
e meticci prendevano parte a seconda del contesto. E i quasi vent’anni
di guerra civile ininterrotta crearono una mentalità, in cui i partiti
risolvevano le questioni a fucilate ed in cui i militari prendevano il sopravvento
sui politici, che è durata fino a tempi recenti. L’ultima delle
guerre civili tra liberali e conservatori che sconvolsero la Colombia del
XIX secolo e che fanno da sfondo ai romanzi di Gabriel García Márquez
iniziò nel 1948, e furono i guerriglieri liberali irriducibili che
non accettarono lo storico compromesso pacificatorio del 1958 a fondare
il movimento guerrigliero comunista delle Farc, ancora sulla breccia. In
Paraguay l’ultima guerra civile tra liberali e colorados si svolse
nel 1947 ed ebbe uno strascico guerrigliero nel 1961. Comunque il regime
colorado dittatoriale non si aprì che nel 1989. Il 1989 è
anche l’anno in cui cadono gli ultimi regimi militari, che negli anni
Settanta erano arrivati a occupare quasi tutto il Continente.
Perché questa tradizione di sangue e tirannie? In termini italiani
o europei, Sarmiento è una via di mezzo tra Mazzini, Manzoni, Casati,
Garibaldi, Cavour, Tocqueville e Montesquieu. È il Mazzini argentino,
per il suo lavorio in esilio di giornalista, polemista e organizzatore di
congiure contro la dittatura di Rosas. È il Manzoni argentino come
iniziatore della moderna letteratura nazionale, e anche un Manzoni latino-americano
in relazione a una sua famosa polemica con lo scrittore venezuelano Andrés
Bello. È un Casati latino-americano per aver organizzato la sua prima
scuola a 14 anni e per essere stato l’iniziatore non solo del sistema
scolastico argentino ma anche di quello cileno, quando era in esilio. E
morì poi ad Asunción nel 1888 mentre stava organizzando il
sistema scolastico paraguayano.
Sarmiento fu anche un po’ Garibaldi, per il suo ruolo nell’esercito
di fuoriusciti che il 3 febbraio 1852 sconfisse Rosas alla battaglia di
Caseros, togliendogli il potere. Ebbe dunque una carriera politica da padre
della patria cavourriano: governatore provinciale, deputato, ministro, ambasciatore
negli Stati Uniti, presidente della Repubblica. «Durante la sua presidenza
il deserto argentino si trasformò definitivamente in nazione»,
ha scritto lo storico Tullio Halperin Donghi. Quello che però qui
interessa è soprattutto il suo profilo da Tocqueville e Montesquieu
dell’America Latina. Ciò che per il pensiero liberale europeo
sono stati infatti Lo spirito delle leggi o La democrazia in America, per
il pensiero liberale latino-americano è stato Facundo o civilización
y barbarie, scritto da Sarmiento nel 1845 durante l’esilio cileno.
Un classico del pensiero che è però anche un classico della
letteratura latino-americana, un principio tipo Promessi Sposi.
Juan Facundo Quiroga, violento e rozzo caudillo della provincia della Rioja,
era stato prima alleato di Rosas, poi sua vittima. In una potente requisitoria
dai forti accenti romantici Sarmiento ne fa il prototipo stesso del dittatore
creolo. «Ombra terribile di Facundo, ti evocherò affinché
scuotendo l’insanguinata polvere che copre le tue ceneri ti possa
levare a spiegarci la vita segreta e le convulsioni interne che lacerano
i visceri di un nobile popolo»16. La dittatura è evocata con
toni orwelliani. «Dal 1835 al 1840, quasi tutta la città di
Buenos Aires è passata per il carcere. Vi erano a volte cento cittadini
innocenti che rimanevano prigionieri due, tre mesi, per cedere il loro posto
a un cambio di duecento, i quali vi rimanevano sei mesi. Perché?
Che cosa avevano fatto?… Che cosa avevano detto? Imbecilli! Non vedete
che sta disciplinando la città? Non ricordate che Rosas diceva a
Quiroga che non era possibile costruire la Repubblica perché non
c’era abitudine? Egli sta abituando la città a essere governata;
porterà a termine la sua opera e nel 1844 potrà presentare
al mondo un popolo che non ha che un solo pensiero, una sola opinione, un
solo entusiasmo senza limiti per la persona e la volontà di Rosas!
Ora sì che si può costruire una Repubblica!»17.
Ma perché questa ferocia? La famosa analisi di Sarmiento è
quella di sapore appunto tocquevilliano o montesquieuiano secondo cui la
“barbarie” sarebbe nata dal modo in cui gli immensi spazi semi-vuoti
delle Americhe avrebbero inghiottito la civiltà dei coloni europei,
riportandoli a una forma mentis medievale o addirittura preistorica. Comunque,
strettamente analoga alla cultura di quegli autoctoni amerindi che dal dato
geografico di quelle stesse plaghe era stata determinata. «Il male
che tormenta la Repubblica Argentina è l’estensione; il deserto
che la circonda da tutte le parti, le si insinua nelle viscere, la solitudine,
la desolazione senza un’abitazione umana, sono in genere i limiti
inquestionabili tra l’una e l’altra provincia»18. «Immensa
la pianura, immensi i boschi, immensi i fiumi, l’orizzonte sempre
incerto, sempre confondendosi con la terra tra nuvolaglia e vapori tenui
che non lasciano nella lontana prospettiva segnalare il punto in cui il
mondo termina e finisce il cielo»19. «Nella solitaria carovana
di carri che attraversa pesantemente le pampas, e che si ferma a riposare
un momento, i viaggiatori riuniti intorno allo scarso fuoco volgono istintivamente
la vista verso il sud al più leggero sussurro del vento che agita
le erbe secche, per affondare i loro sguardi nelle tenebre profonde della
notte, in cerca dei profili informi dell’orda di selvaggi che può
coglierli di sorpresa da un momento all’altro»20. La lotta continua
contro la solitudine, la natura ostile, gli indios, le belve, i banditi,
«questa insicurezza della vita che è abituale e permanente
nelle campagne, imprime, a mio parere, nel carattere argentino certa rassegnazione
stoica per la morte violenta, che ne fa uno dei contrattempi inseparabili
della vita, una maniera di morire come qualunque altra, e può forse
spiegare in parte, l’indifferenza con cui danno e ricevono la morte,
senza lasciare in coloro che sopravvivono impressioni profonde e durature»21.
Una relazione diretta tra
geografia e totalitarismo
«Questa
estensione delle pianure imprime, d’altra parte, alla vita interiore
un aspetto asiatico… c’è qualcosa nelle solitudini argentine
che riporta alla memoria le solitudini asiatiche… qualche parentela
tra la truppa di carri solitari che attraversa le nostre solitudini per
arrivare dopo una marcia di un mese a Buenos Aires, e la carovana di cammelli
che si dirige verso Bagdad o Smirne»22. Per Sarmiento, è la
barbarie che riemerge dal fondo della storia a sfidare la civiltà,
le grandi città sulle coste tramiti con l’Europa, e punti di
entrata delle idee e della cultura occidentali. Unitari e federalisti in
Argentina, colorados e blancos in Uruguay, pipiolos e pelucones in Cile,
liberali e conservatori in altri paesi: sono tutte etichette, quelle delle
guerre civili che nell’Ottocento sconvolgono l’America Latina,
da Sarmiento giudicate solo momenti di un unico grande confronto da cui
dipende il futuro del Continente. Ovvero, il confronto tra il “Partito
Europeo” della civiltà e il “Partito Americano”
della barbarie, da contenere con le armi se necessario. Ma da sconfiggere
soprattutto con l’educazione e la scuola, come l’infaticabile
Sarmiento cercherà di fare fino al giorno della sua morte. Non è
difficile sottolinearne l’importanza di Sarmiento. Prima di tutto,
l’idea magari confusa di una relazione diretta tra geografia e totalitarismo,
ripresa da grandi pensatori dell’antichità e trasposta al contesto
americano, ha avuto nel Ventesimo secolo uno sviluppo importantissimo con
gli studi di Wittfogel sulle società idrauliche. Riprendendo una
teoria di Marx su un modello di produzione asiatico distinto da quelli antico,
feudale e capitalista in cui è evoluta la società occidentale,
Wittfogel dimostra come sia stata la necessità di centralizzare le
grandi opere di irrigazione a generare e giustificare quel modello di Stato
totalitario che inizia con l’Egitto faraonico e arriva fino al comunismo
moderno (anche se Wittfogel il carattere “asiatico” della Russia
era dovuto più a un’eredità dell’invasione mongola
e del modello bizantino che non a una natura veramente idraulica dell’economia
russa). Il modello di Sarmiento è distinto da quello di Wittfogel
e anche meno preciso dal punto di vista scientifico, ma potrebbe essere
visto come ad esso complementare23.
In secondo luogo, la contrapposizione tra partito europeo e partito americano
è forse un po’ troppo schematica, ma la incontreremo puntualmente
in tutte le realtà non occidentali che si ritroveranno a fare i conti
con l’influsso occidentalizzante: slavofili contro europofili in Russia,
modernisti contro integralisti nel mondo islamico, Congresso e fondamentalisti
indù in India, e così via. Se vogliamo, è da qui che
viene pure Huntington24.
In terzo luogo, se guardiamo bene, è nella dicotomia di Sarmiento
il primo grosso annuncio della moderna dialettica global-no global, e nella
sua ricetta un anticipo della campagna neocon per l’esportazione della
democrazia. Non è un caso che Sarmiento sia stato anatemizzato dai
terzomondisti di destra e di sinistra. «Negatore della propria patria»
è stato definito Sarmiento nel noto best-seller Le vene aperte dell’America
Latina, del terzomondista di sinistra uruguayano Eduardo Galeano25. Montoneros
si chiamavano negli anni Settanta i guerriglieri della sinistra peronista:
come i combattenti ottocenteschi di Rosas e Quiroga26. Lo stesso Menem,
nato nella Rioja come Quiroga, si fece crescere le basette come Facundo,
all’epoca in cui si proiettò sulla scena nazionale come restauratore
del peronismo ortodosso, anche se poi ha fatto tutt’altre cose.
«Sono ancora un selvaggio unitario»27, diceva Borges. Rivendicando
l’antico epiteto spregiativo dei seguaci di Rosas contro i propri
avversari liberali, in faccia al regime di Perón: “Nuovo Rosas”
non solo nell’immaginario racconto del Borges settantenne al ventenne,
ma anche per sua spontanea autodefinizione. Allo stesso tempo, però,
il suo istinto di artista lo portava a interessarsi delle ragioni dei suoi
avversari, in un sottile gioco di attrazione e repulsione. Sono innumerevoli
i racconti in cui si mette nei panni dei gauchos della Pampa e dei bulli
della periferia di Buenos Aires, cercando appunto di descrivere il loro
feroce codice d’onore, la loro visione del mondo, i loro drammi, fino
a scrivere testi per tanghi e milonghe. Da una parte, quegli avi di cui
Borges era tanto orgoglioso avevano partecipato anch’essi alla turbolenta
storia argentina. Il suo stesso nonno paterno, il colonnello Francisco Borges
Lafinur, era morto nel 1874, durante una guerra civile, ucciso da due pallottole
Remington: «Quella fu la prima volta che i fucili Remington vennero
usati in Argentina, e la mia fantasia è spesso stimolata dal fatto
che la ditta che mi sbarba tutte le mattine porta lo stesso nome di quella
che uccise mio nonno»28. Dall’altra, María Kodama parla
di «una persona che riesce a vedere le due facce che ha una moneta
allo stesso tempo. Una persona che ha una logica e un’intelligenza
chiara, e che dunque né si appassiona, né fanatizza. La ragione
per lui doveva sempre essere il contrario del fanatismo. Per questo lui
detestava tutto ciò che era fanatismo. Più di tutto detestava
il totalitarismo, che è una forma di fanatismo particolarmente odiosa.
In realtà però io credo che più dei gauchos in carne
e ossa lo attirassero coloro che lui ricreò come personaggi mitici
in questa mitica città che fu sua e che è Buenos Aires. Se
si esaminano bene i racconti dove compaiono questi personaggi marginali,
ci si rende conto di come tutto ciò che fanno non è mai vile
o orribile. Per Borges, si tratta di gente che ha un proprio codice, proprie
norme, proprie regole da rispettare e da compiere. Borges pensava che questa
gente poteva essere affascinante per tutta una serie di ragioni e quindi
li prendeva come soggetto dei suoi racconti. Ma il fatto che fossero affascinanti
non voleva dire che potessero diventare un esempio. Pena, se no, il ritrovarsi
in un vicolo cieco»29. L’interesse di Borges per i temi alti
della più raffinata speculazione teologica e filosofica si fonde
in modo mirabile all’altro interesse sullo studio dell’etica
dei “barbari” nel racconto “L’altra morte”,
in cui il gaucho Pedro Damián ottiene sul letto di morte di poter
cambiare il passato per riscattare un atto di vigliaccheria della propria
giovinezza, inverando così la tesi del dottore della Chiesa Pier
Damiani, secondo cui «Dio può far sì che non sia stato
ciò ch’è stato»30.
L’involuzione dell’elite liberale argentina
In altri
racconti parla invece di antiche famiglie di oriundi scandinavi o anglosassoni
(“civiltà” weberiane per antonomasia) regrediti a una
barbarie analfabeta e omicida in generazioni di solitudine nella pampa.
