Il concetto di sovranità è probabilmente uno
dei più complessi in scienza politica: se ne è potuti dare una dozzina di
differenti definizioni, di cui alcune sono totalmente contraddittorie tra
loro. In regola generale, tuttavia, la “sovranità” rinvia a due accezioni
principali. Una definisce la sovranità come il potere pubblico supremo,
quello che ha il diritto – e, teoricamente, la capacità – di far prevalere
in ultima istanza la sua autorità. L’altra designa il detentore ultimo della
legittimità del potere, rinviando allora al fondamento di quella autorità.
Quando si parla di sovranità nazionale, definendola in particolar modo come
il mezzo dell’indipendenza, cioè della libertà di azione di una data
collettività, ci si situa nella prima accezione; quando si parla di
sovranità popolare, ci si situa nella seconda. Le nozioni di potere e di
legittimità si trovano così subito associate a quella di sovranità.
Sarebbe però un errore grave credere che l’unica sovranità possibile possa
esistere solo nel quadro di uno Stato di tipo classico, cioè di uno
Stato-nazione, come sostengono teorici della scuola “realista” come Alan
James e F.H. Hinsley, o dei teorici neomarxisti come Justin Rosenberg1. Un
tale errore giunge a confondere lo Stato e la nazione, quando invece le due
cose non vanno necessariamente di pari passo e, d’altra parte, arriva a far
credere che la sovranità sia apparsa solo nel momento in cui le si è data
una chiara formulazione nel quadro di una teoria dello Stato. L’affermazione
di John Hoffman – secondo cui «la sovranità rappresenta un problema
insolubile già da parecchio tempo prima che si volesse associarla ad ogni
costo allo Stato»2 – si avvicina molto più alla verità. Anche se la nozione
di sovranità non è stata pienamente concettualizzata prima del XVI secolo,
non ne consegue che non sia esistita prima in quanto realtà politica. Non ne
consegue nemmeno che non la si possa concettualizzare in altra maniera.
Aristotele – per fare solo il suo esempio – non dice una parola sulla
sovranità, ma il fatto che insista sulla necessità di un potere supremo
mostra che l’idea non gli era estranea, poiché ogni potere supremo – kuphian
aphen presso i greci, summum imperium presso i romani – è per definizione
sovrano. La sovranità non è infatti legata né a una particolare forma di
governo né a un tipo particolare di organizzazione politica. Al contrario, è
inerente a qualsiasi forma di esercizio del comando politico.
Il problema della sovranità è riapparso alla fine del Medioevo, da quando si è posta la questione di sapere non più solamente qual è il migliore metodo possibile di governo o quali debbano essere i fini dell’autorità detenuta dal potere, ma a cosa corrisponde il legame politico che unisce un popolo al suo governo, cioè come si debba definire, all’interno di una comunità politica, il rapporto tra governanti e governati.
La sovranità secondo Bodin
È a tale questione che ha cercato di rispondere il magistrato francese Jean
Bodin (1520-1596) nel suo celebre volume La Repubblica, apparso nel 1576.
Bodin non ha inventato la sovranità, ma è stato il primo a farne l’analisi
concettuale e a proporne una formulazione sistematica. Egli non si è
dedicato a questa impresa a partire dall’osservazione di uno stato di fatto,
ma nel contesto di una doppia rivendicazione: il desiderio di restaurazione
di un ordine messo a dura prova dalle guerre di religione, e la richiesta di
emancipazione da parte dei re francesi nei confronti di qualsiasi forma di
vassallaggio verso il Papa o l’imperatore. È per questa ragione che la
dottrina di Bodin, per sua stessa natura, costituirà l’ideologia dei
nascenti regni territoriali, che cercano di emanciparsi dalla tutela
dell’Impero mentre si radica, al livello dei principi, la trasformazione dei
rapporti di potere che risultano dalla dominazione dei feudatari da parte
del re.
Bodin comincia ricordando, a giusto titolo, che la sovranità (majestas) – di
cui fa la chiave di volta di tutto il suo sistema – è un attributo del
comando, che costituisce esso stesso uno dei presupposti del politico. Al
pari della maggior parte dei suoi contemporanei, egli afferma che un governo
è forte solo quando è legittimato, e sottolinea che la sua azione deve
sempre restare conforme ad un certo numero di valori determinati dalla
giustizia e dalla ragione. Ma allo stesso tempo si rende perfettamente conto
che considerazioni di questo genere non sono sufficienti a spiegare
pienamente la nozione di potere sovrano. Questa è la ragione per cui
dichiara che la fonte del potere proviene dalla legge. Il potere di fare e
disfare le leggi, dice, è ciò che appartiene esclusivamente al sovrano, ciò
che costituisce il suo contrassegno: il potere di legiferare e il potere di
governare sono identici. La conclusione che ne ricava Bodin è radicale: non
potendo essere assoggettato egli stesso alle decisioni che prende o ai
decreti che emana, il principe è necessariamente al di sopra della legge. È
la formula che si trovava già presso i giureconsulti romani: princeps
solutus est legibus. «Bisogna – scrive Bodin – che coloro che sono sovrani
non siano in alcun modo soggetti ai comandi altrui [...]. Questo perché la
legge stabilisce che il principe è sciolto dal potere delle leggi [...]. Le
leggi del principe non dipendono che dalla sua pura e semplice volontà»3. È
dunque sovrano il potere che un principe possiede di imporre leggi che non
vincolano lui stesso, potere per il cui esercizio egli non ha neppure
bisogno del consenso dei suoi sudditi, cosa che vuol dire che la sovranità è
totalmente indipendente dai sudditi ai quali egli impone la legge. Richelieu
dirà più tardi, nello stesso spirito, che «il principe è padrone delle
formalità della legge».
