La campagna del 2001 con la quale è stato abbattuto il regime dei
talebani ha assunto una particolare importanza negli studi strategici perché
quel risultato è stato ottenuto senza un massiccio intervento di
truppe di terra. In questo modo, essa ha dato vita al “modello afgano”
(di combattimento); modello nel quale le convenzionali truppe di terra vengono
sostituite da alleati indigeni che nella loro missione sono supportati dalla
forza aerea statunitense e da piccoli gruppi di sof (le Special Operation
Forces americane, ndt).
Questo modello è stato al centro di accese discussioni fin dalla
sua nascita, anche se nel tempo i disaccordi si sono progressivamente ridimensionati.
Nel 2001, le spiegazioni date al crollo del regime afgano erano principalmente
due. La prima avvalorava il “modello afgano” e riteneva che
le condizioni locali incontrate in Afghanistan fossero sostanzialmente irrilevanti,
e ciò comportava, per i suoi fautori, l’improrogabile necessità
di ristrutturare la potenza militare americana in modo da adattarla a questa
new way of war1. L’altra spiegazione, al contrario, considerava i
fattori locali come la vera chiave della caduta dei talebani, e quindi l’esito
di quella campagna come un colpo di fortuna, con ben poche implicazioni
pratiche a livello strategico2.
Da allora, però, le due posizioni si sono pian piano avvicinate.
Nel 2002, per esempio, ho sostenuto che «l’Afghanistan non era
né una rivoluzione né un colpo di fortuna […] il modello
afgano può funzionare sotto alcune importanti condizioni, che però
non sono sempre presenti»3. Ora, Richard Andres, Craig Wills e Thomas
Griffith4 sostengono analogamente che «gli strateghi devono utilizzare
con giudizio il nuovo modello», il quale funzionerà, ma non
sempre5. Questo avvicinamento rappresenta senza dubbio un progresso. E difatti
attualmente il disaccordo verte solo sulle condizioni necessarie perché
questo modello abbia successo.
Eppure, le divisioni restano ancora marcate. Sebbene la portata del disaccordo
si sia ridotta, essa è ancora grande abbastanza da avere implicazioni
pratiche diametralmente opposte. Più nel dettaglio, Andres, Wills
e Griffith ritengono che debbano essere soddisfatte solo poche condizioni,
cosa che implicitamente suggerisce una vasta applicabilità del modello
stesso. Per quanto esso non possa comunque risultare vincente contro nemici
del primo mondo, avvertono i tre autori, esso, contro qualunque altro nemico,
può permettere agli alleati americani di prevalere a prescindere
dalle capacità e dall’addestramento avversario6.
Io, invece, credo che le condizioni necessarie per il successo di questo
modello siano molto più numerose e restrittive. A mio modo di vedere,
infatti, solo degli alleati con capacità e motivazione tali da avvicinarsi
a quelle del nemico possono avere qualche possibilità di successo.
Cosa che invece non può assolutamente accadere se si combatte con
alleati inetti o demotivati7. E siccome molti dei nostri possibili alleati
sono spesso addestrati peggio dei nostri plausibili avversari, allora è
facile pensare che il modello possa risultare vincente soltanto in una serie
di casi molto più limitata di quanto Andres, Craig e Griffith non
suggeriscano.
Questo disaccordo, sia chiaro, è di fondamentale importanza in quanto
l’errata percezione dell’applicabilità del modello afgano
ha delle implicazioni possibilmente devastanti: potrebbe infatti portare
al fallimento delle politiche che esso stesso vorrebbe servire; potrebbe
condurre ad errori di pianificazione, con il risultato di dare vita ad un
esercito mal strutturato o, ancora, all’inutile perdita di vite umane.
Per esempio, molti analisti e policymaker sostengono la necessità
di “trasformare” l’esercito americano. Secondo una scuola
di pensiero questa trasformazione dovrebbe favorire lo sviluppo delle capacità
di fuoco di precisione a lunga distanza, a discapito delle tradizionali
capacità di combattimento ravvicinato8. Un’altra scuola, all’opposto,
ritiene che queste capacità di fuoco di precisione siano diventate
tanto potenti che anche solo una loro frazione sarà sufficiente per
trionfare in operazioni di vaste dimensioni; e ciò, a sua volta,
permetterebbe di riconfigurare l’esercito americano, sviluppando delle
capacità di counterinsurgency e di nation building9. Ad entrambi,
Andres, Wills, e Griffith offrono un sostegno enorme, in quanto, secondo
loro, in futuro gli Stati Uniti potranno vincere qualunque conflitto facendo
semplicemente affidamento sul fuoco di precisione e su pochi e piccoli gruppi
di commando. L’unica eccezione sarebbe rappresentata dalla Cina, contro
la quale il modello afgano non potrebbe essere applicato.
D’altronde sono gli stessi Andres, Wills e Griffith a chiedere la
trasformazione delle forze armate americane in modo che essa venga a fondarsi
su due pilastri: capacità di fuoco di precisione a lunga gittata
e forze leggere di counterinsurgency.
Io sono di parere nettamente opposto: credo infatti che gli Stati Uniti
continuino ad avere bisogno di forze di combattimento ravvicinato, specie
per affrontare conflitti di grandi dimensioni – e pertanto considero
molto rischiosa la proposta avanzata dai tre studiosi10.
La logica su cui si basa la loro analisi ha però altre implicazioni,
alcune di grande portata, come per esempio la possibilità di intervenire
militarmente in nuovi teatri di guerra, anche durante l’attuale conflitto
in Iraq. Se l’esercito e il corpo dei marines sono pesantemente impegnati
in Iraq, lo stesso non si può dire per l’aeronautica e per
la flotta militare e ciò permette di disporre di importanti capacità
di fuoco a lunga distanza da utilizzare per aprire nuovi teatri di guerra.
Se il modello afgano è ampiamente applicabile come Andres, Wills
e Griffith sostengono, allora regimi come quello iraniano e quello siriano
potrebbero essere rovesciati senza dover necessariamente distogliere truppe
dalle operazioni militari in Iraq e Afghanistan11. In quanto se, come sempre
i tre studiosi affermano, la guerriglia irachena è una risposta all’invasione
di terra di tipo convenzionale operata dagli Stati Uniti, allora, seguendo
la loro ratio, l’attacco contro questi paesi non dovrebbe scatenare
una guerriglia, e ciò a sua volta non comporterebbe, nel post-invasione,
la presenza di forze di counterinsurgency.
Anche in questo caso sono di opinione diversa: innanzitutto, vedo ben poche
possibilità di intervenire in nuovi teatri, almeno a breve termine12.
In secondo luogo se, come ho già sostenuto, gli alleati indigeni
hanno bisogno di capacità simili a quelle dei loro nemici, allora
Siria e Iran (per esempio) si prestano ben poco a subire il nostro modello
afgano in quanto non mi risulta che ci siano forze di opposizione locale
adeguatamente addestrare e che possano combattere al nostro fianco. Detto
in modo più diretto, se bisogna avere alleati con competenze analoghe
a quelle dei nostri possibili nemici, allora il modello afgano può
essere applicato in un numero di circostanze decisamente limitato.
Chiarito questo punto, non resta che ragionare su due elementi fondamentali:
le condizioni necessarie perché il modello abbia successo, e (quindi)
il suo campo di applicazione. A mio modo di vedere, il punto dal quale bisogna
partire è il seguente: le skills sono essenziali; alleati con capacità
tattiche ridotte non sono in grado di operare in modo integrato con il nostro
airpower e le nostre sof. Il modello afgano, di conseguenza, funzionerà
qualche volta, ma di sicuro meno spesso di quanto Andres, Wills e Griffith
dichiarano.
È quanto cerco di spiegare nelle pagine successive: innanzitutto
deducendo gli assunti che stanno alla base delle argomentazioni di Andres,
Wills e Griffith. In secondo luogo cercando di valutare se essi sono realmente
osservabili nel corso dei conflitti in Iraq e in Afghanistan, cosa che dovrebbe
accadere, se i tre studiosi avessero ragione. E infine, alla luce di quanto
emerso nei due precedenti passaggi, concludo cercando di valutare le implicazioni
di questo modello sulla politica di difesa americana.
A questo punto, la domanda non è tanto se il modello afgano può
replicare le performance ottenute in Afghanistan, ma piuttosto quando e
quanto spesso ciò possa accadere. In particolare, bisogna chiedersi
se questo modello è in grado di ovviare una netta inferiorità
tattica. Secondo Andres, Wills e Griffith la risposta è positiva.
E perciò esso sarebbe ampiamente replicabile. Io, invece, sostengo
che non è possibile, e che di conseguenza l’applicabilità
del modello è nettamente inferiore. Per stabilire quale sia la posizione
più fondata, credo sia necessario stabilire ciò che il modello
deve essere assolutamente in grado di fare sul campo13.
Andres, Wills e Griffith sostengono che «dipende dalla missione»,
suggerendo implicitamente che degli alleati particolarmente deboli possano
comunque avere successo se assegnatari di missioni facili14. È ovvio
che chiunque può completare con successo la propria missione se essa
è particolarmente semplice. Il punto è che le missioni militari
non sono necessariamente semplici, soprattutto perché esse non nascono
dal nulla ma al contrario vengono determinate dagli interessi politici per
cui si combatte. Stando alla logica dei tre studiosi, bisognerebbe declinare
le missioni inconvenienti o tatticamente difficili: ma ciò significa
mettere a rischio o sacrificare degli interessi politici. A meno che non
si creda che gli Stati Uniti debbano combattere solo per fini politici modesti,
che comportano missioni facili, contro nemici incapaci. Ma anche seguendo
questa strada, il modello afgano sarebbe sempre molto meno versatile di
quanto Andres, Wills e Griffith sostengono.
Perché il modello sia ampiamente applicabile, deve essere in grado
di operare con successo anche in missioni complesse: allora è necessario
definire gli obiettivi che ad esso si richiede di raggiungere in questo
genere di missioni. Per me, il modello afgano deve dimostrare di essere
in grado di difendere e conquistare delle posizioni di terra nevralgiche.
Quando infatti la conquista di posizioni terrestri non è necessaria,
allora sarà sufficiente un attacco aereo di coercizione, anche senza
sof ed eserciti alleati: o più semplicemente non sarà necessario
il modello afgano. Ma quando il controllo del territorio è assolutamente
necessario, allora diventa fondamentale che chi attacca sia in grado di
applicare la copertura, il camuffamento, la dispersione e il fuoco di soppressione,
in modo da ridurre la propria esposizione al fuoco nemico e quindi riuscire
nel suo compito (o all’opposto che si abbiano le capacità per
portare a termine un attacco preventivo che distrugga le difese nemiche)15.
Ecco perché sostengo che le capacità tattiche sono fondamentali.
Con delle truppe non addestrate è infatti impossibile avanzare contro
il fuoco nemico e ciò costringe ad un attacco preventivo che annichilisca
le difese avversarie. Ma se per caso anche solo una manciata di postazioni
nemiche (coperte ed equipaggiate con armi automatiche) dovesse sopravvivere
a questo attacco, allora l’avanzata sarebbe nuovamente impossibile.
Andres, Wills e Griffith sviano questo problema suggerendo un’altra
strada: a loro modo di vedere, la forza aerea sarebbe la chiave di vittoria,
in quanto consente di colpire in anticipo le riserve che il nemico tiene
dietro alle linee di combattimento. Ma se così fosse, se cioè
bastasse il solo airpower, allora il fuoco di interdizione a livello operativo
dovrebbe bastare per bilanciare un’inferiorità tattica, e quindi
l’airpower americano potrebbe permettere anche ad alleati non addestrati
di prevalere senza che vi sia bisogno di eliminare obiettivi coperti o camuffati16.
Ma c’è un problema: un’offensiva di interdizione può
essere molto potente, ma funziona solo se punta ad indebolire le capacità
di risposta dell’avversario; capacità di risposta che diventano
necessarie solo quando chi attacca è in grado di penetrare le linee
nemiche. Delle truppe che non sono capaci di avanzare sotto il fuoco nemico
non possono certo sfondare le sue linee di difesa e quindi obbligarlo a
rispondere. Dunque il problema non si pone.
Per essere più chiari: chi attacca concentra la propria forza su
un determinato punto in modo da creare una temporanea preponderanza numerica
e cercare il breakthroug (lo sfondamento, ndt) prima che i nemici possano
spostare dei rinforzi in quell’area. Il fuoco di interdizione, in
offesa, serve proprio per ostacolare il sopraggiungere di questi rinforzi
e così favorire il tentativo di sfondamento17. Ma se chi attacca
non è in grado di avanzare contro il fuoco nemico, allora chi difende
può fermare qualunque attacco, anche numericamente superiore, senza
bisogno di alcun rinforzo. E se i rinforzi non sono necessari, allora la
capacità di interdizione diventa irrilevante.
Maggiore è l’incompetenza tattica di chi attacca, minore è
il bisogno di rinforzi (per chi difende). E minore è il bisogno di
rinforzi, minore sarà la differenza che il fuoco di interdizione
sarà in grado di fare sull’esito del conflitto.
Il modello afgano, dunque, per ribaltare uno svantaggio tattico, deve essere
in grado o di evitare il combattimento diretto tra le nostre truppe di terra
e quelle avversarie, o per lo meno di rendere il suo esito favorevole alla
nostra parte. Per Andres, Wills e Griffith è esattamente quello che
accade, visto che il modello avrebbe dimostrato di riuscire ad annichilire
le difese avversarie (anche addestrate) prima che i nostri alleati si espongano
al loro fuoco.
Purtroppo non c’è alcuna prova che il modello afgano funzioni
in questa maniera. Esso è stato usato sia in Afghanistan che in Iraq,
dove si è dimostrato particolarmente efficace nell’assistere
alleati competenti e nel distruggere preventivamente nemici non addestrati.
Ma è anche stato usato contro difese ben preparate e organizzate,
precisamente nel corso dell’ultima fase della campagna afgana: e in
questo caso i risultati sono stati ben diversi. Il modello non ha permesso
di distruggere in misura sufficiente le posizioni nemiche, e quindi gli
scontri tra le nostre forze di terra e quelle avversarie non sono stati
evitati. Ma non solo: esso non ha neppure consentito ai nostri alleati di
vincere quelle battaglie.
Il modello afgano a Kabul
In
Afghanistan i due fronti comprendevano al loro interno un eterogeneo insieme
di combattenti addestrati e non. E ciò permette di osservare il funzionamento
del modello afgano con differenti mix di capacità tattiche tra le
forze di terra.
L’alleanza talebana comprendeva almeno tre distinti sottogruppi: quello
delle milizie indigene afgane (con potenzialità tattiche fortemente
limitate); quello degli stranieri (talebani) meglio addestrati e più
motivati; e quello degli stranieri addestrati nei campi di al Qaeda. Campi
che, sebbene spesso descritti come campi di addestramento per terroristi,
producevano in realtà una fanteria convenzionale. L’altra parte
era altrettanto eterogenea. Le più recenti reclute locali erano poco
o nulla addestrate. Milizie di più lungo corso come quelle di Abdul
Rashid Dostum e Atta Mohammed comprendevano professionisti in alcuni casi
ben addestrati, ma in altri meno. Alcuni di essi per esempio erano in grado
di coordinare fuoco e manovra e quindi di ridurre l’esposizione al
fuoco nemico. I migliori erano i professionisti occidentali: prima le sof
(gruppi di élite) e poi la fanteria occidentale18.
All’inizio della campagna i talebani dispiegarono sulle linee di combattimento
le truppe meno preparate. Queste truppe, composte per lo più di afgani
poco addestrati, si posizionarono in modo rigido, concentrato e senza camuffamenti.
Le trincee erano spesso azzardate e senza coperture dal cielo, mentre i
veicoli e la fanteria erano ben visibili nei loro movimenti. Il risultato
fu il seguente: identificate anche da distanze enormi, esse furono neutralizzate
dal fuoco di precisione americano19. Praticamente senza alcun combattimento
diretto. A Bishqab, il 21 ottobre 2001, per esempio, le sof statunitensi
localizzarono alcuni obiettivi talebani a più di otto chilometri
di distanza. A Cobaki, il 22 ottobre, le postazioni talebane furono identificate
a 1.500-2.000 metri e quindi distrutte dal fuoco alleato. A Zard Kammar,
il 28 ottobre, furono spazzate via a un miglio di distanza. A Ac’capruk,
il 4 novembre, alcuni veicoli talebani non camuffati e situati sulle colline
occidentali del fiume Balkh furono localizzati dalle postazioni delle sof
a Koh-i-Almortak, in linea d’aria a 4-5 chilometri di distanza e quindi
annientate dai bombardamenti aerei.
Con il proseguimento della campagna, a queste truppe poco addestrate subentrarono
però quelle più competenti, tenute in serbo dai talebani proprio
per le battaglie più importanti. Ed esse, specialmente i veterani
di al Qaeda, furono ben più difficili da localizzare e quindi da
neutralizzare, in quanto adottarono fin da subito delle contromisure (il
sistema moderno in difesa, ndt) per ridurre la propria esposizione al fuoco
nemico, che non a caso da allora iniziò ad essere assai meno efficace
di quanto non fosse stato durante le battute iniziali, costringendo così
in maniera crescente a degli scontri diretti.
A Bai Beche, il 5 novembre, per esempio, una forza in maggior parte composta
da combattenti di al Qaeda occupò un vecchio sistema di trincee.
Le sue postazioni di fuoco, coperte e camuffate, non poterono essere localizzate
dalle sof americane che furono così costrette a chiamare un bombardamento
a tappeto di due giorni lungo tutta quella linea di difesa. Al suo termine,
la cavalleria dell’Alleanza del Nord di Dostum procedette all’attacco
via terra, ma le truppe di al Qaeda furono in grado di sopravvivere in tale
misura (a quel bombardamento, ndt) che riuscirono addirittura a respingere
l’offensiva. Di fronte all’insuccesso, le sof chiesero nuovi
bombardamenti aerei in modo da preparare un secondo assalto. Ma nel corso
di questa operazione, l’ordine di tenersi pronti per un nuovo attacco
fu mal interpretato, con il risultato che la cavalleria sopraggiunse sulle
linee nemiche proprio mentre una serie di bombe da 300 chilogrammi cadauna
veniva sganciata dagli aerei americani contro le linee talebane. I capi
delle forze speciali, nei loro rapporti, ammisero l’errore: il rilascio
delle bombe e l’avanzata della cavalleria avvennero a distanza troppo
ravvicinata, in contrasto dunque con le regole di ingaggio. Le bombe colpirono
infatti il suolo pochi secondi prima dell’arrivo della cavalleria
che finì per entrare nel campo avversario tra enormi nuvole di fumo
e polvere sorprendendo gli stessi qaedisti che, a loro volta, temendo di
restare accerchiati, si diedero alla ritirata. La vittoria a Bai Beche avrebbe
poi spostato completamente gli esiti del conflitto tanto da condurre direttamente
al crollo di Mazar-e-Sharif. Ma la battaglia comprese durissimi combattimenti
e il risultato fu veramente di misura. L’assalto fu infatti favorito
da una fortissima integrazione del movimento e del fuoco di soppressione:
ma molto più forte di quanto le capacità della cavalleria
potessero permettere (e molto più forte di quanto le stesse truppe
americane fossero autorizzate a fare).
Il punto però è un altro: Bai Beche non fu un caso unico.
A Konduz, alla fine di novembre, al Qaeda costrinse le nostre forze alla
ritirata almeno tre volte20. A dicembre, lungo l’autostrada 4 a sud
di Kandahar, le forze di al Qaeda, sfruttando la loro copertura, riuscirono
a far ripiegare un’avanzata alleata. Un contrattacco portato avanti
nella stessa area dai combattenti di Osama bin Laden fu in grado di avvicinarsi,
senza essere scoperto, fino a 100-200 metri dalle postazioni alleate. O
ancora, nel villaggio di Sayed Slim Kalay, a nord di Kandahar, tra il 2
e il 4 dicembre, delle truppe di al Qaeda non furono rilevate fino a quando
non aprirono il fuoco su forze alleate e americane che ne ignoravano evidentemente
la presenza.
Tra tutti questi esempi, l’operazione Anaconda e i combattimenti lungo
l’autostrada 4 sono particolarmente istruttivi per il ruolo che gli
afgani vi hanno avuto. Nel corso della prima, ad una forza poco addestrata
sotto il comando del generale Mohammed Zia e supportata dalle sof americane,
fu assegnata la limitata missione di scacciare le forze di al Qaeda dalla
zona delle “tre città” (i villaggi di Shirkankeyl, Babakuhl,
e Marzak, nella piana della valle di Shah-i-kot). Questo gruppo, però,
fu respinto e costretto alla ritirata: la missione sarebbe poi stata portata
a termine dalla fanteria occidentale.
Lungo l’autostrada 4, nel dicembre, gli alleati afgani degli Stati
Uniti furono divisi in due fazioni. La prima, comandata da Haji Gul Alai,
era composta di truppe particolarmente capaci, almeno per gli standard afgani.
Esse ricorrevano alla copertura e al camuffamento, mantenevano buoni intervalli
tra gli elementi in avanscoperta ed erano dispiegati per gruppi alternati,
così da utilizzare il fuoco di soppressione per coprire i gruppi
in movimento, e sfruttavano i bombardamenti americani per coordinare le
loro azioni. La seconda fazione, al contrario, era molto meno preparata:
il comandate delle sof con cui esse operavano parlava dei suoi membri come
di una «folla armata – campagnoli a cui erano state date delle
armi». I loro movimenti erano ben visibili, non protetti, senza alcun
tentativo di sfruttare la morfologia del suolo per ridurre la propria esposizione
al fuoco nemico, e senza alcun ricorso al fuoco di sostegno e di soppressione
per proteggere le proprie avanzate. Il risultato fu che le truppe di Gul
Alai, quelle più addestrate, si sobbarcarono tutti i combattimenti.
Sul ponte di Arghestan, il 5 dicembre, la seconda fazione lanciò
però un attacco contro una trincea di al Qaeda situata a sud dell’aeroporto
di Kandahar. Respinta ripetutamente, questa fazione non riuscì a
completare la propria missione, nonostante il supporto aereo americano.
Quella postazione sarebbe caduta il giorno seguente, quando a quelle truppe
subentrarono quelle di Gul Alai.
La campagna afgana, pertanto, offre significativi mix di competenze tattiche
tra le forze di terra. Quando gli alleati indigeni degli Stati Uniti hanno
affrontato avversari non addestrati, come accadde a Bishqab, Cobaki, Zard
Kammar e Ac’capruk, il modello afgano si è dimostrato terribilmente
efficace: le difese avversarie vennero distrutte a distanze di sicurezza,
e il ricorso a combattimenti ravvicinati ridotto al minimo. Le capacità
delle forze alleate di terra furono quindi irrilevanti. Quando invece gli
alleati statunitensi dovettero confrontare avversari meglio addestrati,
come successe a Bai Beche, a Konduz, lungo l’autostrada 4, a Sayed
Slim Kalay, e durante l’operazione Anaconda, il fuoco di precisione
non fu sufficiente. E così fu necessario ricorrere agli scontri a
fuoco ravvicinati. Laddove le forze di terra amiche erano addestrate meglio
dei loro nemici, come per esempio la fanteria occidentale durante l’operazione
Anaconda, questi scontri furono vinti facilmente. Quando le truppe amiche
non erano superiori a quelle avversarie ma si dimostrarono comunque in grado
di ridurre la loro esposizione e di coordinare il loro movimento con un
fuoco di soppressione, per esempio a Bai Beche e sull’autostrada 4,
i risultati furono sul filo di lama, ma alla fine a favore degli Stati Uniti.
Quando al contrario le truppe alleate erano tatticamente inferiori a quelle
avversarie, come sul ponte di Arghestan e nel corso dell’attacco lanciato
dal comando di Zia durante l’operazione Anaconda, il modello non ha
funzionato, nonostante il supporto dell’aeronautica americana.
Il modello afgano in Iraq
In Iraq
il grosso dei combattimenti fu portato avanti dalle forze convenzionali
americane e britanniche. Il modello afgano fu usato solo nel nord, con un
obiettivo abbastanza limitato: tenere occupate le difese irachene in modo
da evitare che esse venissero spostate a sud dove si svolgeva il nucleo
dell’operazione alleata (obiettivo raggiunto solo parzialmente visto
che buona parte delle formazioni della Guardia Repubblicana poterono essere
dispiegate a sud: alcune di esse sarebbero state distrutte dall’aeronautica
americana mentre si dirigevano verso Baghdad e Tikrit; altre, invece, riuscirono
effettivamente ad arrivare in tempo per contrastare l’avanzata della
coalizione alleata). In Iraq e in Afghanistan, quindi, il modello dovette
confrontarsi con un esercito regolare, le cui capacità militari,
come Andres, Wills e Griffith rilevano, erano molto limitate. La Guardia
repubblicana, al contrario, per quanto non composta di “rambo”,
avrebbe presumibilmente sconfitto le poco addestrate milizie curde. Ma essa,
a nord come altrove, era stata ben disposta nelle retrovie: il dispiegamento
arretrato da una parte e la successiva partenza dall’altra le impedì
pertanto di confrontarsi con i nostri alleati curdi. Contro postazioni irachene
ma protette e fatte di coscritti scarsamente addestrati, il modello afgano
funzionò proprio come aveva fatto nelle prime fasi della campagna
afgana: in maniera impeccabile. Gli iracheni, come i talebani, si posizionarono
in punti ben visibili; poco e mal protetti, e quasi per nulla coperti. In
altre parole, su posizioni facilmente identificabili dalle sof americane:
vicino a Kirkuk, tanto per fare un esempio, l’Ottava divisione irachena
fu localizzata e colpita da una quindicina di chilometri di distanza. Senza
contare poi che gli iracheni erano soliti scappare senza curarsi dell’avanzata
avversaria, dopo che le loro postazioni venivano colpite, consentendo così
alla fanteria alleata di procedere senza doversi proteggere dal fuoco nemico.
In conclusione, l’Iraq non convalida assolutamente l’ipotesi
secondo la quale il modello afgano sarebbe in grado di sopraffare un’opposizione
addestrata e competente. Personalmente non conosco in Iraq casi nei quali
il modello afgano abbia incontrato difese adeguatamente preparate e attivamente
in grado di resistere all’attacco. In Afghanistan, al contrario, ciò
è successo: e in quei casi il modello non è riuscito né
ad evitare i combattimenti ravvicinati né a far avanzare degli alleati
tatticamente inferiori ai loro avversari.
Né la campagna afgana né quella irachena confermano quindi
la tesi secondo la quale il modello afgano sarebbe in grado di ribaltare
una manifesta inferiorità tattica, e anzi: l’Afghanistan dimostra
addirittura il contrario. D’altronde Andres, Wills e Griffith non
offrono alcun argomento a favore della loro tesi. Per quanto riguarda l’Afghanistan,
non presentano neppure un caso concreto a loro favore, anche se poi si preoccupano
di notare come due sconfitte alleate (Tora Bora e Zia durante Anaconda)
fossero in realtà missioni che eccedevano le capacità degli
alleati, e quindi non sia stato corretto affidarle a loro. Ciò, comunque,
non dimostra che degli alleati tatticamente deboli possono avere successo
in missioni particolarmente complicate.21 I tre studiosi, inoltre, ignorano
l’ampia evidenza di combattimenti ravvicinati avvenuti in Afghanistan,
evidenza che metterebbe a dura prova la loro tesi. Per quanto riguarda l’Iraq
Andres, Wills, e Griffith citano invece solo due casi di combattimento.
Di uno non viene data alcuna informazione sulle capacità militari
degli iracheni. Per quanto riguarda l’altro, i tre studiosi affermano
che il 3 aprile 2003 la milizia curda, insieme alle sof statunitensi, sconfisse
un contrattacco lanciato dalla Guardia repubblicana (il cui addestramento
era presumibilmente superiore a quello dei curdi)22.
Il problema è che non è chiaro se il nemico fosse realmente
la Guardia repubblicana. Per confermare questa affermazione Andres, Wills,
e Griffith citano il capitano sof al comando dei dodici soldati americani
coinvolti in quel combattimento. Eppure il capo della sezione intelligence
del Combined Joint Special Operations Task Force North (il team che pianificava
i movimenti di quella sof) ha affermato che la squadra non ha incontrato
la Guardia repubblicana nel corso dell’Operazione Iraqi Freedom. Dato
implicitamente confermato dal vicecomandante e da diversi ufficiali di quella
stessa sof. Pertanto, in Iraq non sembra esserci una chiara conferma alla
tesi secondo la quale il modello afgano sarebbe in grado di ovviare uno
svantaggio tattico. In Afghanistan, invece, non ci sono dubbi: ciò
non è proprio mai avvenuto.
Non essendoci alcuna chiara conferma a questa ipotesi, possiamo procedere
indagando il secondo elemento del modello afgano: il bombardamento di precisione.
La domanda è se esso sia solo un fattore marginale o meno. La risposta
è troppo semplice: certo che no, esso non è un fattore marginale.
Ma bisogna allo stesso tempo avere anche ben chiaro che la sua efficacia
si sprigiona solo attraverso la un’adeguata interazione sinergica
con le truppe di terra. Laddove queste ultime (specie se ben addestrate)23
ne possono sfruttare la forza, il fuoco aereo di precisione diventa tremendamente
letale.
Quando infatti sia la componente di terra che quella di aria contribuiscono
al massimo allo sforzo bellico, il risultato eccede ampiamente la singola
somma delle parti. Ma quando anche solo uno dei componenti è assente
o inadatto, il risultato è molto differente.
Le forze di terra e di aria sono infatti potentissime se integrate, ma non
sono in grado di sostituirsi a vicenda.
Il contributo di Andres, Wills e Griffith, nonostante tutte le mie obiezioni,
resta comunque importante, soprattutto per l’analisi sul fuoco di
interdizione24. A mio modo di vedere, i tre autori esagerano soprattutto
nel tracciare i confini di applicabilità del modello afgano: che
per loro è più ampia, mentre per me è più ristretta.
E questo dato è particolarmente importante, perché se il modello
afgano può essere applicato con minor frequenza di quanto Andres,
Willis e Griffith ritengono, allora le implicazioni pratiche che esso ha
sulla ristrutturazione delle nostre forze armate sono nettamente differenti.
Una ristrutturazione che si affidi enormemente sul manpower indigeno e sul
fuoco di precisione a lunga distanza (sfavorendo di conseguenza le capacità
di combattimento ravvicinato) va nella direzione sbagliata.
Non voglio dire che la campagna afgana sia stata un colpo di fortuna o che
il modello possa funzionare solo in teatri che riproducono in tutto e per
tutto l’Afghanistan. (Per esempio nella penisola coreana il modello
afgano potrebbe risultare vincente e pertanto esso può costituire
una parte importante della nostra strategia). Ma esso è e rimane
solo uno strumento che presenta numerosi limiti. Limiti che, se sottostimati,
possono portare a dei clamorosi fallimenti.
Note
1.
Si veda per esempio, Michael Gordon, “New’ U.S. War: Commandos,
Airstrikes, and Allies on the Ground”, New York Times, December 29,
2001; John Hendren, “Afghanistan Yields Lessons for Pentagon’s
Next Targets,” Los Angeles Times, January 21, 2002; Rowan Scarborough,
“Pentagon Uses Afghan War as Model for Iraq,” Washington Times,
December 4, 2001; Fareed Zakaria, “Face the Facts: Bombing Works,”
Newsweek, December 3, 2001, p. 53; James Webb, “A New Doctrine for
New Wars,” Wall Street Journal, November 30, 2001; Michael Kelly,
“The Air-Power Revolution,” Atlantic Monthly, Vol. 289, No.
4 (April 2002), pp. 18.
2. Si veda, per esempio, Alan Sipress and Peter Slevin, “Powell Wary
of Iraq Move,” Washington Post, December 21, 2001; Donald Rumsfeld,
“Transforming the Military,” Foreign Affairs, Vol. 81, No. 3
(May/June 2002), pp. 20-32, at p. 22; Kim Burger and Andrew Koch, “Afghanistan:
The Key Lessons,” Jane’s Defence Weekly, January 2, 2002.
3. Stephen Biddle, “Afghanistan and the Future of Warfare,”
Foreign Affairs, Vol. 82, No. 2 (March/April 2003), pp. 31-46; Stephen Biddle,
Afghanistan and the Future of Warfare: Implications for Army and Defense
Policy (Carlisle, Pa.: Strategic Studies Institute, U.S. Army War College,
November 2002) (di qui in avanti: Biddle, Afghanistan).
4. Tutti e tre docenti presso la School of Advanced Air and Space Studies,
dell’Aviazione americana, ndt.
5. Richard B. Andres, Craig Wills, and Thomas Griffith Jr., “Winning
with Allies: The Strategic Value of the Afghan Model,” International
Security, Vol. 30, No. 3 (Winter 2005/06), pp. 124–160, at p. 159.
6. Andres, Wills and Griffith, “Winning with Allies”.
7. Stephen Biddle, Afghanistan, pp. 6, 49.
8. Si veda, per esempio, U.S. Secretary of Defense Donald Rumsfeld, testimony
before the Senate Appropriations Subcommittee on Defense, 108th Cong., 1st
sess., May 14, 2003, p. 3; U.S. Deputy Secretary of Defense Paul Wolfowitz,
testimony on Iraq Reconstruction, Senate Foreign Relations Committee, 108th
Cong., 1st sess., May 22, 2003, pp. 2, 7; and Max Boot, “The New American
Way of War,” Foreign Affairs, Vol. 82, No. 4 (July/August 2003), pp.
41-58.
9. Si veda per esempio, Hans Binnendijk and Stuart Johnson, Transforming
for Stabilization and Reconstruction Operations (Washington, D.C.: National
Defense University Center for Technology and National Security Policy, 2003);
Andrew Krepinevich, Operation Iraqi Freedom: A First-Blush Assessment (Washington,
D.C.: Center for Strategic and Budgetary Assessments, 2003), p. 28.
10. Ciò non vuole dire che ristrutturare l’esercito per dotarlo
di capacità di counterinsurgency è sbagliato – ciò
dipende sulla differente visione che ognuno ha sulla Gran Strategy americana
e sulla relativa importanza della counterinsurgency e di altre contingenze.
Ma Andres, Wills e Griffith ritengono che questo processo non comporti dei
rischi visto che le capacità di combattimento ravvicinato sono in
surDaily, data la letalità del modello afgano. Se ho ragione, invece,
non ci sono opportunità di trasformazione che non comportano rischi.
11. Il modello afgano, se applicato in Siria o Iran, metterebbe a dura prova
l’esercito americano, visto che le sof necessarie sono pesantemente
impegnate in Afghanistan e Iraq. Ma comunque dirottare verso un nuovo obiettivo
le sof sarebbe molto meno costoso che non spostare le forze convenzionali
che sarebbero richieste per un’invasione ortodossa, soprattutto se
l’obiettivo fosse un regime facilmente ribaltabile come in Afghanistan.
12. Ciò non implica però che Stati come Siria o Iran sono
immuni dall’azione militare americana fino a quando la guerriglia
irachena non terminerà. Sono infatti molte le possibilità
che restano sul tavolo: da bombardamenti punitivi a rotazioni delle truppe
in Iraq che possano permettere di liberare forze da utilizzare altrove.
Ma i costi di queste azioni potrebbero essere molto più alti, e i
loro effetti meno decisivi, e i loro rischi decisamente maggiori, di quanto
accadrebbe se il modello afgano fosse in grado di abbattere dei regimi senza
creare un guerriglia successive, cosa che Andres, Wills e Griffith ammettono
implicitamente.
13. Per skill (capacità, ndt), intendo l’abilità di
ridurre l’esposizione al fuoco avversario attraverso uno spacifico
insieme di tecniche che altrove ho definito il modern system di dispiegamento
delle truppe. Vedi Stephen Biddle, Military Power: Explaining Victory and
Defeat in Modern Battle (Princeton, N.J.: Princeton University Press, 2004).
Il volume offre una teoria su queste specifiche tecniche che riescono a
contrastare le innovazioni tecnologiche e la preponderanza numerica. Per
brevità, e dato il suo uso nel mia analisi sull’Afghanistan,
uso il termine skill come un indicatore riassuntivo della capacità
di impiegare il modern system come inteso nel mio Military Power (soprattutto
l’abilità di utilizzare la morfologia del suo per copertura
e camuffamento e quella di coordinare movimento e fuoco di soppressione).
In ogni caso, nelle righe che suguono si specificano queste tecniche, e
l’analisi verte solo su quelle osservate. Il saltuario riferimento
al termine skill è necessario per presentare la mia tesi in modo
compatto, anche se ciò che io sostengo si basa sull’evidenza
osservata, non su giudizi soggettivi.
14. Andres, Wills and Griffith, “Winning with Allies,” p. 145.
15. