Un'altra occasione persa. La terza di fila. La più sprecata, secondo molti, la più cocente secondo tutti. Dal 1997 il partito conservatore inglese non riesce a conquistare gli elettori, a proporre un programma che non sia un “noi non faremo così”, il negativo della fotografia di chi sta al governo, il vizio di chi sta all'opposizione. Di certo il New Labour di Tony Blair non ha reso la vita facile ai Tory: ha rosicchiato terreno verso il centro, prima con le riforme economiche, poi con l'educazione e la sanità, poi con la guerra, e poi di nuovo da capo. Il suggello finale è stato posto durante la campagna elettorale in vista del 5 maggio scorso – l'Election Day – quando il cancelliere dello Scacchiere laburista, Gordon Brown, ha avocato al suo partito la (fino allora neppur citabile) eredità di Margaret Thatcher. Si sono alzate grida di dolore. Kenneth Clarke, cancelliere nel governo di John Major, ha usato il Guardian per sfogarsi: voi laburisti – ha scritto – avete rovinato il paese che noi conservatori vi abbiamo lasciato. Altro che eredità. Ma il punto di non ritorno era stato valicato, per la cultura laburista – che nel frattempo ha infatti perso parte del sostegno a sinistra – ma più ancora per quella dei conservatori, che da quindici anni si tormentano nel trovare una linea di successione a “Maggie”. Ecco perché quest'ultima sconfitta brucia più delle altre: il tempo non ha curato le ferite né dato speranza. Il partito conservatore non ha ancora ritrovato la sua identità.
Dalla decisiva vittoria del 1874 di Benjamin Disraeli alla batosta del 1997 di Major, i Tory sono stati al potere 84 anni su 123. Hanno dominato la politica inglese del XX secolo, sono stati il partito più di successo della storia di tutti i paesi dell'occidente, hanno prodotto leader unici per il loro spessore politico, personaggi del calibro di Winston Churchill, ma i più pessimisti dicono che non c'è mai stata una crisi così, neppure nei “grandi rovesciamenti” del 1905 e del 1945, come li ha definiti Peter Osborne sullo Spectator. Michael Howard, leader dimissionario dei conservatori, l'ha ammesso a chiare lettere dopo l'ultima sconfitta, aggiungendo che la crisi dei partiti di destra non è confinata al Regno Unito. Qui, però, ai problemi di strategia se n'è sommato un altro. I Tory sono rimasti impantanati nella loro storica ossessione – che ha tagliato le gambe alla rinascita, soprattutto in quest'ultimo decennio, quando dall'altra parte c'era un super Blair in grado di raccogliere consensi laddove il Labour non aveva mai neppure provato a seminare – nella loro peggiore paranoia: la ricerca di un leader. Piano piano l'ambizione ha cominciato a contare più del talento, provocando una svolta anche rispetto alla migliore tradizione conservatrice, che aveva dato prova di saper adattare il proprio programma ai gruppi sociali di riferimento e ai tempi, come ha ben dimostrato la svolta del liberismo thatcheriano. Certo, i capi carismatici lasciano sempre dietro di loro vuoti devastanti – basti pensare a che ne è stato del Partito democratico americano dopo il doppio mandato di Bill Clinton – e mettono i propri partiti di fronte a scelte difficili, di rottura con il passato, ma i Tory sono andati oltre, e dopo che, nel 1997, Major ha lasciato Downing Street per dedicarsi all'amato cricket, sono diventati quasi irriconoscibili.
Quattro leader cambiati in un decennio sono già il segnale evidente di una crisi. La campagna elettorale dell'aprile scorso, poi, ha fatto emergere il resto: un candidato controverso, la deriva populista, un guru importato da un paese – l'Australia – in cui non c'era un terzo insidioso partito a battagliare per ogni singolo voto in ogni singola constituency, i toni così duri da innervosire gli stessi compagni di partito, la presunzione di poter vincere semplicemente sgambettando l'avversario. Il risultato finale è stato meno negativo di quanto si temesse – c'è chi ha detto che si poteva addirittura festeggiare, ennesima testimonianza di obiettivi modesti – ma, dopo un decennio all'opposizione, piuttosto desolante. È apparso chiaro che il partito era a disagio: si ritrovava a essere la brutta copia venata di nazionalismo del New Labour.
Howard e gli errori della campagna elettorale
Howard è diventato il volto di questa involuzione. I maligni
dicono che non poteva essere più rappresentativo, lui che, alla prima
votazione per definire la leadership dopo la batosta del 1997, arrivò
al quinto posto su cinque, lui che è stato soprannominato da una
collega del partito Michael “qualcosa di misterioso” Howard, lui che è
stato il difensore delle posizioni più impopolari persino all'interno
dei Tory, lui che ha contribuito a imporre una tassa – la “Poll Tax” – che
ha dato la stoccata finale al già traballante terzo governo Thatcher.
Durante l'ultima campagna, Howard ha cercato di togliersi di dosso l'aura
di mistero e ambiguità, mostrandosi con la famiglia – soprattutto
con la bella moglie Sandra, ex modella di Vogue e autrice di un blog elettorale
allegro e frizzante – presentandosi con luminose camicie rosa e ribadendo
a ogni occasione la sua “sincerità, schiettezza, trasparenza”. Poi
però si è trovato inchiodato alla politica sull'immigrazione,
tanto dura da essere tacciata di xenofobia, e costretto a giustificare persino
la scelta dello slogan – «Stai pensando quello che anch'io sto pensando?»
– diventato oggetto delle più perfide satire: così molti hanno
capito che l'ombra nasty su Howard e sul suo partito non si sarebbe dissolta
col sole di maggio.
L'accusa di single issue party risuonava tetra nell'headquarter dei Tory, in Victoria Street. «Basta parlare di immigrati», dicevano i responsabili della comunicazione. Ma di che altro parlare? Il Labour ha occupato tutto. È diventato il partito dello small government, ha introdotto le tasse all'università, ha iniziato a riformare il sistema sanitario, ha deciso di introdurre le carte d'identità, ha proposto un taglio delle tasse (per quanto criticato). Ha detto, fatto e deciso cose di destra. L'altra grande battaglia – la guerra in Iraq – non costituiva certo un terreno su cui costruire la vittoria conservatrice: Howard, come anche il candidato democratico sconfitto John Kerry al di là dell'Atlantico, a quella guerra aveva dato il suo voto favorevole. Proprio la campagna irachena si è alla fine rivelata un'arma a doppio taglio, perché ha favorito il terzo partito, i Lib-Dems di Charles Kennedy, che, pur tentennando su molti altri aspetti del programma, ha guadagnato consensi grazie alla ferma posizione contro la guerra.
Sottovalutare il potenziale dei Lib-Dems è stato un altro errore strategico, addebitabile in gran parte a Lyndon Crosby, il guru elettorale arrivato da Canberra, che ha fatto molti dei suoi conti senza considerare che il Regno Unito presentava un terzo partito sulla scena elettorale. Michael Gove, uno dei giovani conservatori in ascesa che ha confermato il seggio del Surrey Healht, ci ha raccontato di non temere nel lungo periodo la cosiddetta decapitation strategy, messa in atto dai Lib-Dems. Il paese sta cambiando e, in Inghilterra, il partito che da sempre ha saputo cavalcare i cambiamenti è stato quello conservatore. Eppure non è andata così: i Lib-Dems hanno approfittato dello scoramento in politica estera, il Labour ha capitalizzato i risultati raggiunti in economia, e i Tory sono rimasti confinati a un lembo di terreno politico, pari al 33 per cento dei voti. Il numero degli elettori, peraltro, è cresciuto dal 1997 a oggi – a ogni tornata elettorale i conservatori guadagnano qualcosina – ma, come ha detto il presidente del partito, Francis Maude, «a questi ritmi torneremo al governo nel 2050».
