Non
piace a tutti, come è giusto. Ma anche gli snob che hanno storto
il naso al successo mondiale delle Braci e compatiscono le proverbiali casalinghe
di Voghera che arrancano sotto il mezzo chilo cult della Donna giusta, devono
riconoscere che Sándor Márai (anzi, Márai Sándor,
per rispettare, oltre agli accenti, l’ordine protocollare della lingua
ungherese) è il caso letterario di questi anni. Non capitava in Italia
dalla scoperta di Guido Morselli all’ombra dello stesso editore, il
rabdomante Adelphi, che uno scrittore di tale livello uscisse dai cassetti
in perfette condizioni postume, con dieci o venti titoli da mandare sul
mercato a intervalli astutamente pianificati. E con gli autobiografici Confessioni
di un borghese e Terra! Terra!, Márai si è rivelato non soltanto
poeta delle intermittenze del cuore, ma sismografo della catastrofe novecentesca,
guadagnandosi un posto di prima fila nella psico-storiografia della Mitteleuropa,
accanto ad altri grandi ungheresi dell’esilio come Arthur Koestler
e François (Ferenc) Fejtö1.
Il caso Márai è pressoché unico per un altro motivo.
Per una beffa del destino, la sua esistenza appare perfettamente divisa
in due tempi di durata uguale ma di significato opposto. Il primo periodo
è quello del successo in patria, dei viaggi alla conquista del mondo,
di una vita affettiva, sociale, spirituale piena e intensamente vissuta.
Il secondo, a partire dalla seconda guerra mondiale, è caratterizzato
dalla solitudine crescente, dalla fuga, dalla povertà, infine dal
nulla. Al centro vi è sempre lui, come torre ferma che non crolla,
il grande letterato di stampo manniano che registra impassibile la fine
della civiltà borghese, pur consapevole che quella fine comporterà
la sua: «Tutto ciò mi lascia indifferente. L’importante
è non scendere a patti con un mondo che ho conosciuto ed estromesso
dalla mia vita»2. Un atteggiamento di sdegnosa fierezza, perfettamente
colto nella statua che gli è stata dedicata ora dalla sua città
natale, opera dallo scultore (slovacco) Márian Gladis.
Era nato nel fatidico 1900, l’11 aprile, in una famiglia di magistrati
e notabili di Kassa, in tedesco Kaschau, in slovacco Kosice, città
di tradizioni mitteleuropee dell’Alta Ungheria che dopo la grande
guerra venne annessa dalla neocostituita Cecoslovacchia. Era stata fino
ad allora una marca di relativa armonia all’interno della “grande”
Ungheria, compatta verso l’esterno ma divisa all’interno da
invalicabili fratture di classe3. Questo clima più aperto si ritrova
nelle due lapidi, in ungherese e in slovacco, di fronte alla sua casa natale,
in cui Márai viene definito (per tagliare la testa al toro...) «scrittore
magiaro». Un clima culturale e umano che spiega la cifra alla quale
sarebbe rimasto fedele tutta la vita, il suo definirsi “borghese”
con gesto di sfida, anche quando il termine sarebbe diventato apparso anacronistico
alla nuova intellighenzia europea emersa dalle trincee: «Senza timore
di esagerare, posso dire che per la borghesia di fine secolo dalle nostre
parti il libro rappresentava un genere di prima necessità al pari
del pane quotidiano»4. Borghese certo non risolto ma conflittuale,
borghese faute de mieux5. Ma per un centroeuropeo della sua generazione,
le classi medie rappresentavano l’ancora dell’umanesimo occidentale
tra l’arroganza feudale della nobiltà (in ungherese dzsentri,
dall’inglese gentry) e le tendenze rivoluzionarie del proletariato.
E l’ancora si spezza nel 1914.
Nel caos del primo dopoguerra, Márai conquistò la fama con
brevi romanzi lucidi e disincantati, lontani sia dalla narrativa sentimentale
popolarissima all’estero (come il Körmendi di Un’avventura
a Budapest, uno dei più grandi successi letterari dell’Italia
fascista) che dalle asprezze d’avanguardia. Fin da quegli inizi, il
suo mondo appare ostinatamente, quasi ferocemente interiorizzato, con ponti
levatoi ben alzati contro le intrusioni altrui: Libro dei ricordi s’intitola,
in modo adolescenziale ma rivelatore, l’opera prima di un diciottenne.
Il padre era divenuto rappresentante della minoranza ungherese al Parlamento
di Praga e, malgrado la famiglia fosse di origini sassoni (il nome originale
era Grosschmid, che lo scrittore cambiò legalmente in Márai
solo nel 1939)5 il patriottismo ungherese si respirava in casa, sia nell’ispirazione
risorgimentale del 1848-49 che nella fierezza per l’Ausgleich, il
compromesso istituzionale imposto all’Austria dominatrice nel 1867,
che comportò l’instaurazione della “duplice monarchia”.
L’impero divenne ufficialmente, da allora, di Austria-Ungheria e Francesco
Giuseppe I (come il nipote Carlo I, che gli succedette nel 1916) salito
al trono sin dal 1848, prese, a seguito dell’Ausgleich, i due titoli
distinti di imperatore d’Austria e di re d’Ungheria7.
Ciò condusse Márai, che nazionalista nel senso bigotto del
termine non fu mai, a prendere una decisione che doveva rivelarsi fatale:
l’impegno, prima ancora di conoscere l’esilio, a restare fedele
sempre e ovunque alla lingua ungherese8. E poiché l’uomo aveva
la prima virtù dei forti – il rispetto della parola data, a
se stesso o agli altri poco importa – che non è sempre la virtù
dei saggi, non cambiò più parere, condannandosi a quell’emarginazione
che non conobbero i Nabokov e i Koestler, passati all’inglese, i Cioran,
gli Ionesco, i Fejtö e i Kundera, divenuti scrittori francesi, il Canetti
bulgaro-tedesco, l’italo-polacco Gustaw Herling eccetera. Diversa
fu anche la scelta di uno dei suoi fratelli minori, che a Hollywood divenne
il noto regista Geza von Radványi.
Il
profeta del Secolo Breve
Il percorso
esistenziale di Márai ci è accessibile grazie alla biografia
riccamente illustrata, dedicatagli dallo studioso Ernö Zeltner, pubblicata
in Germania e che rimane a tutt’oggi l’unica accessibile fuori
dall’Ungheria9. Vi scopriamo un personaggio che fu sempre “contro”,
anche se aveva vocazione più di testimone che d’uomo d’azione.
Non per nulla, I ribelli (1929-30) s’intitola il romanzo autobiografico
in cui spicca l’opposizione al «potere infinito dei padri»10.
La rivolta generazionale non gli impedì di condividere per tutta
la vita il risentimento del suo ambiente nei confronti di Benes, che era
sì il padre della Cecoslovacchia democratica uscita dalla dissoluzione
dell’Impero, ma anche lo statista che aveva ristretto i diritti delle
minoranze e delle altre nazionalità, specie la magiara11. Il risentimento
anti-occidentale e anti-cecoslovacco dei nazionalisti ungheresi sarà
alla base della politica revisionista degli anni Venti e Trenta, fino alla
partecipazione spesso dimenticata di Ungheria (e Polonia) alla spartizione
della Cecoslovacchia, dopo il patto di Monaco del 30 settembre 1938.
Nell’immediato dopoguerra, l’Ungheria si trovò in preda
a una gravissima crisi socio-politica. L’esperimento bolscevico della
Repubblica dei consigli di Béla Kun (133 giorni che misero il paese
a ferro e a fuoco) provocò una repressione altrettanto spietata,
seguita dall’avvento del regime reazionario del conte Bethlen e dell’ammiraglio
Horthy, che venne proclamato reggente d’Ungheria in attesa di una
decisione definitiva sulla restaurazione della monarchia: cosa che in realtà
Horthy e i suoi seguaci cercarono in tutti i modi di evitare. Márai
cominciò a peregrinare attraverso l’Europa, secondo l’itinerario
classico: molta Germania profonda (Lipsia, Francoforte, Weimar) poi Berlino,
Parigi e Londra. Poco o niente Vienna, a quanto sembra. Quando si pensa
a Márai come autore mitteleuropeo, va tenuto presente che il “mito
absburgico” e la centralità di Vienna sono quasi del tutto
assenti dalla sua opera. L’unica cospicua eccezione è costituita
da Le braci, ove la descrizione degli anni di formazione dei due protagonisti
nella capitale dell’impero ricorda Roth e Musil: ma è una scelta
affatto nostalgica, puramente funzionale al racconto. Márai si avvale
qui di Vienna come nella Recita si avvale di Bolzano eccetera12.
Cercò l’ispirazione anche in Italia. Vi giunse una prima volta
all’inizio degli anni Trenta, come racconta nel suo capolavoro, che
non poteva avere titolo più azzeccato di quello che gli diede: Confessioni
di un borghese. Márai ignorava che vi avrebbe poi dovuto compiere
due lunghi e involontari soggiorni, a Napoli (1949-52) e a Salerno (1968-80)13.
Il bottino d’immagini e impressioni dei suoi viaggi fu notevole sin
dall’inizio ed egli merita di essere collocato tra i più acuti
e meno impressionistici “viaggiatori in Italia”, secondo l’immagine
convenzionale. Il lettore odierno esita a pensare che le pagine sul passaggio
di Mussolini nella folla esultante a Firenze non siano state scritte allora,
tant’è la giustezza d’analisi che le ispirano. Invece
furono proprio scritte e pubblicate nel 1933-1934, mai riprese né
ritoccate dopo14.