È per questa ragione di potenza legislativa, prosegue Bodin, che l’autorità
suprema non può che essere unica e assoluta, da cui la sua definizione della
sovranità come «potere assoluto e perpetuo di una repubblica»4, cioè come
potere illimitato nell’ordine degli affari umani. La sovranità è una potenza
assoluta in quanto che il sovrano non è sottomesso alle leggi, ma al
contrario le emana e le abroga a suo piacimento – e, al contrario, la
facoltà di produrre la legge esige che la sovranità sia assoluta – egli «non
può sedersi in commissione», dice Bodin, poiché il potere di legiferare non
si può spartire. Tutte le altre prerogative del sovrano dipendono da questa
affermazione iniziale. Se ne deduce che la caratteristica fondamentale della
sovranità è quella che conferisce al principe, che non segue altra regola
che la sua propria volontà, il potere di non essere vincolato o dipendente
da nessuno, non essendo il suo potere né delegato, né temporaneo, né
responsabile nei confronti di chicchessia. Poiché, se dovesse trovarsi a
dipendere da un altro che non sia lui, all’interno o all’esterno (dello
Stato), non avrebbe più il potere di fare la legge. Non sarebbe più sovrano.
La sovranità bodiniana è dunque assolutamente esclusiva: ponendo il re in
veste di legislatore unico, conferisce allo Stato una competenza originaria
e illimitata. Pertanto, uno Stato sovrano si definisce come uno Stato il cui
principe non dipende da nessun altro se non da se stesso. Questo implica che
la nazione si costituisca in Stato, e anche che si identifichi con questo
Stato. Per Bodin, un paese può certo esistere per la sua storia, la sua
cultura, la sua identità o i suoi costumi, ma politicamente non esiste fin
tanto che non si costituisce in Stato, e in Stato sovrano. La sovranità
diventa allora il potere assoluto che fonda la repubblica in entità politica
essa stessa unica e assoluta. Lo Stato deve essere uno e indivisibile, dal
momento che dipende interamente dal monopolio legislativo detenuto dal
sovrano. Le autonomie locali non possono essere ammesse che nella misura in
cui esse non restringono l’autonomia del principe. Nei fatti, poi, esse non
finiranno mai di essere sempre più limitate. Lo Stato diventa così una
monade, mentre il sovrano si ritrova “diviso dal popolo”, vale a dire
collocato in un isolamento che confina con il solipsismo.
Come è evidente, questa nuova teoria è di importanza capitale. Da una parte,
essa separa società civile e società politica, divisione di cui il pensiero
politico farà grande uso a partire dal XVIII secolo. Dall’altra parte, getta
le basi dello Stato-nazione moderno, che questa teoria caratterizza per la
natura indivisibile e assoluta del suo potere. Con Bodin, la teoria politica
entra pienamente nella modernità. La sovranità secondo Bodin è soprattutto
inseparabile dall’idea di una società politica che cancella le appartenenze
e le fedeltà particolari, e si insedia sulle rovine delle comunità concrete.
Implicitamente, il legame sociale è già ridotto da Bodin ad un contratto
governativo che chiama in causa esclusivamente degli individui, che, cioè,
elude ogni mediazione tra i membri e il potere. Questa soluzione di
continuità tra le comunità prepolitiche e l’unità politica propriamente
detta sarà realizzata dalla monarchia assoluta, poi dallo Stato-nazione, che
si definisce prima di ogni altra cosa per il suo carattere di omogeneità,
sia naturale (omogeneità culturale o etnica) che acquisita (tramite la
relegazione delle differenze collettive nella sfera privata). Inoltre, dato
il suo egualitarismo implicito, dovuto al fatto che il modello poggia su un
legame diretto e incondizionato tra governanti e governati, la concezione
bodiniana preannuncia già la ridefinizione del popolo, che si ritiene ora
composto unicamente da atomi individuali, tutti quanti posti ad uguale
distanza dal potere sovrano.