La strategia dello sgambettamento non funziona. Fa guadagnare qualcosa, accende i toni, fa sudare Tony Blair, ma non paga. La base del partito non è mai stata tanto lontana dai vertici: il dilemma politico sta tutto qui, non soltanto nel Regno Unito. C'è chi pensa che il bacino più profondo stia al centro: è lì che bisogna seminare. C'è chi pensa che, invece, proprio questo voler spostare tutti verso un non ben precisato compromesso snatura l'identità dei partiti, rendendoli sempre più in balia della leadership di riferimento, che può sbatacchiare il suo partito un po' più a destra e un po' più a sinistra a seconda delle contingenze. È una rivoluzione della politica dell'ultimo ventennio: lo slogan che nel 1979 portò la Thatcher alla vittoria – “Labour doesn't work”, il Labour “non funziona” ma anche “non lavora”, accompagnato da una lunga fila di disoccupati – oggi non avrebbe lo stesso impatto. Perché allora il partito s'identificava con un elettorato che oggi non è più lo stesso, così come i Tory non sono più l'immagine della base che dovrebbero rappresentare. Il Guardian ha applaudito in un editoriale la presa di coscienza dei conservatori che «stanno imparando a perdere» e quindi hanno realizzato che «o vincono il centro o non vincono nulla».
Il ricambio generazionale della leadership
Il problema strategico è anche legato alla leadership, dove
si accumulano i problemi atavici dei conservatori inglesi. Howard, subito
dopo le elezioni, ha dato le dimissioni dalla guida del partito. Non subito
però, tra un po', forse a ottobre alla convention annuale, forse
alla fine dell'anno. Rifondarsi in questo modo è molto difficile,
e i Tory lo sanno bene: l'impasse nella guida finisce per condannare tutto
il partito alla pigra attesa. Howard ha fatto una scelta: non se ne va,
ma lancia la nuova generazione di conservatori, li mette alla prova, fa
fare loro un po' di palestra politica, li posiziona sotto i riflettori,
ma solo per un po', abbastanza per farli notare, abbastanza per non bruciarli.
La transizione graduale dai “troppo vecchi” (come si è autodefinito
Howard quando ha dichiarato che non si sarebbe più candidato) ai
giovani che devono fare esperienza è una scelta innovativa, un segnale
di cambiamento rispetto alle girandole di leadership che cambiano, poi ritornano,
poi sembrano scomparsi e poi rinascono. Questa stessa strategia ha dato
i suoi frutti in Francia. La destra di Jacques Chirac sta vivendo un momento
di crisi molto forte, con uno scollamento sia con gli elettori sia con la
tradizione, oltre alle difficoltà economiche e occupazionali. Il
presidente francese, però, pur con i suoi tanti problemi tattici,
ha scelto una via fruttuosa dal punto di vista della leadership: mettendo
i suoi pupilli, di volta in volta, uno contro l'altro, alimentando la competizione
è riuscito a tener viva la sfida alla sua successione, ovviando così
al problema oggi così diffuso dell'“après moi le deluge”.
Anche nel Regno Unito il tentativo di dare un nuovo respiro al partito conservatore comincia a dare i suoi frutti, anche se alcuni, all'interno del partito, sostengono che la rifondazione identitaria tarda a prendere forma, impigliata com'è nell'impossibilità di sbocciare, visto che alla guida resta salda “l'anatra zoppa” Howard, il traghettatore. Intanto i “vecchi” – Clarke, David Davis, Alan Duncan, Malcom Rifkind, Liam Fox, Michael Portillo – rivendicano la ribalta: si sentono i depositari della cultura conservatrice e, come tali, gli unici in grado di far riemergere l'anima vera del partito, quasi desiderosi di espirare il senso di colpa di non aver ancora dato al Labour la lezione che si meritava. Fox e Davis hanno tenuto discorsi pubblici sulla necessità di un ripensamento: per la prima volta in dieci anni non c'è stato il solito “scaricabarile postelettorale”, ma una analisi approfondita della sconfitta, con una proiezione propositiva per la prossima tornata alle urne, presumibilmente nel 2009. In questo i “giovani” – capeggiati dalla “banda di Notting Hill”, i “ragazzi” fatti crescere da Howard, suoi strenui alleati, soprattutto David Cameron e George Osborne, ora membri del governo ombra – hanno un ruolo decisivo: puntano sulla modernizzazione, sullo svecchiamento e, soprattutto, sull'allontanamento dalla politica incolore e annacquata degli ultimi anni. Trovare il terreno politico su cui far germogliare il programma resta una sfida cruciale e complicata: come ha sintetizzato bene l'Economist, nel suo endorsement a Blair con il naso turato – «se fosse un referendum sul premier, ci faremmo prendere dall'istinto di tirargli uno schiaffo in faccia», recitava l'autorevole magazine – il vero partito di destra, in Inghilterra, ora è il New Labour.