E in questo filone, un altro esempio di contaminazione tra tema teologico
e tema “politico” è nel “Vangelo secondo San Marco”,
della raccolta del 1970 Il manoscritto di Brodie31, con la storia di uno
studente di medicina, isolato dall’inondazione in un’hacienda
sperduta nella Pampa, che per passare il tempo si mette a insegnare il Vangelo
di San Marco a tre gauchos analfabeti, discendenti da immigrati inglesi
che la solitudine dei grandi spazi ha appunto regredito a una “barbarie”
sarmientiana. E i tre selvaggi finiscono per essere talmente presi dal racconto
da scambiare il narratore stesso per il Cristo, e da crocifiggerlo per ottenerne
la benedizione. Ma un racconto chiave è soprattutto “Storia
del guerriero e della prigioniera”, nella raccolta L’Aleph32.
Inquietante vicenda parallela di un longobardo che nei giorni della vittoria
della barbarie si mette volontariamente dalla parte della civiltà
romana morente, e di una donna inglese che secoli dopo, nei giorni della
vittoria della civiltà, sceglie invece la barbarie degli indios.
E d’altra parte Borges, se scrive prefazioni al libro di Sarmiento,
non manca di farne anche al Martin Fierro di José Hernández,
la storia in versi di un gaucho nemico della legge che nell’immaginario
argentino è un po’ l’anti-Facundo33. Naturalmente, non
nasconde come la pensa. «Il Martin Fierro è un libro molto
bene scritto e molto male letto. Hernández lo scrisse per mostrare
che il Ministero della Guerra – uso la nomenclatura dell’epoca
– faceva del gaucho un disertore e un traditore. Lugones esaltò
quello sventurato trasformandolo in un paladino, e lo propose come archetipo.
Adesso ne soffriamo le conseguenze»34. E del Facundo: «Se lo
avessimo canonizzato come il più esemplare fra i nostri libri, altra
sarebbe stata la nostra storia e migliore»35. E in realtà lo
studio del modo in cui passando dagli eredi di Sarmiento agli eredi dei
suoi nemici l’Argentina è precipitata in mezzo secolo dal sesto
all’ottantesimo posto mondiale, come reddito pro-capite, sarebbe tuttora
un esercizio salutare. Ma anche l’involuzione personale di Borges
è a sua volta un paradigma inquietante dell’involuzione di
tutta un’élite liberale che in Argentina non riesce a conquistare
le masse alla democrazia, e finisce per combattere l’autoritarismo
peronista con un autoritarismo peggiore. E anche delle pericolose implicazioni
del paradosso di Karl Popper sulla necessità di non tollerare gli
intolleranti. Ancora nel 1970 il prologo al Manoscritto di Brodie contiene
una dichiarazione di fede liberal-democratica: «Le mie opinioni in
materia politica sono abbastanza note: mi sono iscritto al partito conservatore,
il che è una forma di scetticismo, e nessuno mi ha mai chiamato comunista,
nazionalista, antisemita, partigiano di quel bandito o di quel tiranno.
Credo che un giorno meriteremo che non ci siano governi. Non ho mai nascosto
le mie opinioni, nemmeno negli anni difficili; ma neppure ho permesso mai
che esse interferissero nella mia attività letteraria, fuorché
una volta, spinto dall’esaltazione della Guerra dei Sei Giorni»36.
Appena quattro anni dopo è l’approvazione del golpe di Videla,
e sei anni dopo la sparata contro la democrazia, colpevole in Argentina
di portare sempre al governo i peronisti.
Ma Borges, va ricordato, non morì totalitario. Nel 1980 il giornale
La Prensa, storica voce del conservatorismo argentino, annuncia una clamorosa
rottura del maestro con il regime. E il 12 agosto dello stesso anno sul
Clarín, che è una testata storica della sinistra, compare
una veemente lettera aperta sui desaparecidos di cui lui è il primo
firmatario. «Confesso che ho sbagliato», risponderà nel
1984 a una domanda sul famoso pranzo con Pinochet. Poi piangerà,
a un incontro con le Madri di Plaza de Mayo. A un generale, secondo cui
l’uccisione di 5 colpevoli ogni 100 desaparecidos avrebbe giustificato
la morte di 95 innocenti, risponderà di farsi ammazzare anche lui,
se proprio vuole convincere del suo argomento. E desaparecido lui stesso
si farà idealmente nel 1985 in un racconto di I congiurati, la sua
ultima raccolta37.
Tuttavia, Borges non troverà una vera e propria soluzione al paradosso
in cui è caduto, e che è il paradosso di un popolo che usa
la democrazia per distruggerla. La sua ultima grande speranza sarà
nel governo di restaurazione democratica del radicale Raúl Alfonsin,
che dimostra nel 1983 come il peronismo può essere sconfitto con
l’arma del voto, e che anche in Argentina può esistere un’alternativa
alla drammatica alternativa tra militarismo e populismo. Ma poi, di fronte
al drammatico fallimento anche di questo esperimento, lascerà infine
la disperante Argentina, per andarsene a morire appunto nella Ginevra della
sua adolescenza38. D’altra parte, era una partenza già preparata
da tempo. Il riscoprire sempre più marcato delle origini inglesi
della sua nonna materna, l’interesse sempre più ossessivo per
la mitologia e la filologia germanica, la decisione di imparare l’anglo-sassone
antico e l’islandese, la definitiva scelta di farsi seppellire in
Svizzera e di far scrivere sulla sua lapide in norreno, lingua degli antichi
vichinghi, sono infine quasi un definito rifiuto di un paese che rifiuta
di essere “civilizzato”. È come dire: «Non posso
costringervi con la forza a essere liberi, ma voi non potete costringermi
a essere dei vostri. C’è in me troppo sangue nord-europeo e
anglo-sassone per potermi rassegnare a essere suddito di un Perón
o di un suo emulo».
In I congiurati il dramma di questo conflitto interiore si esprime anche
in “Juan López e John Ward”, elegia a due caduti della
Guerra delle Falkland-Malvinas, che è anche il penultimo brano della
raccolta. «Toccò loro in sorte un’epoca strana. Il pianeta
era stato diviso in diversi paesi, ognuno provvisto di lealtà, di
amate memorie, di un passato senza dubbio eroico, di diritti, di offese,
di una mitologia peculiare, di personalità in bronzo, di anniversari,
di demagoghi e di simboli. Questa divisione, cara ai cartografi, favoriva
le guerre. López era nato nella città presso al fiume immobile;
Ward, nei sobborghi della città dove aveva camminato Father Brown.
Aveva studiato lo spagnolo per leggere il Chisciotte. L’altro professava
l’amore di Conrad, che gli era stato rivelato in un’aula in
via Viamonte. Sarebbero stati amici, ma si incontrarono solo una volta faccia
a faccia, in certe isole troppo famose, ed ognuno di loro fu Caino, ed ognuno,
Abele. Li seppellirono insieme. La neve e la corruzione li conoscono. Il
fatto che narro accadde in un tempo che non possiamo comprendere»39.
Eppure, dopo questa pagina ce n’è un’altra, che dà
appunto il titolo a questo suo ultimo libro. «Nel centro d’Europa
stanno cospirando. Il fatto avvenne nel 1291. Si tratta di uomini di diverse
stirpi, che professano diverse religioni e che parlano diverse lingue. Hanno
preso la strana risoluzione di essere ragionevoli. Hanno deciso di dimenticare
le loro differenze e di sottolineare le proprie affinità. Furono
soldati della Confederazione e poi mercenari, perché erano poveri
ed erano abituati alla guerra e non ignoravano che tutte le imprese dell’uomo
sono egualmente vane. Furono Winkelried, che si configge nel petto le lance
nemiche per fare avanzare i propri compagni. Sono un chirurgo, un pastore
o un procuratore, ma sono anche Parcelso e Amiel e Jung e Paul Klee. Nel
centro d’Europa, nelle terre alte d’Europa, cresce una torre
di ragione e di solida fede. I cantoni sono ora ventidue. Quello di Ginevra,
l’ultimo, è una delle mie patrie. Domani saranno tutto il pianeta.
Forse quel che dico non è vero; magari fossi profetico»40.
L’ultima profezia di Jorge Luis Borges41.
Note
1.
Il Libro di Sabbia occupa le pagine 561-655 del secondo volume del Meridiano
della Mondadori; il racconto “L’altro” è alle pagine
563-571.
2. Op. cit., p.569.
3. Una traduzione in francese è stata pubblicata nel 1992: Jorge
Luis Borges, Rythmes rouges, La Délirante, s.l., 1992.
4. Meridiano cit., p. 567.
5. Ibidem.
6. Op. cit., p. 566.
7. Nel Meridiano della Mondadori La moneta di ferro è nel secondo
volume, alle pagine 942-1027.
8. Meridiano cit., p.945.
9. Una recente testimonianza di María Esther Vázquez, coautrice
con Borges di due opere sull’antica letteratura inglese e sulle letterature
germaniche medievali, corregge però in parte la versione tradizionale
di questo episodio, così come l’aveva raccontata lo stesso
Borges nella sua Autobiografia. Dice infatti la Vázquez che non fu
Perón a cacciare Borges dal suo posto di bibliotecario ma il Direttore
di Cultura della Municipalità di Buenos Aires, che lo avrebbe poi
mandato al Dipartimento di Apicultura. Borges avrebbe allora commentato
«è esattamente uguale che se mi avessero designato ispettore
di Polli, conigli e uova», da cui la “leggenda”. In proposito,
cfr. intervista di Alejandro Cavalli a María Esther Vázquez
in http://www.librusa.com/entrevista_maria_esther_vazquez.htm (del novembre
2004). La versione tradizionale è invece in Autobiografía,
cit., p.112 (corrispondente a Un ensayo autobiografíco, cit., p.
78). «Nel 1946 salì al potere un presidente del cui nome non
voglio ricordarmi. Poco dopo fui onorato con la notizia che ero stato “promosso”
al carico di ispettore di polli e conigli nei mercati. Mi presentai nella
Municipalità per domandare a che si doveva questa nomina. “Guardi
– dissi all’impiegato –, mi sembra un poco strano che
di tutta la gente che lavora nella biblioteca abbiano scelto proprio a me
per disimpegnare questo incarico”. “Bene – rispose il
dipendente – lei fu partigiano degli Alleati durante la guerra. Allora,
che pretende?”. Questa affermazione era irrefutabile, e il giorno
successivo presentai la mia rinuncia» (Traduzione dell’autore
di questo saggio dall’originale spagnolo).
10. Nel Meridiano della Mondadori Finzioni è nel primo volume, alle
pagine 616-770. “Il miracolo segreto” è alle pagine 739-746.
11. Nel Meridiano della Mondadori L’Aleph è nel primo volume,
alle pagine 771-903. “Deutsches Requiem” è alle pagine
830-837.
12. Op. cit., pp.836-837.
13. Nel Meridiano della Mondadori Altre Inquisizioni è nel primo
volume, alle pagine 905-1093. “Annotazione al 23 agosto 1944”
è alle pagine 1030-1032. Il passo citato e alle pagine 1031-1032..
14. La più recente edizione italiana è: Domingo Faustino Sarmiento,
Facundo, civiltà e barbarie, utet, Torino, 1955 (a cura di Mario
Puccini). Un’edizione in spagnolo on line è a www.e-libro.net/E-libro-viejo/gratis/facundo.pdf.
15. Curiosamente il colonnello Isidoro Suárez, bisnonno materno di
Borges, era cugino di secondo grado di Rosas, sebbene lo stesso Rosas lo
avesse costretto all’esilio in Uruguay. Nel racconto “L’altro”,
spiegando al se stesso giovane la futura storia argentina e la vicenda di
Perón, Borges ricorda sia la sua avversione per il personaggio, sia
il legame di sangue: «Buenos Aires, verso il millenovecentoquarantasei,
generò un altro Rosas, che somigliava molto al nostro parente. Nel
cinquantacinque, la provincia di Córdoba ci salvò, come prima
aveva fatto Entre Ríos» (Meridiano, cit., p.566).
16. Tutte le citazioni del Facundo sono state tradotte direttamente da un’edizione
in spagnolo in possesso dell’autore di questo saggio: Domingo Faustino
Sarmiento, Facundo, Ediciones Universales, Bogotá, s.d.. Il brano
riportato è a pagina 9.
17. Op. cit., pp. 99-100.
18. Op. cit., op. cit., p. 20.
19. Op. cit., op. cit., p. 21.
20. Ibidem.
21. Ibidem.
22. Op. cit., p. 25.
23. Karl August Wittfogel, Il dispotismo orientale, Sugarco, Milano, 1980.
Cfr. anche Walter Minella (a cura di), Il dibattito sul dispotismo orientale.
Cina, Russia e società arcaiche, Armando, Roma, 1991.
24. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine
mondiale, Garzanti, Milano, 1997.
25. Il testo originale in spagnolo dice «negación de la propria
patria» (Eduardo Galeano, Las venas abiertas de América Latina,
Siglo Ventiuno, Città del Messico, edizione corretta, aumentata e
revisionata dall’autore del 1980, p. 307). La traduzione italiana
di Gabriella Lapasini del 1976, basata sulla prima edizione del 1971, lo
rende in modo non del tutto letterale con «rifiuto della propria patria»
(p. 257). Va ricordato però che in questa versione perfino il famosissimo
titolo è arbitrariamente trasformato: Eduardo Galeano, Il saccheggio
dell’America Latina, Einaudi, Torino, 1976. Una nuova traduzione col
titolo che traduce letteralmente l’originale, di Irina Bajni, è
stata pubblicata nel 1997: Eduardo Galeano, Le vene aperte dell’America
Latina, Sperling & Kupfer, Milano, 1997.
26. Montoneros viene da montón, che significa semplicemente “mucchio”,
“ammucchiata”. La carga montonera era una tecnica di assalto
con cui quei guerriglieri a cavallo attaccavano “in mucchio”,
aiutandosi con due armi tradizionali: le bolas, arma da getto di origine
indigena composta da lunghe cordicelle terminanti con una palla in pietra;
e la tacuara (in guarani: “canna”), lancia rustica fabbricata
legando a una canna una punta, ricavata da una forbice per tosare le pecore
privata della vite centrale. La stessa etichetta Tacuara fu usata da un
gruppo ultranazionalista argentino antenato dei Montoneros, mentre l’insegna
della lancia è stata utilizzata come emblema in Argentina dagli stessi
Montoneros, in Uruguay dai Tupamaros e dal Partito Blanco.
27. Sono le ultime parole nelle note di Fervore di Buenos Aires, nel Meridiano
della Mondadori alle pagine 4-89 del primo volume.
28. Riportato anche da Domenico Porzio nell’Introduzione al primo
volume del Meridiano della mondadori, ivi pp. XXVI- XXVII.
29. Maurizio Stefanini, “Doppio registro”, cit.
30. “L’altra morte” è alle pagine 822-829 del primo
volume del Meridiano della Mondadori. Fa parte della raccolta L’Aleph
e precede proprio il già citato “Deutsches Requiem”.
31. Nel Meridiano della Mondadori Il Manoscritto di Brodie è nel
secondo volume, alle pagine 367-447. “Il Vangelo secondo Marco”
è alle pagine 432-438.
32. “Storia del guerriero e della prigioniera” è alle
pagine 804-808 del primo volume del Meridiano della Mondadori.
33. L’unica edizione in italiano è: José Hernandez,
Martin Fierro, Testo originale con traduzione, commenti e note a cura di
Giovanni Meo Zilio, Accademia, Milano, 1977. Curiosamente l’unica
edizione italiana oggi in vendita presenta una traduzione in sardo: José
Hernandez, Martin Fierro, Domus de Janas, Selargius, 2005. Anche del Martin
Fierro ci sono diverse edizioni on line dell’originale in spagnolo.
Ad esempio, webs.satlink.com/usuarios/c/cabas/mfierro/mfierro.htm; o comunidad.ciudad.com.ar/ciudadanos/candido/Fierro.htm;
o www.analitica.com/bitblioteca/jose_hernandez/martin_fierro.asp. I due
saggi di Borges stanno entrambi nella raccolta Prologhi, alle pagine 749-938
del secondo volume del Meridiano della Mondadori: “José Hernández:
Martin Fierro” alle pagine 839-852; “Domingo F. Sarmiento: Facundo”
alle pagine 889-895. Al Martin Fierro è inoltre ispirato il racconto
“Biografia di Tadeo Isidoro Cruz” della raccolta L’Aleph
(pagine 809-812 del primo volume del Meridiano della Mondadori).
34. Secondo Volume del Meridiano della Mondadori, p.852.. Lepoldo Lugones,
poeta e intellettuale influente vissuto tra 1874 e 1938 e morto suicida,
fu prima socialista, poi conservatore, da ultimo teorico di un nazionalismo
anti-liberale ispirato al fascismo. Suo figlio sarebbe poi stato un poliziotto
torturatore di estrema destra; sua nipote una terrorista di estrema sinistra
morta desaparecida.
35. Op. cit., p. 895.
36. Op. cit., pp. 370-371. Va ricordato che il Partito Conservatore, al
potere in Argentina tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo,
era stato non un partito cattolico come gran parte dei suoi omologhi latino-americani,
ma laico e modernizzatore, ancorché élitario. Alleato a radicali,
socialisti e comunisti nella coalizione elettorale sconfitta da Perón
alle elezioni del 1945, nel 1970 il Partito Conservatore era però
ormai in via di sparizione. Dunque, la scelta di Borges di prenderne la
tessera va considerata anch’essa una provocazione intellettuale. Sulla
dichiarazione di fiducia in un futuro anarchico, va ricordato che libertario
era stato il padre di Borges. Sulla Guerra dei Sei Giorni Borges scrisse
la poesia “A Israele”, pubblicata nella raccolta del 1969 Elogio
dell’ombra (alle pagine 252-365 del Meridiano della Mondadori, II
volume; “A Israele” è alle pagine 308-309). Sui partiti
politici in Argentina cfr. César Reinaldo García, Historia
de los Grupos y Partidos Políticos de la República Argentina,
Sainte Claire Editora, Buenos Aires, 1987; John T. Deiner, “Argentina”,
in Robert J. Alexander, a cura di, Political parties of the Americas, Greenwood,
Westport, 1982; Hélène Graillot, “Argentine”,
in aa.vv., Tableau des partis politiqus en Amérique du Sud, Armand
Colin, Parigi, 1969.