Non è difficile scorgere il fondamento religioso di questa dottrina: il modo
in cui Bodin concepisce il potere politico non è che una trasposizione in
chiave laica del modo assolutista in cui Dio esercita il suo potere, e in
cui il Papa regna sulla cristianità, e questo nonostante Bodin rigetti la
concezione medievale che faceva del potere una semplice delegazione
dell’autorità di Dio. Per Bodin, il principe non si accontenta infatti di
detenere un potere “di diritto divino”. Dandosi lui stesso il potere di fare
e disfare le leggi a suo piacimento, egli agisce alla stessa maniera di Dio.
Egli forma in lui solo un tutto separato, che domina il corpo sociale così
come Dio domina il cosmo. In modo simile viene affrontato il tema della
rettitudine assoluta del sovrano, che non è che una trasposizione nella
sfera politica del Dio cartesiano che può tutto ciò che vuole, ma non
saprebbe volere il male. Quindi, dalla sovranità si passa alla pura e
semplice infallibilità. Bodin, in altri termini, desacralizza la sovranità
togliendola a Dio, ma la risacralizza immediatamente in una forma profana:
egli parte dalla sovranità monopolistica e assoluta di Dio per arrivare alla
sovranità monopolistica e assoluta dello Stato. Tutta la nascente modernità
poggia su questa ambiguità: da un lato, il potere politico comincia a
secolarizzarsi; dall’altro il sovrano, ormai identificato con lo Stato,
diviene una persona dotata di un potere politico quasi divino, conferma
esemplare della tesi di Carl Schmitt secondo cui «tutti i concetti pregnanti
della teoria moderna dello Stato sono dei concetti teologici
secolarizzati»5. È importante qui notare che la teoria bodiniana della
sovranità non implica un tipo di regime particolare. Bodin preferisce la
monarchia, poiché il potere lì è per natura più concentrato, ma lui
sottolinea che l’esercizio della sovranità così concepita è ugualmente
compatibile con il potere di un’aristocrazia, così come con la democrazia,
benché in questo caso il rischio di una divisione del potere sia più grande.
È ugualmente significativo che l’emergere di una sovranità indivisibile, che
esclude qualsiasi limite e qualsiasi controllo, vada di pari passo con un
massiccio intervento di giuristi al servizio dello Stato. Erede diretto dei
legisti del XIII secolo, i cui lavori permisero alla dinastia capetingia di
imporsi sui feudatari, Bodin ricollega, come si è visto, il potere politico
alla capacità di fare la legge. Egli aggiunge che il sovrano, quand’anche
non sia vincolato alle leggi che lui emana, in compenso può esserlo tramite
un contratto che avrebbe sottoscritto, sia con un potere straniero nel caso
di un trattato, sia con l’insieme dei suoi sudditi mediante quella che ora
si chiama una Costituzione. «Questo – sottolinea Julien Freund – porta Bodin
a considerare in fin dei conti la sovranità non più come un fenomeno di
potenza e di forza, ma di diritto»6. È questo che permetterà ad alcuni
liberali di richiamarsi a Bodin.
L’assolutismo rivoluzionario
La concezione della sovranità caratteristica della monarchia assoluta è
stata interamente conservata dalla Rivoluzione francese, che si è limitata a
riferirla alla nazione. Da ciò la difficoltà contro cui la repubblica non ha
mai cessato di cozzare per conciliare i due primi articoli della
Dichiarazione dei diritti, che affermano il primato dei diritti universali
dell’individuo, con il terzo, che fa della nazione la sola autorità che
abbia competenza della sua competenza: «Il principio di ogni sovranità
risiede essenzialmente nella nazione; nessun corpo, nessun individuo può
esercitare alcuna autorità che non ne derivi espressamente».
È uno dei meriti del libro pubblicato di recente da Ladan Boroumand7 quello
di avere stabilito, attraverso un esame minuzioso dei testi, non solo la
continuità dell’idea della sovranità assoluta dall’Antico Regime alla
Rivoluzione, ma anche che l’affermazione rivoluzionaria del primato della
sovranità nazionale non risale al 1792 o al 1793, vale a dire alla salita al
potere del partito giacobino, ma precisamente agli esordi stessi del
movimento.
Il momento chiave a questo riguardo va fatto risalire alla decisione unilaterale del Terzo Stato di avviare, nel maggio 1789, il processo di verifica dei mandati dei deputati, decisione che dà il via al processo di trasformazione degli Stati generali in Assemblea nazionale e fa accedere i deputati alla sovranità politica.
Il dibattito che scaturisce allora mira a sapere se il Terzo Stato deve
costituirsi in Assemblea del popolo o in Assemblea della nazione. La mozione
di Siéyès, che invita i comuni a proclamarsi “Assemblea nazionale”, si
oppone a quella di Mirabeau, che propone il nome di “Assemblea dei
rappresentanti del popolo”. Il contrasto tra le due mozioni palesa un
rivelatore imbarazzo sulla definizione della nazione. Alla fine, è la
proposta di Siéyès a prevalere, mentre quella di Mirabeau sarà respinta in
quanto, si dice, attenta al diritto della nazione. Ora, secondo Siéyès, la
nazione è «un corpo di associati che vivono sotto una legge comune», corpo
rigorosamente omogeneo, il cui fondamento è privato di ogni determinazione
prepolitica. È a questo corpo, e solo ad esso, che la sovranità deve essere
rapportata: «La nazione esiste prima di ogni cosa, è l’origine di tutto. La
sua volontà è sempre legale, è la legge stessa»8. Il 17 giungo 1789, Siéyès
fa dunque adottare la denominazione di “Assemblea nazionale” con la
motivazione, in particolar modo, che la rappresentanza della nazione non può
essere che “una e indivisibile”. Presumendo che la volontà generale non si
formi che in seno al corpo legislativo, ne risulta che la rappresentanza
nazionale a sua volta è la nazione. Da questo istante, la sovranità diviene
appannaggio della nazione, ed è “dall’alto” che viene trasferita
all’Assemblea: la nazione corrisponde ormai allo spazio di sovranità
collettiva che si incarna nell’Assemblea nazionale. Fondamentalmente, la
sovranità rivoluzionaria non proviene dunque all’origine dal corpo
elettorale, ma rappresenta un semplice trasferimento della sovranità regale:
la nazione è stata sancita sovrana, ha rappresentato un fatto compiuto ed
una legittimità acquisita anche prima che sia stato discusso lo statuto del
cittadino.
La Costituzione del 1791 si spinge ancora oltre. Essa precisa che «la
sovranità è indivisibile, inalienabile e imprescrittibile» (titolo III, art.
1). In realtà, nell’agosto 1791, durante il dibattito che precedette la
redazione finale di questo articolo, una prima versione sottoposta
all’Assemblea non attribuiva ancora alla sovranità che la sola qualità di
indivisibilità. L’inalienabilità venne aggiunta su richiesta di Robespierre.
Il 7 settembre 1791, Siéyès dichiara: «La Francia non deve affatto essere
una assemblea di piccole nazioni che si governerebbero separatamente in
democrazie; non è affatto una collezione di Stati; è un tutto unico,
composto di parti integranti». Per estensione, il 25 settembre 1792 la
repubblica francese è essa stessa proclamata “una e indivisibile”. I corpi
intermedi e le collettività di base si vedono così negare definitivamente
ogni propria legittimità. Un anno più tardi, la denuncia giacobina del
“pericolo federalista” non mancherà di riprendere questa argomentazione. È
in funzione dello stesso principio che i rivoluzionari si sforzeranno di far
scomparire i “patois”, e chiederanno la soppressione delle vecchie province
e la loro sostituzione con dei dipartimenti geometricamente uguali9.
La nozione di popolo riceve parallelamente una definizione totalmente
astratta, l’unica che sia suscettibile di accordarsi con l’idea di nazione
di cui si è affermata subito la priorità. È la condizione necessaria perché
il popolo possa a sua volta essere dichiarato “sovrano”. «Se come realtà
oggettiva – scrive Ladan Boroumand – il popolo non poteva essere ammesso
alla sfera della sovranità della nazione, entità metafisica per eccellenza,
la sua metamorfosi in un essere ideale lo autorizza a partecipare alla
logica della sovranità nazionale, senza mettere in pericolo l’esistenza
trascendente della nazione, incarnata dalla Rappresentanza»10. Ora,
quest’ultima viene concepita essa stessa come la manifestazione di un
principio di unità e “indivisibilità” del popolo, che esclude del tutto
l’idea di un popolo composto da comunità particolari e di entità distinte.
L’idea di nazione, posta come un essere unitario e trascendente la cui unità
e indivisibilità sono necessariamente indipendenti da qualsiasi principio ad
essa esterno, finisce allora per sovrapporsi alla nozione di popolo fino a
sostituirvisi, inaugurando una tradizione che il diritto pubblico francese,
da allora, non ha smesso di perpetuare. Infine, la concezione rivoluzionaria
della sovranità rende nazionalità e cittadinanza sinonimi: ormai non c’è più
del “nazionale” che non sia cittadino (salvo la privazione dei suoi diritti
civici) né del cittadino che non sia “nazionale”. Il popolo è talmente tanto
“indivisibile” e unitario che è divenuto pura astrazione. È per tale ragione
che la Francia, ancora oggi, non è uno Stato federale e non può riconoscere
l’esistenza di un popolo corso o bretone.