Senza spazi di manovra
in politica estera
Se in politica interna i Tory si sono trovati senza appigli, con
la middle class di riferimento più o meno compatta nel votare da
un'altra parte, che sia Blair o i Lib-Dems, in politica estera è
andata persino peggio. Basti pensare all'Europa. Durante la campagna elettorale,
dell'integrazione con Bruxelles nessuno ha voluto parlare: troppo rischioso
per il premier intento a rimanere il più vago possibile sul referendum
e sull'integrazione monetaria, ma impopolare anche per i Tory, accusati
di nazionalismo e xenofobia. Poi sono arrivati i “no” al Trattato costituzionale
dell'Unione europea di Francia e Olanda, e tutto è cambiato di nuovo.
Il calendario ha giocato a favore di Blair che si è ritrovato nei
panni del rifondatore dell'Europa. Come? Con riforme liberiste, con la strenua
difesa del rebate, orgoglio dei Tory, voluto dalla tenace Thatcher e dal
suo pugno sbattuto sul tavolo: «I want my money back». E in
Inghilterra è successa una cosa del tutto nuova per la sua storia
politica recente: i complimenti dei conservatori all'operato di un laburista.
Nella svolta europea che il premier britannico sta cercando di mettere in
atto, infatti, è riassunta la politica dei Tory fin da quando l'Ue
ha cercato di trasformarsi da pura zona di libero scambio a soggetto politico:
soltanto che a guidarla, questa politica, non ci sono i Tory. L'unità
nazionale sulla questione europea rende ancor più l'idea di quanto
sia difficile per il partito di Howard ritrovare la sua identità:
i margini di manovra si fanno sempre più angusti.
C'è di più. C'è che, dall'11 settembre in poi e soprattutto in occasione della campagna irachena, le alleanze hanno travalicato gli steccati politici. C'è che in Francia il governo di destra è alleato con il governo di sinistra della Germania. C'è che in Italia il governo di destra è alleato con il governo di sinistra dell'Inghilterra. C'è che in Spagna il governo di sinistra sta con Francia e Germania per quel che riguarda l'Iraq, ma, inseguendo il sogno delle sovvenzioni di Bruxelles, sta passando con l'Inghilterra in Europa. In questo marasma ideologico, i Tory inglesi sono rimasti alla finestra, incapaci di tessere alleanze sia con i governi sia eventualmente con le opposizioni, isolati nell'essere sia a favore della guerra – pur se i metodi erano sbagliati, pur se Blair «è un bugiardo» – sia contro l'Europa attuale.
L'isolamento internazionale dei conservatori
L'isolamento in cui si sono ficcati i conservatori, poi, potrebbe
essere ancora lungo. In Germania, la leader cristiano-democratica, Angela
Merkel, ha grandi affinità culturali con i conservatori – il Sunday
Times la chiama sempre e soltanto “la Lady di ferro tedesca” – ma Blair
ha già ipotecato l'alleanza, coinvolgendo Merkel nel processo di
rifondazione europea basata su riforme e competitività (e sul congelamento
dell'allargamento). Anche in Francia i Tory inglesi rischiano di restare
isolati. Manca ancora un bel po' di tempo alle elezioni – sono previste
nel 2007 – ma la campagna è già cominciata, aiutata dal collasso
europeo di cui anche i francesi considerano responsabile il presidente Chirac.
Potrebbe essere un'occasione per i conservatori inglesi, se non fosse che,
anche in questo caso, Blair è già superattivo nel presidiare
i terreni di alleanza. L'astro nascente Nicolas Sarkozy, ex pupillo di Chirac,
infatti, è già considerato un bastione del premier britannico.
Se non condividono l'etichetta politica, infatti, i due condividono tutto
il resto, dal liberismo in economia, alle politiche sull'immigrazione e
sulla sicurezza, all'affinità in chiave pro-americana.
Ed è proprio su questo fronte che si consuma l'ennesimo smacco politico dei Tory. Il «cagnolino» di George W. Bush si sarà anche attirato le ire dei suoi compatrioti, ma intanto ha costruito un'alleanza con i cugini americani che non ha precedenti nella storia del Labour. La cosa sorprendente è che l'anti-americanismo è da sempre una caratteristica della sinistra europea, soprattutto legata agli ultimi atti considerati unilaterali e di machismo militare. Ma, come ha sottolineato Geoffry Wheatcroft, autore di un libro intitolato La strana more dei conservatori inglesi, sul Wall Street Journal «tra i Tory più old fashion c'è un profondo senso di rabbia nei confronti di quella che sembra una non necessaria, folle e moralmente dubbiosa guerra». Se nel partito s'insinua un pericoloso populismo destrorso abbinato all'anti-americanismo le possibilità di rifondazione si riducono enormemente. In questo modo, infatti, si finisce col restare relegati ai margini della politica interna e estera per chissà quanto altro tempo.
Così, in occasione dell'ultima convention del partito repubblicano americano, nell'agosto del 2004, la delegazione dei conservatori inglesi non si è neanche presentata. Ovviamente non ha potuto neppure partecipare a quella dei democratici, quindi di fatto si è ritrovata a dover rimanere a casa, senza più un interlocutore a Washington. Invece il partito di Blair ha mandato la fanfara laburista dall'amico Bush e, nel frattempo, ha coltivato anche i rapporti con Kerry, un po' per sano opportunismo politico, un po' per affinità storiche, un po' per prevenire l'eventuale cambiamento alla Casa Bianca. Del resto, nel team degli amici intimi di Blair c'è Philip Gould, un esperto di opinioni pubbliche che si è fatto le ossa nella campagna elettorale del 1992 di Bill Clinton. E anche in questo caso, come negli eventuali cambiamenti delle leadership degli altri paesi europei, è difficile intravedere un futuro roseo, perché si sono interrati i legami ideologici che facevano, se non la politica quotidiana, almeno la fratellanza nelle grandi battaglie. Secondo Boris Johnson, eccentrico conservatore direttore dello Spectator, quel che manca – ed è mancato – al suo partito è stata una sana fiducia in se stesso: il ritorno alle tradizioni del passato permetterebbe di non restare impantanati in un presente tanto caotico. Ma di quel passato si è perso quasi il ricordo: tanti anni all'opposizione senza né guizzi né battaglie veramente incisive finiscono per spegnere anche il più stoico degli entusiasmi. È anche questa la preoccupazione di Michal Gove, che confida nella forza del suo partito ma allo stesso tempo teme che i tempi della rivoluzione siano ancora troppo lunghi. E c'è già chi millanta soluzioni creative. Se non si riesce a trovare un programma abbastanza avvincente, se il terreno politico è così esiguo da non lasciare margini di manovra, se il sistema delle alleanze è soverchiato da una serie di eventi, di coincidenze di calendario e di lavori di relazioni sospesi dai Tory per chissà quale motivo, se tutto ciò è dato per scontato, forse è meglio tornare sui banchi di scuola e ricominciare da capo. I vari Osborne, Cameron e i giovani in palestra dovrebbero sfruttare questi primi momenti per prendere il comando, magari togliendo di mezzo i più anziani e lo stesso “protettore” Howard e magari recandosi da chi le battaglie al centro, in campi angusti, le conosce benissimo. In America cioè, dagli amici repubblicani. Facendo insomma quello che già ha fatto un ragazzo che ha nel futuro tanta voglia di politica. Un ragazzo che ha passato l'estate in California insieme con un repubblicano che, a sua volta, fece palestra con un grande politico, Ronald Reagan. Emulando cioè quello che ha fatto il lungimirante figlio di un lungimirante politico: Euan Blair, figlio di Tony Blair.
Paola Peduzzi, redattrice di politica estera de Il Foglio, ha seguito da Londra l'ultima campagna elettorale inglese.
(c)
Ideazione.com (2006)
Home
Page
Rivista | In
edicola | Arretrati
| Editoriali
| Feuileton
| La biblioteca
di Babele | Ideazione
Daily
Emporion | Ultimo
numero | Arretrati
Fondazione | Home
Page | Osservatorio
sul Mezzogiorno | Osservatorio
sull'Energia | Convegni
| Libri
Network | Italiano
| Internazionale
Redazione | Chi
siamo | Contatti
| Abbonamenti|
L'archivio
di Ideazione.com 2001-2006