37. Jorge Luis Borges, I congiurati, Mondadori, Milano, 1986 (con testo
spagnolo a fronte). Il racconto sui desaparecidos è “Le foglie
del cipresso”, alle pagine 76-78 in spagnolo e 77-79 in italiano.
38. La famiglia di Borges recatasi in Europa per il tour allora di rigore
tra tutte le famiglie della buona società argentina si era trovata
intrappolata in Svizzera in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale,
e Jorge Luis aveva dunque fatto a Ginevra i suoi studi liceali.
39. I congiurati cit., , p. 108 in spagnolo e 109 in italiano.
40. Op. cit. p. 110 in spagnolo e 111 in italiano.
41. I temi del presente saggio sono stati già trattati nei seguenti
lavori: s.f. (ma di Maurizio Stefanini), “Sarmiento, l’eroe
argentino un po’ Garibaldi, un po’ Tocqueville”, in Il
Foglio, 7 ottobre 1998 (su Domingo Faustino Sarmiento); s.f. (ma di Maurizio
Stefanini), “Borges il mutante: rosso, liberal, amico pentito di Pinochet”,
in Il Foglio, 19 agosto 1999 (su Borges politico); Maurizio Stefanini, “Doppio
registro incontro con María Kodama Borges” in La Scrittura
rivista letteraria bimestrale, numero 10/11 1999 (intervista alla vedova
di Borges); Maurizio Stefanini, “Cinque percorsi di liberalismo terzomondista”
in Le lezioni romane della Scuola di Liberalismo 2003, Associazione degli
Amici della Fondazione Luigi Einaudi, Roma, 2003, pp. 108-148 (traccia della
Lezione di Liberalismo tenuta il 31 marzo 2003); Maurizio Stefanini, “Disgraziatamente
sono Borges. Filosofo suo malgrado, è padre di Star Trek, Terminator
e Internet”, in Il Foglio, 25 giugno 2005 (su Borges filosofo e il
relativo convegno del 15 giugno 2005 all’Istituto Italo-Latino Americano
di Roma). L’indispensabile testo di riferimento in italiano è
il Meridiano, a cura di Domenico Porzio, Jorge Luis Borges, Tutte le opere,
Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1984. I due volumi, tradotti dalle Obras
Completas pubblicate in Argentina tra 1974 e 1981, sono però, malgrado
il nome, incompleti: vi mancano infatti gran parte dei testi giovanili,
per ripudio dello stesso Borges; vi mancano le opere post-1984; vi mancano
le opere scritte in collaborazione, che sono pubblicate nella raccolta a
parte Obras completas en colaboración, Emecé, Buenos Aires,
1979. In italiano è fondamentale Cesco Vian, Invito alla lettura
di Jorge Luis Borges, Mursia, Milano, 1980. Anch’esso, però,
pubblicato prima degli ultimi anni, che come vedremo nel presente saggio
sono cruciali per il ritorno di Borges al liberalismo. Non compresa neanche
nell’antologia sulle opere in collaborazione è l’Autobiographical
Essay dettato da Jorge Luis Borges in inglese al suo traduttore e collaboratore
statunitense Norman Thomas di Giovanni all’inizio del 1970, poi pubblicata
su The New Yorker del settembre 1970. In italiano è stata tradotta
da Floriana Bassi e pubblicata in appendice a Elogio dell’ombra, Einaudi,
Torino, 1971. La prima traduzione in spagnolo è: Jorge Luis Borges,
Autobiografía, El Ateneo, Buenos Aires, 1999, e una nota dell’editore
vi spiega che «il testo completo si pubblica per la prima volta in
spagnolo». Dello stesso anno è: Jorge Luis Borges, Un ensayo
autobiográfico, Galaxia Gutenberg/Círculo de Lectores/Emecé,
Barcellona, 1999, prima edizione spagnola (nel senso non di lingua ma di
paese), e arricchita non solo da un prologo di Aníbal González
e da un epilogo di María Kodama, ma anche da una ricchissima collezione
di foto apportata dalla stessa María Kodama. Sul contesto di Borges
nella letteratura latino-americana si può anche leggere Francesco
Varanini, Viaggio letterario in America Latina, Marsilio, Venezia, 1998.
Maurizio Stefanini, giornalista e saggista.
(c)
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