Così, nella Rivoluzione come nell’Antico Regime, si ritrova la stessa
concezione della sovranità come “potere assoluto ed eterno” di una
repubblica fonte di tutti i diritti e di tutti i doveri del cittadino. La
sovranità dei giacobini non soffre di restrizioni maggiori di quella di Jean
Bodin. I rivoluzionari denunciano il “federalismo” negli stessi termini che
utilizzava la monarchia assoluta, per esempio, quando rimproverava ai
protestanti di volere “dividere” (cantonner) la Francia ad immagine della
Svizzera. I rivoluzionari scagliano l’anatema e lottano contro i
particolarismi locali nello stesso modo in cui il potere regale si sforzava
con ogni mezzo di ridurre l’autonomia dei feudatari. Per legittimare la
giustizia rivoluzionaria, avanzano gli stessi argomenti di Richelieu quando
difendeva il potere discrezionale del principe. Con la Rivoluzione, la
sovranità nazionale si oppone all’assolutismo regale non rinnegando
l’assolutismo, ma trasferendo alla nazione le prerogative assolute del re.
«Certo – come scrive Mona Ozouf – gli uomini della Rivoluzione rompono con
il vecchio mondo, inventando una società di individui liberi ed uguali. In
realtà, avevano ereditato dall’assolutismo un’idea molto più antica e più
rigida: quella della sovranità della nazione, corpo mitico che trascende
l’ordine degli individui. E questa idea ritrova molto velocemente la sua
efficacia, in quanto la sovranità assoluta della nazione viene a colmare lo
spazio lasciato vacante [...]. Lo stesso Terrore, lungi dall’essere
l’espediente della disperazione escogitato da una Repubblica in pericolo, si
inscrive nella logica di questo “prestito” dell’Antico Regime»11. Il
Terrore, infatti, se viola in assoluta evidenza il diritto naturale degli
individui, non viola in alcun modo il diritto della nazione, che al
contrario intende garantire e presentare. «Le similitudini tra l’assolutismo
e il giacobinismo si chiariscono» – scrive ancora Ladaman Boroumand – «se i
riflessi e gli espedienti politici sono gli stessi a monte e a valle del
1789, è perché, infatti, sono informati da uno stesso principio: la
sovranità della nazione»12.
La sovranità e le comunità
La concezione bodiniana della sovranità in successione, ha ispirato la
monarchia assoluta, il giacobinismo rivoluzionario, il nazional-statalismo,
l’ideologia repubblicana, i fascismi e i regimi totalitari. Ciò spiega il
perché oggi la si possa ritrovare professata da famiglie politiche per altri
versi totalmente opposte: “nazionalisti” repubblicani e nazionalisti
xenofobi, rivoluzionari e controrivoluzionari, “sovranisti” di destra e di
sinistra, avendo in comune tutte queste famiglie il fatto di essere
particolarmente attaccate alla nozione di sovranità e, soprattutto, di
credere che non la si possa concepire se non nella forma stabilita da Jean
Bodin. Eppure è un’idea completamente diversa della sovranità quella che si
trova esposta, agli inizi del XVII secolo, dal Johannes Althusius nella sua
opera principale, la Politica methodice digesta (1603).
Avversario di Bodin, Althusius (1557-1638) si basa su Aristotele per
descrivere l’uomo come un essere sociale, incline per natura alla
solidarietà mutuale e alla reciprocità (la veicolazione dei beni, dei
servizi e dei diritti). La scienza politica a suo giudizio consiste nella
descrizione metodica delle condizioni della vita sociale, da cui il nome di
“simbiotico” che lui utilizza per caratterizzare il suo modo di procedere.
Rigettando l’idea di un individuo autosufficiente, Althusius afferma che la
società è sempre prima in rapporto ai suoi membri (o “simbionti”), e che si
costituisce mediante una serie di patti politici e sociali conclusi in
successione l’un l’altro, che procedono a partire dalla base, da una
moltitudine di associazioni (o “consociazioni”) autonome, naturali e
istituzionali, pubbliche e private: famiglie e nuclei familiari, gilde e
corporazioni, comunità civili e collegi secolari, città e province eccetera.
Queste “consociazioni” si incastrano le une nelle altre in un ordine che va
dal più semplice al più complesso. Gli individui vi contrattano ad ogni
livello, non in quanto atomi individuali, ma come membri di una comunità già
esistente, e questa non abbandona mai la totalità dei suoi diritti a
beneficio di una società più vasta. Althusius riprende qui la nozione di
rappresentanza in un senso totalmente diverso dal pensiero contrattualista:
il contratto sociale, a suo giudizio, non è un atto unico che nasce da
libere volontà individuali, ma una “alleanza” (foedus) che integra in un
processo continuo di comunicazione “simbiotica” degli individui definiti in
primo luogo dalle loro appartenenze.
La società globale, alla quale Althusius dà il nome di “comunità simbiotica
integrale”, si definisce in questa prospettiva come un’organizzazione
ascendente di comunità plurali,costituite a loro volta sulla base di
associazioni anteriori e di appartenenze multiple, e che dispongono di
potere che si sovrappongono gli uni agli altri. Il corpo politico è il
risultato di questo processo di inglobamento comunitario, in cui ciascun
livello trae la sua legittimità e la sua capacità di azione dal rispetto
dell’autonomia dei livelli inferiori13. L’azione pubblica mira ad articolare
a tutti i livelli la solidarietà mutuale e l’autonomia degli attori
collettivi, il cui consenso deve essere reso possibile ed organizzato in una
dialettica aperta del generale e del particolare, essendo l’idea
fondamentale quella che «ciò che dipende da tutti deve essere anche da tutti
approvato» («quod omnes tangit, ab omnibus approbetur»). Si può parlare in
questo caso di “sistema ascendente di federalizzazione consecutiva”14, o
ancora di “democrazia consociativa” (Arendt, Lijphart).
Secondo Althusius, la sovranità o “maestà” appartiene al popolo, e giammai
cessa di appartenergli. È imprescrittibile poiché risiede in modo
inalienabile nella comunità popolare e poiché «non esiste un potere assoluto
personale all’interno di una comunità». Il popolo può delegarla, ma non
privarsene. «Il diritto di maestà – scrive Althusius – non può essere
ceduto, abbandonato o alienato da colui che ne è il proprietario [...].
Questo diritto è stato sancito da tutti coloro i quali fanno parte del reame
e da ciascuno di essi. Sono loro che lo fanno nascere; senza di essi, questo
diritto non può essere né sancito né mantenuto». «Io ho ricollegato alla
politica i diritti di maestà. Ma io li ho attribuiti al regno, ovvero alla
repubblica o al popolo», precisa ancora Althusius, che aggiunge che non ha
«cura dei clamori di Bodin».
Lungi dal rescindere ogni legame col popolo, la sovranità dunque dal popolo
emana direttamente. Il principe non occupa il suo ufficio che per
derivazione dal diritto permanente del popolo ad autogovernarsi. Egli non
possiede altra autorità che quella di essere investito dal popolo, non sotto
forma di un trasferimento di potere che il popolo abbandonerebbe a suo
profitto, ma mediante la delega di un potere che il popolo non cessa in
alcun momento di possedere, intrinsecamente e sostanzialmente. In altri
termini, il principe esercita il suo potere sotto il controllo del popolo, e
non ne può fare uso che al servizio del bene comune, che rimane la sua
finalità principale. Il principe non comanda dunque alla società come se ne
fosse slegato o indipendente. Non è il proprietario della sovranità, ma il
suo depositario: lui non gode che dei diritti di questa sovranità. Si
ritroverà la stessa idea in Rousseau, ma con una differenza essenziale:
mentre Rousseau, che non ammette che una società fondamentalmente unitaria e
omogenea, fa derivare dalla sua teoria della volontà generale il rifiuto
assoluto di ogni “società parziale”15, il sistema di Althusius si fonda sul
rispetto di tutte le appartenenze e la rappresentanza di tutte le identità
particolari.
La sovranità, peraltro, non è assoluta, ma al contrario ripartita o
suddivisa. Ispirandosi a sua volta al modello imperiale, alle antiche
“libertà” comunali germaniche e ai meccanismi di funzionamento mutuali e
cooperativi delle antiche città anseatiche, Althusius prevede che a ciascun
gradino della società si debbano trovare due tipi di organi, quelli che
rappresentano le comunità inferiori, che sono fondati per trattenere al loro
livello quanto più potere possono esercitare concretamente, e quelli che
rappresentano i livelli superiori, le cui attribuzioni sono sempre limitate
dai primi. Ciascun livello nomina i suoi dirigenti, che sono anche i suoi
rappresentanti al livello superiore, sulla base di una delega di potere che
gli può essere revocata in ogni momento. Essendo le deleghe sempre
condizionali, il potere del livello superiore poggia sul consenso dei
livelli inferiori. Lo Stato è così superiore a ciascuno dei livelli che si
trovano al di sotto di esso, ma non all’insieme che formano stando riuniti.
Lo stesso principe, come si è visto, esercita il suo potere sovrano per
delega, sulla base di un patto reciproco in cui viene considerato come il
mandatario e il popolo (la “comunità simbiotica”) come il mandante. Il
potere del principe, allora, è certamente un potere supremo, poiché è quello
il cui ambito giurisdizionale è il più vasto, ma non è certo meno limitato
dall’autonomia delle “consociazioni”, che gli impediscono di attentare ai
poteri particolari di cui esse godono. Il principio della sovranità viene
conservato, ma subordinato al consenso degli associati.
In Althusius, la sovranità non è dunque in alcun modo sinonimo di
onnicompetenza, come in Bodin. Essa rappresenta solamente il livello di
potere che dispone delle più ampie capacità di decisione e di esecuzione. Il
sovrano non è colui che può fare qualsiasi cosa a suo piacimento, senza
dover rendere conto a chicchessia. È colui che dispone di un potere più
esteso che quello degli altri, ma lo può usare solo fintanto che questo
potere gli viene riconosciuto o concesso. A tutti i livelli esiste uno
“scambio di sovranità”, vale a dire una differenziazione di istanze, una
divisione di competenze che procedono dal gradino più basso verso il gradino
più elevato. Mentre la sovranità bodiniana è al tempo stesso una piramide ed
una circonferenza la cui intera superficie è ordinata verso il centro, la
sovranità in Althusius è di tipo “labirintico”: poggiando sul principio
essenziale secondo cui “il vassallo del mio vassallo non è mio vassallo”,
essa implica la pluralità, l’autonomia, l’intreccio di livelli di potere e
di autorità.
Comunità e sussidiarietà
Il modello bodiniano ha prevalso a partire dai trattati di Westfalia (1648),
ed è su questo modello che si è costruito lo Stato-nazione, la forma più
tipica della politia della modernità. Ma in realtà, come osserva Chantal
Delsoi, «della sovranità di Bodin non regge ormai che la facciata. Nella
situazione attuale, non ha più né esistenza concreta né legittimità
riconoscibile»16. L’idea di Stato-nazione, che ha regnato in Europa dalla
pace di Westfalia fino alla prima metà del XX secolo, arriva oggi al suo
termine, dopo che due guerre mondiali ne hanno già sperimentato i limiti.
L’erosione dall’alto come dal basso delle capacità dello Stato-nazione segna
la fine della modernità, ovvero, in termini politici, l’uscita dall’epoca
westfaliana. Finirla con ciò che si è potuto chiamare il “male di Bodin”17
implica, dunque, non il rinunciare alla sovranità, ma il riformularla in una
nuova ottica, ispirata alle proposte di Althusius. La sovranità del tipo
althusiano ha già ispirato in passato alcune costruzioni imperiali o
multinazionali. Se ne ritrova l’eco anche in teorici dell’austromarxismo
come Otto Bauer e Karl Renner, sostenitori di uno «Stato federativo delle
nazionalità»18, in cui la sovranità si trova suddivisa a differenti livelli
della vita politica. Ma è soprattutto il federalismo che appare oggi come il
più suscettibile di tradurre nei fatti l’idea di una sovranità strettamente
associata ai princìpi di autonomia e sussidiarietà, seguendo la consegna di
Jacques Maritain che, essendo pronunciato negli anni Trenta per l’Europa
federale, raccomandava di sostituire alla «statolatria che imperversa ai
giorni nostri» il riconoscimento da parte degli Stati di «un’autonomia
relativa più forte che quella che esiste oggi alle comunità più ristrette,
alle “piccole patrie” contenute al loro interno»19.
Vera chiave di volta del sistema di Althusius, il principio di sussidiarietà
esige che le decisioni vengano sempre prese al più basso livello possibile,
da parte di coloro che ne subiscono più direttamente le conseguenze. Tale
principio, allora, implica che le unità politiche più piccole detengano
delle competenze autonome sostanziali e che siano allo stesso tempo
rappresentate collettivamente ai livelli di potere più elevati. Non si
tratta in questo caso di decentralizzare. Nella decentralizzazione, il
potere locale non è mai titolare che di quella quota di autorità che il
potere centrale decide di concedergli: non rappresenta che una delega di
questo potere centrale, che resta il nocciolo sostanziale della vita
pubblica in una appercezione strettamente piramidale della società. Con la
sussidiarietà, il movimento è inverso: il livello locale delega ai gradini
superiori solo le responsabilità e i compiti di cui non può farsi
direttamente carico, fa risalire al livello superiore solo le competenze che
non può assumersi, mentre risolve con i propri mezzi tutti i problemi che
può effettivamente risolvere, assumendosi in prima persona le conseguenze
delle sue decisioni e delle sue scelte. La sussidiarietà rappresenta dunque
una divisione di competenze secondo il criterio della sufficienza o
dell’insufficienza: ogni livello di autorità conserva le competenze per le
quali è sufficiente. Ne consegue per esempio che ciascuna comunità,
piuttosto che vedersi imporre una offerta standardizzata di beni e di
servizi, deve poter decidere liberamente per proprio conto i beni e i
servizi che reputa le siano necessari.
La sussidiarietà è direttamente antagonista della concezione bodiniana della
sovranità che poggia non sul criterio della sufficienza, ma su quello della
capacità superiore. In questo schema, lo Stato centrale non fa che
richiedere per se stesso tutta l’autorità, poiché si presume che sia sempre
eccezionalmente capace per principio. La concezione bodiniana della
sovranità è peraltro compatibile tanto con un regime dittatoriale che con un
regime democratico. Ma nel secondo caso, la sola possibilità che offre ai
cittadini è quella della scelta dei propri rappresentanti. Il principio
federalista di sussidiarietà, al contrario, è incompatibile con ogni forma
di dittatura, e si spinge molto più avanti anche in democrazia, in quanto
riconosce agli individui e ai gruppi non solamente la capacità di scegliersi
i propri rappresentanti, ma la capacità di partecipare al loro livello alla
vita pubblica, decidendo attraverso loro stessi e per loro stessi. «La
società francese di oggi è democratica – nota a questo proposito Chantal
Delsol – ma non è sussidiaria, perché lascia troppo poco spazio
all’autonomia d’azione dei gruppi costituiti, preferendo fare affidamento
sullo Stato centrale per realizzare ciò che è stato deciso
democraticamente». Il principio di sussidiarietà implica l’autonomia e la
responsabilità, mentre la sovranità bodiniana, che poggia su un postulato di
sfiducia nei confronti dei gruppi organizzati, consacra l’eteronomia,
l’irresponsabilità e l’assistenzialismo generalizzato.
In una tale prospettiva, l’esistenza di comunità o di gruppi di interesse
particolari non ostacola la ricerca del bene comune. È, piuttosto, proprio
l’estensione delle procedure democratiche che impedisce alle fazioni di
imporsi a detrimento dell’interesse generale. La nazione si definisce allora
come una comunità di comunità, che non solamente può prendere posto in una
comunità più vasta, di tipo sovranazionale, ma in cui le comunità
particolari possono ugualmente scegliere parallelamente di avvicinarsi ad
altre comunità. Mentre il punto di vista giacobino fa della sovranità il
garante dell’unità nazionale, il principio di sussidiarietà fa della
preservazione della pluralità una garanzia della sovranità. Allora,
un’Europa concepita positivamente – cioè un’Europa federale – non sarà il
dissolvente delle sovranità ancora esistenti, ma lo strumento della loro
rinascita per mezzo di una sovranità europea pensata e messa in pratica in
maniera differente.
(traduzione dal francese di Angelo Mellone)
Note
1. A. James, Sovereign Statehodd, Allen & Unwin, London, 1986; F. H.
Hinsley, Sovereignty, II ed., Cambridge University Press, 1986; Justin
Rosenberg, The Empire of Civil Society, Verso, London, 1994.
2. Sovereignty, Open University Press, Buckimgham, 1998. Dello stesso
autore: Beyond the State, Polity Press, Cambridge, 1995. Cfr. anche Andrew
Vincent, Theories of the State, Basil Blackwell, Oxford, 1987, p. 32.
3. I sei libri della Repubblica.
4. Ibid., I, 8.
5. Théologie politique, Gallimard, 1988, pp. 46-47.
6. Siéyes, Che cos’è il terzo Stato?, p.180.
7. La guerre des principes. Les
assemblées révolutionnaires face aux droits de l’homme et à la souveraineté
de la nation, mai 1789-juillet 1794, Ecole des hautes études en sciences
sociales, 1999.
8. Siéyès, Cos’è il terzo stato? Op. cit., pp.165-166.
9. R. Debbasch, Le principe révolutionnaire d’unité et d’indivisibilité de
la Republique, Economica, 1988; L. Jaume, Le discours jacobin et la
democratie, Fayard, 1999.
10. Op. cit., pp.165-166.
11. Prefazione a L. Boroumand, op. cit., p.10.
12. Ibid., p.535.
13. Su Althusius, cfr. A. de Benoist, “Johannes Althusius, 1557-1638”, in
Krisis, marzo 1999, pp.2-34. Cfr. anche C. Delsol, L’Etat subsidiaire, PUF,
Paris, 1992; e “Souveraineté et subsdiarieté, ou l’Europa contre Bodin”, in
La Revue Tocqueville-The Tocqueville Review, 1998, 2.
14. T. O. Hueglin, “Le fédéralisme d’Althusius dans un monde
post-westphalien”, in L’Europe en formation, primavera 1999, p. 33. Dello
stesso autore: Community-Federalism-Subsidiarity, Wilfrid Laurier University
Press, Waterloo, 1999.
15. Il Contratto sociale, II, p. 3.
16. “Souveraineté et subsidiarité, ou l’Europe contre Bodin”, art. cit., p.
53.
17. H. Mendras, “Le ‘Mal de Bodin’. A la recherce d’une souveraineté
perdue”, in Le Débat, maggio-agosto 1999, p. 72.
18. Cfr. T. Bottomore e P. Goode (a cura di), Austro-Marxism, Clarendon
Press, Oxford, 1978; K. Renner, La nation, mythe et réalité, Presses
universitaires de Nancy, Nancy, 1998.
19. “Europe and the Federal Idea”, in The Commonwealth, 19 e 26 aprile 1940,
testo citato in: J. Maritain, L’Europe et l’idée fédérale, Mame, Parigi,
1993, pp. 15-47. L’incompatibilità del federalismo con l’idea bodiniana di
sovranità è stata regolarmente sottolineata, in particolare da H. Laski
(Studies in the Problem of Sovereignity, Yale University Press, New Haven,
1917; The State in Theory and Practice, George Allen & Unwin, Londra, 1935)
e da R. Dahl (Who Governs?, Yale University Press, New Haven, 1961)
Alain de Benoist, scrittore e saggista, direttore delle riviste Éléments
e Krisis..
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