Ho sentito per qualche anno dolorosamente la lontananza da Indro Montanelli: dal 22 Luglio 2001 questa lontananza è finita. Ora gli sono vicino come quando lo andavo a trovare al “Giornale”, ogni volta che passavo per Milano, qualche tempo dopo che ebbe inizio la sua avventura di direttore, intrapresa da lui per disperazione, non certo per ambizione. Non subito, perché allontanarmi dal “Corriere” fu un trauma. Ero troppo legato a Piero Ottone, rimasto per me Mignanego: un compagno d’Università, conosciuto ad un esame di Statistica, in cui lui ebbe 30 e io solo 29. Amico fraterno e testimone di nozze. Ma la vita dei giornali è crudele, e ne porterò un solo esempio. Ottone era momentaneamente direttore al “Secolo XIX” di Genova, e io dovevo telefornargli per tutt’altre ragioni che di giornale. Ma mi trovavo nella stanza di Barbiellini Amidei al “Corriere”, che mi disse: “Abbi pazienza, ma va a telefonare da un bar perché, se parte di qui una telefonata per il direttore de “Secolo XIX” io ci vado di mezzo”. Ho ricordato questo episodio per spiegare che può accadere di non poter scrivere su un giornale che non si riesce più a leggere, per cause che vanno ben oltre la responsabilità dei direttori. Quando lo dissi ad Ottone, mi accusò di credere a calunnie senza fondamento: ma “Il Giornale” non era nato senza fondamento. Era nato dallo stesso timore che Piero comunicò un giorno alla moglie, al ritorno da una passeggiata con me nel parco di una villa di Monza (opera del Piermarini) in un’ala della quale alloggiava: “Senti quel che dice Vittorio: che i comunisti sono ancora pericolosi”. Probabilmente lo diceva anche la moglie danese, Hanne. Scrissi a Montanelli, e la mia lettera si incrociò con la sua , che mi chiedeva la stessa cosa (credo che gli avesse parlato di me Rosario Romeo).
Non per tradire Montanelli, ma, anzi, per restargli fedele rimasi al “Giornale” quando lui se ne andò. Ero lì per caso il primo giorno della sede vacante, e Livio Caputo mi chiese di scrivere sul campo l’articolo d’apertura. Lo feci pensando di continuo con gratitudine all’assente, che talvolta mi aveva chiesto la stessa cosa. Ricossa interpretò la fedeltà al contrario di me, e passò alla “Voce”, deciso a non scrivere mai più di politica. Ma poi tornò al “Giornale”. Prima di incontrare il Montanelli direttore lo conoscevo come lo conoscevano tutti: una penna capace di costringere a farsi leggere qualunque cosa scrivesse, per come la scriveva. Una dote, però, che di per sé non fa ancora un direttore. Montanelli si rivelò (anche a se stesso, credo) come un grande direttore per un’altra ragione: la capacità di tenere in pugno un giornale, in un’epoca in cui i giornali non si governavano più col terrore. Lo teneva in pugno col solo prestigio, sorretto da una ostentata abilità scenica. Era un finto burbero, un finto tenero, un finto ironico, di quella finzione che è più vera della realtà. Impossibile contrastargli, quando s’imponeva con quel mezzo. Così riuscì a raccogliere e conservare una cerchia di collaboratori ben più vasta dei pur molti che lo avevano seguito da Via Solferino. Riuscì, in particolare, in un’impresa che in Italia pareva impossibile: far lavorare con successo a un quotidiano una schiera di professori universitari. Ne son passati al “Giornale” a diecine, quando sugli altri quotidiani si contavano a unità: perché è difficile che i professori italiani svestano la toga per farsi leggere (a differenza che in Francia). Montanelli riusciva, non soltanto a farli scrivere, ma a farli andar d’accordo; aiutato, sia pure, dal Sessantotto, che aveva ricompattato un Università prima divisa tra “laici” e “cattolici”, tra destri e sinistri, tra integrati e apocalittici.
Montanelli seppe conciliare i professori rispettandoli, valorizzandoli, ma anche reprimendo la loro tendenza all’imperialismo culturale. Qualcuno pretendeva di uscire tre volte la settimana, un altro esigeva che il “Giornale” riconoscesse come scienza solo la fisica delle particelle, altri due volevano che si espellesse Piero Santerno perché coincidente con Buscaroli. Montanelli rispose: “Se volete, andatevene voi”; e pubblicò la sentenza. Sotto le apparenze scherzose sapeva, all’occorrenza, essere duro. E grazie a tante capacità conservò, come il più attuale degli anacronismi, quella “terza pagina” che gli altri andavano abolendo. Conservò anche gli immancabili “Controcorrente”, perfino quando un lieve intervento lo costrinse all’ospedale. Ebbi allora l’onore di venirne incaricato anch’io, accanto a Cesare Zappulli, di cui Montanelli temeva gli istinti salaci. Non era facile, però, trovare gli spunti senza il preziosissimo Biazzi Vergani, che portava al direttore le notizie di agenzia più spassose, di cui si andava riempiendo, nel corso della giornata, un enorme cestino. Altra dote straordinaria di Montanelli: la tolleranza per gli errori (compresi i propri). Vivo spesso anch’io questa condizione umana: pretendere di abolirla equivale a negare l’uomo. Allo stesso modo sentiva l’errore Nicola Abbagnano, anche lui conquistato al “Giornale” (non senza imbarazzo di alcuni abbagnanisti). Una volta scrissi a Montanelli e a Cervi una lettera del tutto privata, per far notare un errore di cronologia in un loro libro di storia contemporanea, circa il passaggio di proprietà del Cotonificio Val di Susa da Abegg a Riva (spiegando che la circostanza mi era nota perché ero stato segretario di una commissione di inchiesta presso quella azienda). La lettera fu pubblicata per intero sul “Giornale”. Più divertente che Montanelli ne pubblicasse un’altra. In luogo di riformare il Concordato, proponevo di sostituirlo con una legge di un solo articolo: “Dal giorno tale Roma e il Lazio tornano sotto la sovranità del sommo Pontefice”. Montanelli, non solo pubblicò una lettera così politicamente scorretta, ma aggiunse (nella “finestra” a ciò deputata) che personalmente avrebbe aderito, ma che non si sentiva di impegnare su questo punto il “Giornale”. Un’altra volta mandai un articolo che fu giudicato in redazione “contrario alla linea del Giornale”: auspicavo che l’Altare della Patria si conservasse, ma togliendoli il colonnato sovrastante, che deturpa Roma. L’articolo uscì lo stesso.
Insomma, Montanelli era un passionale che metteva a frutto le passioni degli altri e dominava le proprie. Per questo più di una volta fu accusato di opportunismo. Ma il “Giornale” basta a dimostrare che, se questo vuol essere un rimprovero, non lo si può accollare a Montanelli. Semmai conviene ricordare che gli attaccanti chiamati “opportunisti “ nel calcio son pagati più degli altri, perché colgono l’opportunità di mettere la palla in rete. Se poi qualche volta, come accadde da ultimo a Montanelli, non ci riescono, questo è da mettere in conto a quel diritto di sbagliare che, come ho detto, abbiamo tutti.
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