All’estero, in quella fase, ossia da pellegrino e non ancora da esule,
Márai si trovava bene. Aveva intrecciato proficui rapporti, primo
fra tutti quello con Thomas Mann: rimane una bella fotografia dell’incontro
tra il “Mago” e il giovane collega: tra le pochissime che lo
ritraggano sorridente. I suoi libri cominciavano ad essere tradotti, il
suo nome circolava, i discreti mezzi di famiglia lo mettevano al riparo
dal bisogno. Cosa fu, allora, a farlo tornare sui suoi passi? Forse la malattia
e la morte dell’adorato padre e la responsabilità fortemente
sentita di primogenito e capofamiglia; forse la volontà, poi amaramente
frustrata, di diventare una delle guide spirituali del suo paese; forse
l’amore per Ilona Matzner (Lola), una giovane donna di grande personalità
ed avvenenza. Si erano incontrati ventenni a Berlino, vissero poi sei anni
a Parigi e non si lasciarono più. Il Márai già in possesso
del suo talento, ma nevrotico e dedito all’alcol, s’invaghì
pazzamente di Lola, ma soprattutto ritrovò in lei l’ancora
che si era spezzata, l’equilibrio di cui aveva bisogno non solo per
“fare” l’artista, ma per esserlo veramente. Avido e fortunato
nei contatti amorosi, non era uomo da guardarsi indietro, né da mutare
avviso. Il codice d’onore che informa il suo libro più celebre
(se pur non il più importante) Le braci, fu anche la sua divisa15.
La scelta del ritorno in patria si rivelò felice e fu seguita da
una serie di successi letterari, teatrali e mondani. L’intellighenzia
e il bel mondo si stringevano nei ritrovi eleganti e nei teatri intorno
al trentenne che appariva come il capofila di un’intera generazione,
anzi di due: quella che aveva respirato il clima dell’anteguerra e
quella che stava per essere risucchiata dal nuovo conflitto. Sándor
e Lola erano la coppia del giorno e una gran bella coppia: bruno lui, bionda
lei, aitanti e ospitali. Budapest non poteva rivaleggiare con Parigi o Berlino,
ma si trovava al centro di un vasto movimento d’idee e di progetti
non solo letterari, dall’architettura alla psicanalisi, dalla fotografia
alla fisica. Furono gli ultimi fuochi di un’età febbrile, ritratti
in libri quali Truciolo (1932) Divorzio a Buda (1935) (uscito tre anni dopo
in italiano presso Baldini e Castoldi, forse per attrazione da quel titolo
alla Körmendi), L’eredità di Eszter (1939) nel teatro
e nelle poesie, in centinaia di articoli e saggi che aspettano ancora di
essere raccolti e conosciuti internazionalmente. I romanzi di quel periodo
ci sembrano una parte nettamente minore della produzione di Márai,
ma quella più in sintonia con il clima europeo di dissolvimento dell’ordine
borghese, alla Zweig, alla Schnitzler, alla Perutz, ovvero, fuori dal mondo
austroungarico, alla Maugham. Testi ben tagliati e ben costruiti, quasi
da copione teatrale o cinematografico, ma nel fondo artificiosi come il
mondo che descrivono. Se l’opera di Márai si limitasse a questo,
si capirebbe la sua riscoperta in un’epoca ugualmente artificiosa
come la nostra, ma solo in quanto cammeo di un filone già molto noto
e sfruttato tra le due guerre16.
Le avvisaglie della catastrofe colpirono i coniugi nell’affetto più
caro: nell’aprile 1939 si spense, dopo appena sei settimane di vita,
il primo e unico figlio che concepirono. Com’era nel suo carattere,
Márai si chiuse in se stesso. Ma era uno scrittore ed è naturale
che il dolore represso scorra nelle pagine dei suoi libri, come l’episodio
del figlio morto nella Donna giusta17. Terminò una poesia con i versi:«Non
lo perdonerò. A nessuno. Nè ora né mai»18. E
conoscendo l’uomo per come ci sembra di conoscerlo, parlava sul serio.
Molti anni dopo, incontrando un prete sul lungomare di Salerno, gli avrebbe
rivolto la domanda dostoevskiana: «Perché muoiono i bambini?»
alla quale il sacerdote rispose, abbastanza prevedibilmente: «I bambini
sono in Paradiso». Márai non aggiunse commenti e non sappiamo
se la risposta gli sia bastata19.
Da quel momento la sua esistenza venne investita dal corso della storia
e ne fu rapidamente travolta. Il dramma dell’Ungheria, prima infeudata
all’Asse poi “liberata” dalle truppe sovietiche, conobbe
un crescendo di follia omicida con le gesta delle “Croci frecciate”
filonaziste di Szálasy, seguite dalle purghe di segno opposto all’arrivo
dell’Armata Rossa. La casa di famiglia fu più volte bombardata,
occupata e saccheggiata, i parenti dispersi, la preziosa biblioteca devastata
dalle soldatesche. Márai dovette prima nascondersi, perché
antifascista e con moglie ebrea. Ma dopo la caduta dell’Asse si trovò
nuovamente in crescente difficoltà con le nuove autorità,
che alternavano il bastone alla carota. Per trattenere Márai in patria,
come per far rientrare da Parigi François Fejtö, scese in campo
il più illustre e mefistofelico filosofo comunista, György Lukács20.
Né mancarono onori e prebende ufficiali: Márai sedeva allora
nell’Accademia delle Scienze ungherese e fu nominato nel 1947 membro
della delegazione ungherese alla prima sessione del Consiglio d’Europa.
La via dell’esilio e della decadenza
Ma ben
presto, come documentano con scansione degna di un thriller le pagine di
Terra! Terra!, fu chiaro che non restava altra via che la fuga. La rottura
ufficiale ha una data che, come spesso in Márai, ha valore simbolico:
l’11 aprile 1948, giorno del suo quarantottesimo compleanno. Occasione
ne fu una tournée di conferenze in Francia e Svizzera, ove i suoi
interlocutori progressisti, comodamente al sicuro nei loro felici paesi,
chiusero occhi e orecchie sui suoi ammonimenti. Erano già i tempi
in cui chi “sceglieva la libertà” veniva bollato come
rinnegato e nemico del popolo21. I tre principali attori della politica
filo-tedesca dell’Ungheria erano già usciti di scena. Szalasi
fu processato e impiccato a Budapest nel marzo 1946. Bethlen, deportato
a Mosca, vi morì in circostanze mai chiarite nell’ottobre 1945.
Horthy, che era stato arrestato e deportato dai tedeschi nel 1944, fu brevemente
imprigionato poi rilasciato dagli americani alla fine della guerra e si
spense in esilio in Portogallo nel 1957. Ma molti loro seguaci si distinguevano
per lo zelo con cui militavano nei ranghi del nuovo regime. Un ribelle come
Márai diventava un testimone scomodo.
Terra! Terra! è un resoconto ammirevole, degno seguito delle Confessioni,
animato da forte passione civile ma stringato nella denuncia e nell’emozione,
tanto da riconoscere l’umanità di (certi) soldati dell’Armata
rossa o da non infierire sugli intellettuali collaborazionisti di neri,
rossi e rosso-neri. Eppure, riteniamo che sarebbe stato difficile tradurlo
e presentarlo in Italia, sino ad alcuni anni fa; o lo sarebbe stato con
i distinguo e le accortezze che caratterizzarono l’uscita del capolavoro
di Morselli, Il comunista. Certo, le complesse vicende dell’Ungheria
dal 1944 al 1948, fra terrore nazifascista, occupazione sovietica, conati
democratici, instaurazione della “repubblica popolare” e satellizzazione
finale del paese, sono difficili da capire per il pubblico odierno. Ma nasce
il sospetto, da certi commenti stampa, che Márai vada benissimo quando
ricama sottili trame amorose, un po’ meno quando descrive, per esperienza
fattane, «un esperimento disumano, il grande inganno mascherato da
socialismo chiamato comunismo»22.
Secondo certe voci circolate dopo la sua partenza, Márai sarebbe
stato compromesso col regime di Horthy e questo avrebbe spiegato la sua
decisione di emigrare. Di certo si sa solo che aveva preso posizione sulla
stampa a favore dei due arbitrati di Vienna (del novembre 1938 e dell’agosto
1940) che, sotto l’egida di Hitler e Mussolini, comportarono il recupero
da parte dell’Ungheria di quasi tutti i territori ceduti dopo la prima
guerra mondiale a Cecoslovacchia e Romania, andando in alcuni casi oltre
il tracciato del 1914. È impossibile verificare queste illazioni
per chi come noi non abbia conoscenza diretta dei testi in questione. Ci
sembra, tuttavia, che la reazione dello scrittore vada valutata alla luce
del fatto che nel primo arbitrato era compresa la sua regione natale, che
ridivenne quindi ungherese dal 1938 al 1945, per essere poi nuovamente annessa
dalla Cecoslovacchia alla fine della seconda guerra mondiale, su pressione
questa volta dell’Unione Sovietica. Altra accusa, molto più
grave, riguarda una serie di interventi di Márai nell’immediato
dopoguerra, nei quali egli avrebbe sottolineato l’origine ebraica
e non “nazionale” dei principali esponenti del comunismo ungherese.
Da qui un sospetto di antisemitismo che ha accompagnato lo scrittore fino
a polemiche recenti di cui si è avuta l’eco sulla stampa italiana.
Anche qui, non possiamo esprimerci su testi e circostanze che non conosciamo.
Ma, a parte la circostanza personale del matrimonio con un’ebrea,
sarà bene leggere nei diari i numerosi passi in cui egli ricorda
il disgusto provato di fronte ai massacri e alle deportazioni degli ebrei
ungheresi, molti dei quali suoi amici, negli ultimi mesi di guerra: «orrori
che non potranno mai essere dimenticati né perdonati», scriverà
ancora il 29 marzo 1986, e come abbiamo già osservato, quando Márai
decideva di non dimenticare né perdonare non era uomo da far sconti
a chicchessia23.
Fu così che il giovane scrittore baciato dal successo, al quale tutto
e tutti sembravano inchinarsi, divenne un esule piagato ma non piegato dal
destino. La sua trasformazione fisica ne è spia impressionante. Fino
alla guerra, è un bell’uomo dal viso carnoso, i folti capelli
scuri ravviati all’indietro, somiglia vagamente a Galeazzo Ciano,
ma con un’espressione molto più intensa. Nel giro di pochi
anni, le fotografie mostrano un vecchio amaro e ingrigito, vestito con la
compostezza del borghese che ha salvato un solo abito dal naufragio, «rassomiglia
maledettamente a quel viandante intrepido, apolide e tutto sommato, io credo,
infelice»24. Triste immagine ma, ancora una volta, bella lezione di
stile.
Risultate impraticabili Svizzera, Francia e Germania, i Márai optarono
per l’Italia e Napoli, ove uno zio italianizzato di Lola, Luigi Marton,
mise a loro disposizione un piccolo appartamento con vista mare sulla collina
di Posillipo. «La benevola umanità degli italiani era rimasta
immutata pur tra le prove della guerra»25. Dopo tante tragedie, furono
abbagliati dallo splendore del clima e del golfo. Nel diario avrebbe descritto
gli anni di Posillipo come i più belli, con un’espansione molto
rara in lui: «Ho voluto bene a tutto e a tutti, e anche i napoletani,
a modo loro, mi hanno accettato»26. Con i pochi beni trafugati e qualche
residuo diritto d’autore, Sándor e Lola cominciarono una nuova
vita. Le bocche da sfamare erano tre, perché li accompagnava János,
un bambino adottato da una povera famiglia di agricoltori, che divenne da
allora il centro dei loro pensieri, per compensare la ferita mai rimarginata
della morte del figlio carnale. Furono anni ricchi di viaggi, d’impressioni
e soprattutto di speranze che l’esilio avrebbe avuto presto fine27.
Il “signor conte straniero”, come veniva chiamato dai pescatori
locali, vi scrisse diverse opere significative, come il romanzo Sangue di
San Gennaro28 il diario Amburgo-Napoli-Capri, il poema Discorso dei morti.29
In italiano pubblicò due romanzi oggi introvabili: La suora (Bompiani)
e La scuola dei poveri (Macchia). Ma ebbe scarso commercio con il mondo
intellettuale, già chiuso com’era nella sua torre d’avorio.
Tra i pochi eventi esterni vi fu l’udienza concessa in Vaticano da
Pio XII a un gruppo di pellegrini tra i quali si nota un Márai particolarmente
severo, accostatosi alla Chiesa più per reazione allo choc dell’esilio
che per intime convinzioni religiose.
Alla lunga, la scarsità di mezzi e l’incapacità di inserirsi
in Italia si fecero sentire. La minaccia comunista non sembrava affatto
tramontata con l’esito delle elezioni del 1948. Dall’Ungheria
gli giungeva l’eco delle trasmissioni e degli articoli in cui veniva
definito con scherno “primadonna agonizzante” e “servo
del capitale”. Finite le lusinghe del professor Lukács!...
Come altri esuli, viveva nel timore di rappresaglie, ed era convinto che
i servizi segreti sovietici o ungheresi avrebbero cercato prima o poi di
eliminarlo o di rapirlo. Bisogna riportarsi al clima dei primi anni della
guerra fredda, in cui si verificarono non poche morti e sparizioni sospette.
Prova eloquente delle sue paure è il fatto che non si sa se abbia
effettivamente abitato nel domicilio ufficiale di villa Marton a Posillipo,
ove è stata inaugurata alcuni anni or sono una lapide commemorativa30.
Una foto scattata a Paestum mostra un uomo chiaramente sulla difensiva,
pesantemente incappottato, ormai molto più simile a un profeta disarmato
alla Silone che al Galeazzo Ciano dei verdi anni31. Perpetuamente appeso
alla possibilità di ristampe o traduzioni delle sue opere e perpetuamente
deluso, Márai si risolse a chiedere il visto e a salpare con moglie
e figlio per gli Stati Uniti.
Da Napoli a New York: l’isolamento di
un patriota senza patria
L’America
sembrava aprir loro le braccia, come da oltre un secolo aveva fatto con
gli emigranti del vecchio mondo, ungheresi in testa. Aveva iniziato a collaborare
all’emittente americana Radio Free Europe: avrebbe continuato per
sedici anni, con lo pseudonimo trasparente di Ulisse, garantendosi l’unica
fonte regolare di sussistenza. Prima di partire, era stato annunciato dall’Ambasciata
statunitense a Roma alle autorità di Washington come un personaggio
di spicco, al quale riservare incarichi di rilievo. Ma per una serie di
ragioni che non ci sono del tutto chiare, l’operazione fallì
miseramente. Forse il clima pesante del maccartismo; forse i litigi con
gli altri esuli, tra cui reduci dell’estrema destra con cui non voleva
avere contatto; forse il carattere, che con il tempo e le nuove prove si
era fatto sempre più esigente e scostante: sta di fatto che Márai
si ritrovò presto isolato32. Vi si aggiunga la scelta di non rinunciare
alla lingua natìa, scelta che finì col confinare i suoi scritti
a piccole collane di esuli e autoedizioni (che oggi – segno dei tempi
– vanno a ruba tra i collezionisti).33 Scrivere in ungherese, e solo
in ungherese, era l’unico modo ai suoi occhi di restare legato al
suo mondo, nella «consapevolezza che nascere in Europa, essere europei,
non fosse solo uno stato naturale o di diritto, ma una confessione di fede»34.
Non sorprenderà che anche le larghe braccia dell’America cominciassero
allora a richiudersi.
Che fare? Aveva poco più di cinquant’anni, ma era esausto,
ne dimostrava dieci di più in una società in cui la giovinezza,
l’energia, il movimento erano la norma. Come tutte le nature creative,
manteneva un rapporto strumentale con la realtà: ne prendeva quel
che gli serviva e ignorava o trascurava il resto. Poteva mostrarsi generoso
o egoista, premuroso o insofferente, ma solo in funzione di se stesso, mai
del valore convenzionale di questi concetti. Avvinghiato all’unica
cosa che gli restasse – la sua identità di scrittore ungherese,
cioè di patriota senza più patria35 – rifiutò
ogni altra prospettiva di impiego, cioè d’identità alternativa.
Lola lo assecondava ciecamente e per i vent’anni successivi fu lei
a mantenere la famigliola, impiegandosi nel reparto calzature di un grande
magazzino, mentre il marito passava le giornate nei musei o nella biblioteca
circolante della 42a strada, considerando qualsiasi lavoro “alimentare”
al di sotto della sua missione. La sera, dopo un pasto spartano, le leggeva
per ore le pagine che continuava a scrivere con la disciplina di sempre,
ormai destinate ai cassetti della scrivania. Restava incrollabilmente convinto,
come dichiara il suo Casanova al frate degenere Balbi, che «la scrittura
non è affatto simile al potere, la scrittura è il potere,
l’unico potere autentico [...] la tua libertà la devi alla
scrittura»36. Dopo di che si addormentava, lasciandola alle prese
con i piatti sporchi e le camicie da rammendare, contento che Lola continuasse
a credere in lui, mentre degli altri gli importava sempre meno. Non immaginava
di essere diventato non più solo un autore ma un personaggio da romanzi,
uno di quegli eccentrici drop-outs dispersi nella metropoli tentacolare,
usciti dalla penna di Bellow o di Malamud37.
Condizioni indubbiamente dure, durissime. Ma sorge il sospetto che Márai
abbia attivamente contribuito ad emarginarsi, o almeno che abbia fatto di
tutto per chiudersi in una torre d’avorio. Si avverte qui un nodo
emotivo e caratteriale che l’osservatore anche meglio disposto non
riesce a indagare razionalmente. Che Márai si sentisse sopra ogni
cosa custode della cultura ungherese, specie di fronte al nuovo oscurantismo
totalitario, è ammirevole38. Che, come molti scrittori, ritenesse
di poter dare il meglio di sé solo nella propria lingua, è
comprensibile. Ma si stenta a capire perché abbia attribuito un valore
così esclusivo, quasi sacrale alla versione originale, quando la
sua prosa funziona perfettamente in una buona traduzione inglese, italiana,
francese o tedesca ed è, dopotutto, grazie a queste traduzioni che
essa ha acquisito negli ultimi anni notorietà mondiale.
Vi era nel suo atteggiamento qualcosa di più intimo, una crescente
misantropia, la voglia di sottrarsi a un mondo che non lo meritava? Solo
nel non inserimento lo scrittore vive radicalmente la propria condizione
di moderno Odisseo. Quando l’esilio si trasforma in pubblico riconoscimento,
questo meccanismo non vale più: un’altra identità si
forma e si sovrappone alla prima, pur senza annullarla del tutto. Quasi
tutti gli esuli illustri hanno conosciuto questa trasformazione. Così,
ad esempio, Mircea Eliade, negli anni inizialmente altrettanto duri dell’esilio
a Parigi e in America, si definì «scrittore romeno postumo»39.
Ma Eliade trovò almeno un riconoscimento accademico, se non un nuovo
pubblico letterario, sulla strada dell’esilio. Per Márai non
fu possibile. Glielo impediva il suo determinismo integrale, che è
la vera, ostinata componente autobiografica della sua opera, quali che ne
siano le successive incarnazioni fantastiche40. Ma si ha quasi l’impressione
che non lo volesse, se non a certe, allora impossibili, condizioni (il ritorno
in una libera Ungheria). Sembra quasi che nell’esilio volesse stare
male, per non tradire né dimenticare la patria, così come
nell’esilio si era trascinato Lajos Kossuth, l’eroe del Risorgimento
ungherese, morto di crepacuore a Torino, figura che Márai sentiva
particolarmente vicina, anche per la sua appartenenza alla piccola nobiltà
magiara del Felvidék (Slovacchia): «E proprio lui, il fuggiasco
che tutti i venti del mondo sospingevano adesso verso le grandi avventure
della vita, doveva sempre ricordare che la patria è eterna, anche
quando sbaglia. Scrisse della patria, paragonandola ora a un tiranno, ora
a un parente che non possiamo cancellare dalla nostra vita neppure se vogliamo»41.
Un caso simile al suo – all’opposto di quella che potremmo definire
l’opzione integrazionista di Koestler42 – è quello di
Elias Canetti, in uno dei suoi libri più belli, La lingua salvata.
Il tema è noto, ma merita qui di essere ricordato. Nato e cresciuto
in Bulgaria da genitori di origine sefardita spagnola, in mezzo a un crogiolo
di etnie e di lingue, Canetti viene educato dalla madre giovane vedova al
culto del tedesco, lingua di elezione del padre defunto. E al tedesco egli
rimarrà sempre fedele (malgrado la preferenza culturale e sociale
per il mondo anglosassone) perché «fu per me una lingua madre
imparata con ritardo e veramente nata con dolore»43. Per entrambi,
dunque, malgrado la diversità delle condizioni d’origine, l’attaccamento
alla lingua nativa-elettiva diventa l’unica alternativa al caos della
vita e della storia, l’unico modo di trasformare in valenza positiva
il dolore provato per la perdita della patria (Márai) o del padre
(Canetti), che sono poi simbolicamente la stessa cosa.
La relazione intima tra lingua ed esilio, ossia lingua come condizione del
e al tempo stesso condanna all’esilio, e condanna che va vissuta fino
in fondo per non rinnegare il padre e la patria, emerge in uno splendido
frammento del Sangue di San Gennaro. Márai vi descrive la folla di
derelitti dell’Europa dell’Est, che si trovano in fila al centro
di smistamento di Bagnoli: «Sui loro nomi e nei loro incartamenti
vi sono segni e accenti di ogni genere [...] Gli ungheresi, i romeni, i
cechi, i polacchi usano tutti accenti diversi. Si vede che non posseggono
più nulla e un giorno tutt’ad un tratto, si rendono conto che
senza l’accento non sono più esattamente quelli che erano prima,
ai tempi in cui possedevano ancora un accento. Ecco perché insistono
a trascinarsi dietro da un continente all’altro le loro vecchie e
malandate macchine da scrivere, dove le lettere sono ancora provviste di
accenti». Segue una rassegna delle piccole cose, un biglietto del
tram, il passaporto, una foglia di castagno, che ha portato con sé44.
Ma non era un eccentrico, un buffo palazzeschiano, un esaltato, malgrado
l’espressione sempre più ingufita, gli abiti lisi, le dita
ingiallite di nicotina. L’ex ragazzo prodigio era semplicemente diventato
quel che la vita lo aveva predisposto ad essere, dandogli le forze per reggerne
il peso: uno stoico, un’anima antica. Avrebbe potuto scegliersi per
epigrafe la frase che il romantico Villiers de l’Isle Adam aveva messo
in bocca al suo Axel (1885): «Vivere? Ci penseranno i nostri servitori»45.
Non era l’unico che, senza lamentarsi, trovasse in se stesso le forze
per andare avanti. Poco prima, in un sudicio ballatoio dalla “grande
mela”, consunto dalla leucemia, si era spento il suo grande connazionale
Béla Bartók, intento a comporre sino all’ultimo giorno
opere come il Concerto per orchestra, la Sonata per violino solo, il secondo
Concerto per viola e orchestra, vera e propria colonna sonora dell’esilio
novecentesco46.
Da allora e fin quasi alla fine, allorché gli venne in soccorso un
editore ungherese di Toronto, Márai divenne uno scrittore postumo
ancora in vita, un sopravvissuto a se stesso e ai suoi tempi, autore di
un immenso e involontario samidzat in pochi esemplari stampati alla meglio,
litografati, fotocopiati. Neppure la rivoluzione del 1956, che riportò
l’Ungheria all’attenzione del mondo, riuscì a ridargli
notorietà, anche se le sue analisi, regolarmente trasmesse da Radio
Free Europe, furono profetiche nel denunciare la repressione sovietica come
indizio di fragilità e non di forza del sistema socialista (fu solo
allora che Márai chiese e ottenne la cittadinanza statunitense).
La sua produzione non conobbe soste né esitazioni, ma uno spazio
sempre più ampio veniva ora riservato ai diari, genere letterario
che privilegia l’introspezione e l’osservazione selettiva della
realtà. Apparso all’estero finora solo in Germania47, il diario
conferma la sua vocazione di stoico e di testimone laico. Anche qui non
si può prescindere dalla biografia. Il dramma di casa Márai
ebbe infatti tre attori, di cui l’ultimo, fin qui rimasto in ombra,
fu il citato figlio adottivo, János Babócsay, che i Márai
avevano avuto in affidamento da una povera famiglia di agricoltori. Il desiderio
di assicurare al bambino una buona istruzione e una vita più stabile
era stato determinante nella decisione di varcare l’Atlantico. In
un primo tempo, tutto andò bene: János cresceva da bravo piccolo
americano. Ai genitori adottivi assomigliava ben poco, sia nelle fattezze
che nell’assenza di interessi intellettuali, ignorando totalmente
l’opera del padre. Terminato il servizio militare ed evitato di stretta
misura l’arruolamento per il Vietnam, János aveva trovato impiego
come perito elettrotecnico e messo su rapidamente una propria famigliola,
con totale rinuncia all’identità e alla lingua ungheresi, diventando
prevedibilmente John. Per i genitori non era stato facile accettarlo. Nella
seconda metà degli anni Sessanta, dopo la fine della collaborazione
di Márai con Radio Free Europe e il pensionamento di Lola, decisero
di compiere il viaggio di ritorno in Europa. János era ormai indipendente
e l’Italia, dove erano tornati quasi ogni estate, sembrava offrire
più tranquille condizioni di esistenza della proibitiva ed effervescente
New York.
Si stabilirono non più a Napoli ma in un modesto appartamento di
Salerno, in via Trento 64, sempre tramite lo zio di Lola, personalità
di primo piano della comunità ungherese in Campania. Vi avrebbero
trascorso una dozzina d’anni di totale oscurità negli ambienti
culturali, ma confortati da molte amicizie tra i vicini e la gente comune.
L’Italia non rischiava più di scivolare nel campo comunista,
anche se il ’68 e la strategia della tensione risvegliarono presto
in loro antiche paure. Nell’osservare i maggiorenti del locale circolo
di società seduti tranquillamente in piazza accanto ai frequentatori
della sezione comunista, Márai annotava : «Se mai è
esistita una società dove nessuno si sogna l’eliminazione delle
classi, quella è la società italiana»48. Ogni giorno,
lasciandosi dietro gli strilli dei bambini, i panni stesi ad asciugare,
i sentori del soffritto e il rombo delle motociclette truccate, il “signor
conte straniero” saliva all’ultimo piano dello stabile nella
terrazza condominiale, si riempiva i polmoni catramati di aria del golfo,
contemplava il mare, le barche, le albe e i tramonti : «La grande
montagna cade nel mare al confine meridionale d’Italia; il silenzio,
la corrente d’aria salata-iodata – tutto questo insieme è
l’eterna, silenziosa bellezza»49. Lì, simile al Broch
della Morte di Virgilio, riprendeva il dialogo con i suoi personaggi, che
non erano più i lucidi e disincantati borghesi di un tempo, ma Giuda,
Giulio Cesare, Giordano Bruno, protagonisti dei suoi ultimi romanzi, avvinti
al «sadismo della storia»50. In quel clima che potremo definire
di produttiva alienazione, nacquero Terra! Terra! (1972) e pagine e pagine
di diario. Dai documenti e dalle testimonianze disponibili si ha l’impressione
che, insieme con quelli di Napoli-Posillipo, siano stati gli anni più
felici, o almeno meno infelici, dell’intero periodo dell’esilio.
Il rimpianto di «questa città così signorile»,
continuò a seguire Sándor e Lola negli anni che restavano
loro da vivere. Fino all’ultimo, nelle lettere dalla California, scritte
talvolta in un italiano pittoresco ma suggestivo, parteciparono alle gioie
domestiche e anche alle pene degli amici lontani, specie dopo il terremoto
dell’Irpinia del 1980.
Ma il destino era in agguato e si chiamava, ancora una volta, János.
Fu infatti la nostalgia del figlio lontano a spingere i due anziani coniugi
a intraprendere l’ultima stazione nel loro itinerario di eterni girovaghi:
il ritorno negli Stati Uniti, questa volta a San Diego, sul Pacifico, ove
giunsero nel maggio 1980. Furono altre due ragioni a convincerli: il timore
che il comunismo dell’“offensiva Brezhnev” stesse riguadagnando
terreno in Europa occidentale e l’idea che il servizio sanitario americano
potesse offrire loro un’assistenza migliore di quella che Márai
aveva sperimentato all’ospedale cittadino, in occasione di una grave
infezione intestinale51.
Nessuna di queste premesse si verificò e il passaggio da Salerno
a San Diego fu semplicemente catastrofico. János sarebbe morto di
lì a poco, stroncato da un embolo. La malasanità italiana
apparve retrospettivamente un modello di generosità, se non di efficienza,
di fronte ai costi stratosferici delle cure mediche che i Márai erano
a malapena in grado di affrontare in California. Sul piano umano, il loro
isolamento divenne totale, senza il caldo sostegno dell’ospitalità
meridionale. Sbagliata infine la premessa geopolitica: il comunismo non
era affatto all’assalto, ma stava combattendo una disperata battaglia
di retroguardia prima di soccombere. La liberazione dell’Ungheria
e dell’Europa centro-orientale era ormai alle porte. Tragica ironia
della sorte: il muro di Berlino cadde pochi mesi dopo il suicidio dello
scrittore, il 22 febbraio 1989.
Cronaca di una morte annunciata
Possiamo
seguire passo a passo la stretta finale della vita e dell’opera nell’ultimo
quinquennio del diario: un lungo testamento che suscita un moto d’imbarazzo,
tant’è la meticolosità con cui lo scrittore descrive
il suo calvario. Valeva la pena di pubblicarlo? La risposta di Márai
fu evidentemente positiva, visto che non lo distrusse (da Kafka in poi,
sappiamo che gli scrittori che non distruggono i loro inediti desiderano,
consapevolmente o meno, che sopravvivano loro). Ma lo è umilmente
anche la nostra, tanto da auspicare non solo la traduzione italiana di quest’ultimo
tomo, ma un’edizione critica dell’intero diario. Vi sono tre
buoni motivi per consigliarne la lettura. Il primo è la cronaca della
fine di Sándor e Lola, che suggella una lunghissima storia d’amore,
vissuta letteralmente fino all’ultimo respiro. Il secondo è
di natura storico-politica: le continue messe in guardia dell’autore
contro il sistema comunista che scricchiola, cerca di riformarsi o di apparire
tale, ma rimane incapace di farlo, confermando ai suoi occhi l’adagio
per cui il lupo ha perso il pelo ma non il vizio. Il terzo, infine, è
la straordinaria descrizione di grottesco, sardonico umorismo, della società
americana di fronte alla morte, quale non ci era capitata di leggere dal
Caro estinto di Evelyn Waugh o dal primo Updike.
L’amore coniugale come amour fou non ha avuto molto successo nell’arte
del Novecento, secolo degli eccessi, a meno che non sia nella variante un
pò perversa tipo Dalì e Gala. Figuriamoci quando riguarda
due vecchi...52 Invece, l’amore coniugale è una costante dell’opera
di Márai, sia nella variante borghese, che in quella storico-fantastica.
I suoi due romanzi più rilevanti, (tra quelli a noi noti, ruotano
intorno al binomio amore coniugale = vita. Nella Donna giusta, la dissoluzione
di una coppia perfetta, dovuta all’incomprensione e al narcisismo,
segnerà l’esistenza dei due ex coniugi con il marchio della
fatalità. Nella Recita di Bolzano, Casanova rinuncia all’amore
esclusivo della donna amata – che è la vita – in nome
della sua vocazione, che è la rappresentazione della vita, quindi
un’altra forma di narcisismo. Márai sembra qui riconoscersi
nella tesi di Thomas Mann, nel famoso “brindisi” Sul matrimonio
(Über die Ehe, 1925) secondo cui solo la stabilità dell’unione
coniugale può consentire all’artista di tenere a freno il disordine
della pulsione creativa. Ma con una differenza: per Mann, si tratta di una
scelta imposta dalla ragione sull’istinto erotico (nel suo caso, omoerotico).
Per Márai, di una perfetta quanto rara adesione alla legge di natura,
la protezione contro il dissolvimento che minaccia l’uomo e le sue
imprese53.
Questa legge imperscrutabile veglia anche sull’agonia di Lola, ridotta
allo stato vegetativo, ma capace di riconoscere a sprazzi la voce e la presenza
del marito che, in pessime condizioni fisiche egli stesso, la lava, la pettina,
l’accudisce in un letto di clinica, con l’affanno di trovare
ogni giorno i dollari necessari per il ricovero e le medicine. Il tutto
viene narrato senza recriminazioni né lamenti, appartiene all’ordine
naturale delle cose, fa parte della «nostra vita intensamente vissuta»,
anche se «morire insieme sarebbe stato il dono più grande»54.
Il dialogo continuerà per i quattro anni che separano Márai
dal suicidio puntigliosamente programmato: lo stesso puntiglio, lo stesso
bisogno d’ordine che troviamo in ogni azione della sua esistenza.
Lola continua a vivere nei ricordi, nei sogni, in una sorta di comunicazione
telepatica che lui chiama hotline, nelle pagine del diario che anche lei
teneva ogni giorno. Un colloquio senza interruzioni e senza fine, senza
barriere tra vita e morte, in una prospettiva rigorosamente laica: «Detesto
i preti e le fole della religione»55.
Sul secondo punto, quello storico-politico, il rifiuto di Márai di
dare credito ai tentativi di riforma del comunismo negli anni Ottanta può
sembrare una conseguenza diretta dell’esilio. Il diario registra in
proposito un episodio singolare. Per qualche mistero burocratico, il nome
dell’ex collaboratore di Radio Free Europe doveva essere stato segnalato
a Washington a chi verosimilmente ignorava la sua opera letteraria ma riteneva
utile arruolarlo nella crociata contro l’ “impero del male.”
Lo testimonia un telegramma di auguri per il suo compleanno inviatogli dal
presidente Reagan e consorte, cosa di cui il vecchio scrittore fu il primo
a stupirsi. Márai era certamente anticomunista, com’era stato
antifascista, e per le stesse ragioni. L’adepto del totalitarismo,
specie se si trattava di un “chierico traditore”, non trovava
grazia ai suoi occhi56. E sapeva che, a sua volta, per i discepoli ungheresi
di Stalin e compagni egli era il peggior nemico possibile: un borghese liberale
e illuminato. Ma non si fidava nemmeno dei nuovi leader della transizione,
discepoli di Gorbaciov, e lasciò sdegnosamente cadere le loro aperture,
compresa l’eventualità di un ritorno a Budapest. Ancora in
una lettera del marzo 1988, alla vigilia della fine, Márai ribadiva
il divieto di ristampa delle sue opere in patria fino a che le truppe sovietiche
non avessero lasciato l’Ungheria e non vi fossero state indette libere
elezioni, con la supervisione di osservatori internazionali. Non dimenticava,
né perdonava.
Questa ostinazione può sorprendere solo chi non abbia a mente il
carattere del patriottismo di Márai, che era per lui altrettanto
naturale, vitale e deterministico dell’amore coniugale e familiare,
anzi lo completava57. Quest’esigenza si indurì e in certa misura
fossilizzò con le prove dell’esilio. Si ripeteva in peggio,
ai suoi occhi, allargata all’intero paese e all’intera Europa,
la perdita della “piccola patria”, subita da ragazzo, dopo la
grande guerra58. Certi suoi giudizi possono apparirci sommari, persino ingiusti.
Ma il vecchio esule, tagliato fuori da tutto e da tutti, ebbe vista più
acuta di molti soloni della politologia occidentale, nel ritenere l’esperienza
del comunismo sovietico, imposta con la forza ai paesi dell’Europa
centro-orientale, non più riformabile né adattabile e nell’indicare
l’ancoraggio all’Europa e all’Occidente come unica garanzia
di non ritorno al passato.
Il terzo punto, infine, è sorprendente. Ci rivela un Márai
inedito, involontario cronista macabro della società americana davanti
alla morte. Epicentro ne è l’inferno metropolitano di San Diego
e dintorni, tra California e Nuovo Messico, ma sembrano le istantanee dell’uragano
Kathrina abbattutosi su New Orleans l’anno scorso: un fiume di detriti
e spazzatura, l’oceano limaccioso e l’asfalto che s’incolla
alle scarpe, un’umanità afflitta di vecchi e di emarginati,
che vegeta dove può, nelle librerie pubbliche (evidente l’identificazione
con il rifugio prediletto da Márai nei quindici anni di America),
nei parchi, negli ostelli dell’esercito della salvezza. Non mancano
i gesti fraterni: l’hippie che lo aiuta ad attraversare la strada,
il taxista che lo sorregge, l’infermiera negra che lo assiste, ma
è poca cosa. Morta Lola, morto János, morti lontano da lui
i fratelli e le sorelle, Márai decide di farla finita. Ormai solo
(i superstiti contatti umani sono quelli sempre più radi con la famiglia
di János, le visite della cameriera a ore, la telefonata settimanale
con l’editore amico di Toronto) non vuole trovarsi infermo, in mano
a mercenari in qualche ospizio dei poveri. Lui ha assistito Lola, ma chi
assisterebbe lui? Raduna le ultime energie per pianificare la propria fine
e qui il lettore si trova improvvisamente proiettato nell’America
profonda dall’arma facile di un film di Michael Moore. Márai
scende a comprare una pistola e, da uomo metodico in tutto, chiede un solo
caricatore; ma l’armaiolo gli passa con aria complice un’intera
scatola di cartucce, «non si sa mai, possono sempre servire».
Va al poligono e si trova in mezzo a un club di entusiasti del tiro, dalla
ragazzina minorenne al vecchio ranchero, che si esercitano sotto l’occhio
compiaciuto di un istruttore della polizia...
Si dice che la scelta del suicidio sia già iscritta nel percorso
di molti poeti, scrittori e pensatori, quasi un frutto esacerbato della
loro sensibilità. Certamente lo fu – basta leggerne la premonizione
nei loro primi scritti – per Drieu La Rochelle o Pasolini (con buona
pace delle stolte teorie complottistiche sulla sua fine) forse anche per
Pavese e Morselli. Ma poi vi è un altro suicidio, incluso in una
sorta di patto sulla dignità della vita in nome del libero arbitrio.
Un suicidio di tipo antico, laddove la vita sotto certi livelli non appaia
più meritevole di essere vissuta. È un dibattito molto attuale,
legato al tema dell’eutanasia, ed è singolare che anche su
questo Márai abbia qualcosa da dire.
Nel diario degli ultimi anni, Márai realizza fino in fondo la sua
vocazione di uomo e di intellettuale. Aveva donato agli amici salernitani
la sua vecchia e fedele macchina da scrivere Continental (quella con gli
accenti, introvabile in Occidente), quasi fosse il segno della volontà
di non scrivere più, in anticipazione del suicidio, o suicidio simbolico
esso stesso. Ma il diario, scritto a mano, diventa, nuovamente per lui come
per Canetti, il segno della «lotta per la vita delle persone che mi
sono più vicine, una lotta contro malattie, operazioni, pericoli
[...] contro l’estinguersi della loro volontà di vivere [...]
[contro] la morte che devo andare a scovare fin nei suoi ultimi nascondigli
per distruggere la sua attrazione e il suo falso splendore»59.
Il 15 gennaio 1989 annota: «È l’ora». Il facsimile
della sua calligrafia rivela una scrittura tremolante. Ma quando mise in
atto i suoi propositi, cinque settimane dopo, la sua mano non tremò60.
Dobbiamo fermarci qui, allo stato così parziale di conoscenza della
sua opera in cui ci troviamo. Ma vorremmo permetterci una conclusione, che
forse troverà conferma dalla pubblicazione di altri suoi testi, specie
quelli di carattere saggistico e politico. Márai merita di essere
ricordato non solo come una delle ultime, importanti voci del secolo breve
(e orrendo) che abbiamo alle spalle, ma come un combattente per la libertà,
intesa come garanzia della scrittura, «perché non vi è
nulla di più pericoloso di un uomo che rifiuta di sottomettersi alla
tirannia»61. La sua ci appare dunque, e senza retorica, una «vittoria
dei vinti», per dirla con Raymond Aron nel saggio sulla rivoluzione
ungherese del 1956, riscoperto lodevolmente da questa rivista62. Sin da
giovanissimo, Márai ebbe chiara la sua strada e intuiva il prezzo
che avrebbe comportato seguirla. Ma come fu incapace di cambiarne il corso,
fu incapace di tirarsi indietro:
«Chi scrive oggi sembra voler testimoniare dinanzi alla posterità
che il secolo in cui venimmo al mondo proclamò un tempo il trionfo
della ragione. E fintantoché mi sarà concesso di scrivere,
sono deciso ad attestare che ci furono un’epoca e alcune generazioni
che proclamarono il trionfo della ragione sull’istinto, e credettero
nella facoltà di resistenza dello spirito, capace di domare il desiderio
di morte del gregge. [...] È vero, ho visto e udito l’Europa,
sono stato partecipe di una cultura... Che cosa potrei desiderare di più
dalla vita? E adesso è arrivato il momento di mettere l’ultimo
punto fermo»63.
Note
1. Merita una menzione l’oggi dimenticato Hans Habe (1911-1977), al
secolo János Békessy, autore di un’opera multiforme,
prevalentemente in tedesco e in inglese, sulle orme di un Remarque o di
un Klaus Mann, che, accanto a reportages e scritti di intrattenimento, contiene
pagine di notevole pregio documentario e letterario. Anche Habe conobbe
il destino dell’esule, negli Stati Uniti e in Svizzera, ma il successo
che riscosse in vita presso il grande pubblico, se non presso la critica,
gli permise di finanziare una fondazione intestata a suo nome a Lachen (www.hanshabe.ch/).
2. Le braci, a cura di M. D’Alessandro, Adelphi, Milano, 1998, p.90.
Pare che in omaggio al maestro, Márai avrebbe voluto tradurre in
ungherese i Buddenbrook (H. Wallmann: “Fast nur die Warheit”,
Die Frankfurter Rundschau, 25 giugno 2002). È peraltro evidente sin
dalle prime righe («Ah, il cane!... pensa con indulgenza. Poi gli
fa un fischio ed escono a passeggio») l’omaggio al manniano
Cane e padrone in Truciolo, traduzione di L. Sgarioto e K. Sándor,
Adelphi, Milano, 2002, p.11. Al modello manniano si rifaceva anche l’altro
maestro riconosciuto di Márai, Dezsö Kosztolanyi (1885-1936)
da molti ritenuto il più grande scrittore della generazione precedente,
che attende ancora pieno riconoscimento internazionale.
3. La più esplicita ricostruzione dell’ambiente familiare è
contenuta nel 3° capitolo di Divorzio a Buda, traduzione di L. Sgarioto,
Adelphi, Milano, 2002. «Era una famiglia di giuristi, come tante fra
le famiglie della piccola nobiltà intellettuale ungherese»
(p. 31).
4. Confessioni di un borghese, a cura di M. D’Alessandro, Adelphi,
Milano, 2003, p. 51. La curatrice merita il plauso per l’edizione
accurata di questa e delle altre opere dello scrittore. Il lettore odierno
sarebbe stato tuttavia aiutato da un succinto apparato di note relativo
agli eventi della storia ungherese ed europea evocati, spesso in forma rapsodica,
da Márai. L’amore salvifico dei libri e della cultura riapparve
trent’anni dopo, nelle temperie del secondo dopoguerra e dell’occupazione
sovietica: «L’intellighenzia andava al monte dei pegni, vendeva
il dente d’oro, l’orologio di alpacca per acquistare pane e
medicine. O un libro [...] Il ceto medio a cui era stato tolto tutto, comprava
ancora libri. Quegli uomini si privavano più volentieri dell’orologio
da taschino che dei loro libri» (Terra!Terra!, p. 264).
5. «Per me essere borghese non significava appartenere a una classe
sociale – ho sempre creduto fosse una vocazione. Per me il borghese
era il miglior fenomeno umano che la cultura contemporanea sociale aveva
prodotto [...] Con questa classe, la borghesia, sono stato in lite da sempre»
(Terra! Terra!... Ricordi, traduzione di K. Juhász, Adelphi, Milano,
2005, p. 109).
6. «Sua madre proveniva invece dalla borghesia di origine sassone:
da lei Kristóf aveva forse ereditato una certa mollezza, una maniera
vaga, irrisolta di percepire la vita, una sorta di sensitività [...]
ma per fortuna questo lato del suo carattere si mescolava con il rigore
laconico, pagano e temperato del padre» (Divorzio, p. 31).
7. Distinzione rilevata con fierezza dalla gentry: «Andrai dall’imperatore?,
domandò un giorno il fanciullo, prima che il padre partisse. Dal
re, lo corresse severo il padre» (Le braci, p. 39).
8. Tradusse però molto dal tedesco e scrisse in tedesco articoli
e resoconti di viaggio. Questo rapporto spiega perché, fino al successo
mondiale dopo la riscoperta de Le braci, l’unico paese in cui Márai
avesse mantenuto una pur modesta presenza editoriale fosse la Germania.
9. Sándor Márai. Ein Leben in Bildern, Piper, München-Zürich,
2001, n. ed. 2005. In tedesco è apparso anche l’epistolario
tra lo scrittore e l’amico Tibor Simanyi (Piper, München, 2002).
Sul Márai “politico”, v. K. Harpprecht: “Die Auferstehung
des S.M.”, Die Zeit, 38/2000, C. Geissler: “Wer bleibt, legitimiert
die Gewalt”, Berliner Zeitung, 11 aprile 2000. In Italia non esiste
finora a nostra conoscenza uno studio critico sullo scrittore, salvo la
postfazione di M. D’Alessandro (Le peregrinazioni di un borghese)
all’edizione italiana de Le braci, pp. 175-81 e il bellissimo catalogo
della mostra Luce e mare. Sándor Márai a Salerno 1968-1980,
a cura della Provincia e della Città di Salerno, dell’Associazione
culturale ungherese della Campania, dell’Istituto italiano di cultura
di Budapest e del Ministero dei Beni Culturali d’Ungheria. In francese
conosciamo lo studio di E. Martonyi: “Le récit mythique chez
Henri Bauchau et Sándor Márai”, Studia Minora Fac. Phil.
Univ. Brunensis, 24/2003, che ha però interesse prevalentemente letterario.
10. I ribelli, a cura di M. D’Alessandro, Adelphi, Milano, 2001, p.
65. E ancora, pp. 87, 121 («Dei padri riuscivano a parlare. Era lì
che si celava la radice di tutti i mali».) 128 eccetera. La rivolta
raggiunge una sorta di approdo surrealista, tipico di quel periodo, ma che
non abbiamo più ritrovato nell’opera a noi nota di Márai:
«Lui, per esempio, non si sarebbe mai opposto al progetto di sistemare
una mitragliatrice di fronte alla chiesa [...] e se qualcuno avesse lanciato
la proposta di appiccare il fuoco alla città in una notte di vento,
l’unica cosa a lasciarlo perplesso sarebbe stata la difficoltà
di mettere in pratica il progetto» (p. 102).
11. Alla «propaganda piccolo-borghese, sciovinista e nazionalista
– mascherata da democrazia – dei Benes» sono dedicati
molti passi polemici in Terra! Terra! (p. 238 eccetera) e nel diario. Al
riguardo un aneddoto: visitando Praga nell’estate del 1919, il conte
Károlyi, lo spregiudicato aristocratico “progressista”
che da ultimo Primo ministro della corona d’Ungheria divenne il primo
Presidente della Repubblica, si sentì dire sia dal Presidente cecoslovacco
Masaryk che da Benes, allora ministro degli Esteri, che i territori ungheresi
«erano stati assegnati dall’Intesa alla Cecoslovacchiasenza
che questa li avesse chiesti». Masaryk si mostrò possibilista
sul loro ritorno all’Ungheria: «Sentii che non era un pretesto,
come invece compresi quando la stessa dichiarazione mi venne fatta da Benes».
(M. Károlyi: Memorie di un patriota, ed. it. Feltrinelli, Milano,
1958, p. 181).
12. Ci sembra più calzante parlare di “Europa danubiana”,
come suggerisce C. Roma, in una recensione su Emporion, 16 luglio 2003.
Fermo restando che, come osserva Arnaldo Dante Marianacci, Márai
fu e rimase ovunque e comunque “scrittore europeo” (S. M. a
Salerno, pp. 11-12).
13. Queste le date indicate nel catalogo S. M. a Salerno. Altre fonti riportano
1967 per l’arrivo.
14. Confessioni, pp. 363-7. T. Mészáros segnala come a Milano
nel 1931 sia apparso un volume illustrato curato da Márai dal titolo
Venti anni di storia mondiale attraverso l’immagine 1910-1930, comprendente
numerose fotografie di maschere antigas, carri armati eccetera (S. M. a
Salerno, p. 94).
15. Lei non gli fu da meno e Márai lo aveva intuito. L’omaggio
che le dedicò poco dopo il loro incontro – «Solida come
una roccia, rimase sempre al mio fianco. E fu lei, lo so con certezza, che
mi aiutò a superare i momenti più difficili. Gli uomini sono
incapaci di compiere simili sforzi, e anche le donne ci riescono soltanto
in casi eccezionali. Lola, donna dalla tempra formidabile, attingeva a riserve
interiori pressoché inestinguibili, che dispensava senza risparmio».
(Confessioni, p. 340) – è lo stesso che avrebbe potuto rivolgerle
cinquant’anni dopo.
16. La bibliografia complessiva di Márai in ungherese comporta una
sessantina di volumi di vario genere (v. il sito Albert Tezla’s Hungarian
Authors, hu/~tezla/tezlahtm/marai.html, non aggiornato per le traduzioni).
Fra i volumi tradotti all’estero ma non ancora disponibili in italiano,
si vedano in tedesco l’antologia Zwischen Himmel und Erde (1942) (Piper,
München, 2002) e in inglese (1949, presso Praeger) e francese il romanzo
Paix à Ithaque (lgf, Paris, 1995 e 2005) tradotto da Eve Barre, consorte
dell’ex primo ministro Raymond Barre, con prefazione di quest’ultimo.
17. Vi era forse anche il ricordo della sorellina appena nata, morta scivolando
dalle braccia della balia (Confessioni, p. 150). Altro riferimento è
quello al figlioletto morto della governante del protagonista (Le braci,
p. 16).
18. Esercizi sulla tastiera 3, in S. M. a Salerno, cit., p. 29.
19. Annotazione di diario cit. in L. Csorba: Ricordi ungheresi in Italia,
Benda Foto, Roma, 2003.
20. È l’impressione che si ricava dal riferimento ad uno studio
molto lusinghiero dedicatogli da Lukács nel 1948, citato nella bibliografia
di Tezla.
21. Ci permettiamo di rinviare il lettore su questo ed altri punti ai ricordi
di François Fejtö, che ebbe però la ventura di stabilirsi
in Francia già prima della guerra, in F. Fejtö - M. Serra: Il
passeggero del secolo. Guerre. Rivoluzioni. Europe, Sellerio, Palermo, 2002.
L’onda lunga di questa diffidenza riapparirà nel 1956, allorché
molti “compagni di strada” accetteranno, pur con qualche tentennamento
(Sartre) la tesi dei partiti comunisti occidentali sulla presunta regia
neofascista nella rivoluzione di Budapest.
22. Terra! Terra!, p. 179.
23. V. oltre Tagebücher, cit. p. 108. Su questa delicata problematica,
vedi l’opera di F. Fejtö: Hongrois et Juifs. Histoire millénaire
d’un couple singulier, Balland, Paris, 1997.
24. La recita di Bolzano, traduzione di M. D’Alessandro, Adelphi,
Milano, 2000, avvertenza, p. 10.
25. Terra!Terra!, p. 242.
26. Cit. in S. M. a Salerno, p. 103.
27. Fu nel primo soggiorno italiano che i Márai conobbero con Zsuzsa
Szonyi, figlia di un celebre pittore ungherese e residente nel nostro paese
con il marito dal 1949, che sarebbe rimasta un’amica fedelissima dello
scrittore fino alla morte. Da allora e sino agli ultimi giorni, la giovane
donna divenne un punto di riferimento e di costante aiuto per i due coniugi,
nonché una delle più fedeli confidenti dello scrittore (il
loro epistolario è stato pubblicato a Budapest nel 2000). Ho un motivo
personale di gratitudine nei confronti della signora Szonyi, che fu la prima
a parlarmi del Márai “privato” nelle belle stanze di
Palazzo Falconieri, sede dell’Accademia di Ungheria a Roma. Il ringraziamento
va esteso all’amico prof. László Csorba, attuale direttore
dell’Accademia, per la sua preziosa assistenza nella preparazione
di questo lavoro.
28. Apparso in tedesco nel 1957 e ristampato nel 2004 presso Piper, München,
con il titolo Das Wunder des San Gennaro.
29. L’Orazione funebre (1230 c.) è il più antico documento
letterario in lingua ungherese.
30. Secondo quanto dettomi dal prof. Csorba (2006).
31. «Endre aveva cominciato a invecchiare soltanto tre o quattro anni
prima. Tutto ciò che vi era di pesante e di poco elastico nel suo
temperamento e nel suo carattere, la sua misteriosa opposizione nei confronti
del mondo che impediva agli altri di accostarsi a lui, il comportamento
cerimonioso e vigile, vagamente sacerdotale che lo aveva caratterizzato
sin da giovane, tutto ciò ostacolava anche da alcuni anni i suoi
rapporti con gli estranei. Non si può dire che fosse scortese [...]
La sua bontà era impacciata, timida e maldestra». (L’eredità,
p. 71).
32. Commenta Tibor Mészarós: «Tra gli esiliati, l’opinione
su Márai non era unanime [...] Si diceva che era un uomo rispettato
da tutti, ma amato da pochi: i politici, infatti, non lo amavano perché
era stato impossibile coinvolgerlo in politica. Continuava a vivere con
coerenza nella sua torre d’avorio...» (S. M. a Salerno, p. 103).
33. Arthur Koestler, dava il consiglio opposto a un giovane connazionale:
«If you want to make a career as a writer the only way I think is
to learn English», ricordando di aver scritto il primo libro in quella
lingua a ben trentacinque anni. (vedi A. and C. Koestler: Stranger on the
Square, a cura di H. Harris, Hutchinson, Londra, 1984, p. 92). Ma Koestler,
uno dei pochi intellettuali realmente cosmopoliti del Novecento, non si
è mai sentito parte di alcuna cultura specifica: né l’ungherese,
né l’ebraica, né l’anglosassone. Diverso il caso
di Márai: lo conferma una lettura parallela delle loro due splendide
autobiografie, le Confessioni da una parte e Arrow In The Blue e The Invisible
Writing dall’altra, che spesso riportano le stesse esperienze e negli
stessi luoghi. La differenza si sarebbe radicalizzata nell’esilio:
«A quanto pare, in cuor suo, aveva già perso ogni speranza
per i ponti, le terre e le persone. Ormai credeva soltanto nella lingua
ungherese: quella era per lui la patria». (La donna giusta, p. 380).
34. Terra!Terra!, p. 241.
35. Lo aveva già anticipato, prima della guerra, commentando la fine
della Cecoslovacchia dopo il patto di Monaco: «Lessi distrattamente
i titoli in prima pagina. Un piccolo Stato era scomparso dalla carta geografica
del mondo. Mi sforzai di provare che cosa avessero potuto provare gli abitanti
di quella nazione straniera dopo aver scoperto che la loro vita, le loro
consuetudini, tutto ciò in cui credevano ed avevano sperato era sparito
e all’improvviso non aveva più valore». (La donna giusta,
p. 80).
36. La recita, p. 61.
37. Le assonanze ci sembrano notevoli e degne di approfondimento tra il
Bellow di Mr Sammler’s Planet (1970) (il cui protagonista è
un esule ebreo polacco) e l’episodio finale di La donna giusta (Judit...
e un epilogo) che fu redatto nel 1980, a lunga distanza dalla prima edizione
(1941).
38. Persino in una delle sue (non molte) pagine sorridenti, un cucciolo
rivendica di essere «un cane ungherese – o forse si tratta solamente
di un essere che manifesta la propria individualità, indipendentemente
dal fatto di essere magiaro?» (Truciolo, p. 77).
39. E aggiunge: «vivo è solo l’autore dei libri che escono
in lingue straniere» (Le messi del solstizio. Memorie 2, 1937-1960,
ed. it. Jaca Book, Milano, 1995, p. 227).
40. «Gli uomini contribuiscono al loro destino, a determinare certi
eventi. [...] Non è vero che il destino si introduce alla cieca nella
nostra vita: esso entra dalla porta che noi stessi gli abbiamo spalancato,
facendoci da parte per invitarlo a entrare» (Le braci, p. 139).
41. La recita, pp. 118-119.
42. Una via intermedia fu quella di Issac Bashevis Singer che, in oltre
mezzo secolo di residenza negli Stati Uniti, continuò a scrivere
la prima bozza dei suoi romanzi e racconti in jiddish, facendosi poi aiutare
a redigere una più ampia versione inglese.
43. La lingua salvata. Storia di una giovinezza, Adelphi, Milano, 1980,
p. 105. Naturalmente, questo nulla toglie al fatto che entrambi gli scrittori,
come gli altri maggiori protagonisti dell’esilio, siano stati intensamente
e autenticamente cosmopoliti.
44. S. M. a Salerno, pp. 30-31 (ivi, p. 69, la fotografia della sua macchina
da scrivere). Il ricordo va ad una pagina altrettanto struggente del suo
diario, in cui Eliade registra la fitta di dolore che prova al momento in
cui si rompono banalmente i suoi occhiali, mentre sta lavorando in biblioteca.
Subito dopo ne capisce il motivo: quegli occhiali sono l’unica cosa
che gli rimanga della sua vita in Romania, prima dell’esilio.
45. L’impostazione meritocratica ed élitaria, complemento del
credo determinista, traspare da tutta l’opera di Márai: «Perché
adesso arrivano loro, sbucheranno fuori da ogni parte, sono centinaia di
milioni e forse più. Saranno dappertutto. I brutti. Gli incapaci.
La gente senza carattere. E getteranno vetriolo sul bello. Insozzeranno
il talento con il fango delle loro calunnie. Trafiggeranno il cuore di chi
ha più carattere di loro» (La donna giusta, pp.376-7). Essa
viene ribadita nel diario, in data 22 agosto 1985: «In letteratura
niente democrazia, solo solisti». (v. oltre Tagebücher, cit.,
p. 74).
46. Notevoli le analogie tra le loro due esistenze. Anche Bartók
aveva perso la città natale (Nagyszenmiklós) divenuta romena
(Sînniculae, Mare) dopo la grande guerra. Ed anche lui si stabilì
in America non volendo aver nulla a che fare con il regime in patria (nel
suo caso, quello di Horthy, ma è difficile pensare che avrebbe fatto
ritorno in un’Ungheria divenuta repubblica popolare).
47. Tagebücher 1984-1989, Piper, München, 2002, scelta e traduzione
a cura di H. Skirecki e S. Heinrichs. L’edizione originale ungherese
è apparsa presso l’editore Vörösváry di Toronto
nel 1997. Nella postfazione di E. Zeltner vengono spiegati i criteri che
hanno indotto i curatori a tralasciare “diversi passi” relativi
all’attualità politica e agli eventi ungheresi. Agli stessi
curatori si deve anche un’ampia scelta dei sette volumi di diari precedenti
(Oberbaum, Berlin, 2001, pubblicati anche separatamente) e dell’epistolario
(2 voll., ibid.).
48. L. Csorba: Dimore di S. M. in Italia, in Ricordi ungheresi, p. 236.
49. Annotazione del 1972, in S. M. a Salerno, p. 58.
50. Diario, p. 11, in data 20 gennaio 1984.
51. Commenta Mario De Biase, sindaco di Salerno: «La breve degenza
presso il nostro ospedale, nelle condizioni in cui versava nel 1969, lo
porta a riconoscere un’assenza dello Stato quasi traumatica per lui,
cresciuto nell’efficienza della burocrazia austroungarica».
(S. M. a Salerno, pp. 8-10). Donde il trauma e l’equivoco del ritorno
in America e del confronto con una sanità certo più efficiente,
ma solo con i ricchi e i previdenti.
52. Márai avrebbe probabilmente condiviso l’omaggio dell’anziano
Paul Morand alla moglie Hélène: «È stata la felicità
della mia esistenza, va da sé; ma soprattutto ne è stata la
grandezza, l’unica grandezza di questa mia vita». (cit. in M.
Schneider: Mille roses trémières. L’amitié de
Paul Morand, Gallimard, Paris, 2004, p. 57).
53. «La vita sono un uomo e una donna che si incontrano perché
sono fatti l’uno per l’altro, perché sono, l’uno
per l’altro, ciò che la pioggia è per il mare: l’uno
torna sempre a cadere nell’altro, si generano a vicenda, l’uno
è la condizione dell’altro. Da tale pienezza nasce l’armonia,
e in questo consiste la vita». (La recita, p. 226). E ancora: «Era
convinto che il matrimonio fosse un sacramento [...] una grazia speciale,
una manifestazione del volere divino» (Divorzio, p.61-62). Che il
puritano Márai intendesse anche reagire alla fama di “paradiso
del divorzio facile” dell’Ungheria tra le due guerre (tra i
più noti beneficiari italiani ricordiamo Claretta Petacci)? Il moto
opposto, quello dissolutorio, è invece così sintetizzato:
«Un giorno mi sono svegliata, mi sono messa a sedere sul letto e ho
sorriso. Non sentivo più dolore. E improvvisamente ho capito che
non c’è nessuna persona giusta. Non esiste né in cielo,
né in terra né da nessun’altra parte, puoi starne certa.
Esistono soltanto le persone, e in ognuna c’è un pizzico di
quella giusta, ma in nessuna c’è tutto quello che aspettiamo
e speriamo. Nessuna racchiude in sé tutto questo, e non esiste quella
certa figura, l’unica, la meravigliosa, la sola che potrà darci
la felicità» (La donna giusta, p.125).
54. Diario, p. 54, in data 31 dicembre 1984. Tutte le traduzioni sono nostre.
55. Diario, p. 131, in data 23 aprile 1987. Il termine tedesco per preti
(Pfaffen) è peggiorativo. La religiosità di Márai è
impossibile da investigare alla luce del poco a noi noto. Tra le ultime
annotazioni del diario (24 luglio 1988, p.144) vi è un riferimento
al Dio di Spinoza.
56. Il più irresponsabile dei suoi personaggi, l’amorale Lajos
in L’eredità, viene presentato, già nel periodo tra
le due guerre, come «paladino di diversi partiti estremisti di segno
opposto» (p.40).
57. «La patria per suo padre rappresentava la più alta espressione
del concetto universale di famiglia, qualcosa di inalterabile, il cui destino,
all’interno della gerarchia familiare della nazione, esigeva piena
responsabilità da parte dei membri di rango superiore» (Divorzio,
p.39).
58. «Aveva vissuto la catastrofe con tutto se stesso, a livello sia
fisico che spirituale, come se avessero mutilato il corpo dei familiari,
come se con l’onta che aveva ferito il Paese avessero offeso anche
il nucleo più intimo della famiglia» (Ibid. p. 39).
59. E. Canetti, Dialogo con il terribile partner, in Potere e sopravvivenza,
ed. it. a cura di F. Jesi, Adelphi, Milano, 2004, pp. 80-81.
60. Come invece era accaduto al padre, almeno nella finzione: «La
rivoltella con la quale il padre aveva tentato di affrettare la fine, senza
però riuscire a darsi di propria mano il colpo di grazia, ed alcuni
ritratti di famiglia: questo era quanto Kristóf aveva conservato
dell’eredità del padre» (Ibid., pp. 39-40).
61. La recita, p. 20.
62. “Una rivoluzione antitotalitaria”, nell’inserto speciale,
a cura di F. Argentieri, Ideazione, marzo 2006.
63. Confessioni, pp. 456-7 e ultime.
Maurizio Serra, diplomatico di carriera, attualmente dirige l’Istituto diplomatico del ministero degli Affari Esteri. Saggista, ha pubblicato numerosi saggi. L’ultimo suo lavoro è Fratelli separati. Drieu, Aragon, Malraux, edito da Settecolori.
(c)
Ideazione.com (2006)
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