La provocazione di Stephen Nickell, esperto mondiale di welfare e politiche per il lavoro, membro del comitato per la politica economica della Banca d'Inghilterra e consigliere di Tony Blair, che nel 2000 portò proprio le sue linee guida per un'Europa competitiva al summit di Lisbona, è questa: il mercato del lavoro europeo viaggia a due velocità. Rispetto agli Stati Uniti, dove la disoccupazione di lungo periodo è pressoché estinta, il vecchio continente arranca. Ma il problema non è di tutti. Anzi, per l'economista della London School of Economics, la vera disoccupazione è problema ormai solo francese, tedesco, italiano e spagnolo. Al di fuori di queste singole economie, oltre il “Big Four” dalle ruote sgonfie, il welfare funziona.
Come mai questa differenza?
Negli ultimi quattro anni paesi come Inghilterra, Danimarca e Olanda hanno
fatto molti progressi nella lotta alla disoccupazione. Se i quattro grandi
paesi del continente vogliono diminuirla possono seguire il loro esempio.
In Francia e in Germania non potrà esserci una crescita sostenuta
se non verrà reso più mobile il mercato del lavoro. La stessa
cosa poteva dirsi per l'Inghilterra, la Danimarca e l'Olanda all'inizio
degli anni Novanta. Quando questi ultimi paesi hanno compreso di avere creato
un sistema di welfare destinato a creare disoccupazione a lungo termine
hanno modificato il sistema, mettendo i senza lavoro nella posizione di
dover occupare i posti vacanti. Nel 1993 in Danimarca la disoccupazione
era più alta che in Germania, poi il governo danese cominciò
ad applicare il principio secondo cui, dopo un anno di disoccupazione, il
lavoratore era obbligato ad accettare il posto – quale che fosse – che il
sistema gli metteva a disposizione. Anche l'Inghilterra è passata
a un criterio simile e la situazione complessiva è migliorata.
Quali sono dunque le prospettive
per i disoccupati francesi, tedeschi o italiani?
In Germania il sistema sta cambiando: dopo un anno senza lavoro, i disoccupati
dovranno occupare qualsiasi posto si renda vacante. In Francia c'è
meno mobilità, nonostante le proposte provenienti dai sindacati e
dai dipendenti. In altre parti d'Europa – l'Italia del sud, la Spagna del
sud e la Germania orientale – il problema principale non è nei sussidi,
ma nel fatto che i salari sono troppo alti. Ci sono sempre dei problemi
quando i salari di una regione ad alto tasso di disoccupazione sono legati
a quelli di aree in cui la disoccupazione è inferiore. Vincere la
disoccupazione europea richiede dunque due cambiamenti di politica: regimi
adeguati quanto a collocamento e sussidi e salari flessibili a livello regionale.
Cosa pensa della precarietà
sempre più diffusa nel nuovo mercato del lavoro?
Tutto dipende da ciò che intendiamo con questo termine, flessibilità.
In un sistema funzionante, come quello inglese, la flessibilità non
è per forza fonte di insicurezza. Significa meno rigidità
del mercato del lavoro, ma questo nei paesi “flessibili” come la Gran Bretagna
o la Danimarca non si è affatto tradotto in una minore durata media
dei contratti, né in un aumento dei licenziamenti. In Inghilterra
nell'ultimo anno ci sono molte meno persone che hanno perso il lavoro di
venti anni fa.
Quale è la ricetta
per un mercato del lavoro flessibile ma non insicuro?
Servono serie riforme del mercato del lavoro, che generino bassi livelli
di disoccupazione e garantiscano la mobilità dei lavoratori. Bisogna
stimolare la competizione e il libero mercato, e rimuovere le barriere.
Bisogna incentivare le agenzie di lavoro che aiutano realmente i disoccupati
a trovare un nuovo impiego. Fare in modo che i disoccupati si rendano disponibili
col passare del tempo per lavori di diverso tipo. E rendere flessibili gli
stipendi nelle regioni meno produttive, per abbassare il costo del lavoro.
Ridurre le ore di lavoro o incentivare il prepensionamento non serve a nulla.
Il lavoro dei prossimi decenni
avrà più o meno regole di oggi?
Penso che dipenderà molto da paese a paese. Ma sono sicuro di una
cosa: la tendenza generale in Europa sarà quella di introdurre regole
per sostenere le famiglie, per esempio sostenendo le licenze di maternità
o paternità, come è successo ultimamente in Gran Bretagna.
I sindacati sono una garanzia
o un freno per il mercato del lavoro?
Il ruolo del sindacato deve essere quello di tutelare i lavoratori e migliorare
le condizioni di lavoro e le retribuzioni, coerentemente con le richieste.
Ciò significa che devono essere organizzazioni profondamente democratiche.
Se operano in questo modo sono senza dubbio un bene per il mercato del lavoro.
Ma spesso le cose non vanno in questo modo, e i sindacati agiscono in un
modo che finisce col danneggiare i lavoratori.
Pensa che la competizione
con paesi in cui il lavoro è molto meno tutelato, e quindi il costo
del lavoro è molto inferiore, sia una minaccia per le economie occidentali?
No, non credo. In molti Stati dell'India esistono regole molto rigorose
per i datori di lavoro, molto più che in parecchi paesi occidentali.
Dal mio punto di vista, la libera competizione con i prodotti di questi
paesi non può che far bene, alla lunga, sia a noi che a loro. La
ragione per cui molti paesi europei hanno un tasso di disoccupazione così
elevato non ha nulla a che vedere con le importazioni dalla Cina o dall'India.
Pensa che la globalizzazione
farà bene al mercato del lavoro?
Sicuramente, e lo ha già fatto.
Stephen Nickell, economista, saggista ed esperto del
mercato del lavoro, è titolare del Centre for Economic Performance
della London School of Economics.
Paolo Bracalini, giornalista, è esperto di temi di economia, mercato del lavoro e politica estera.
(c)
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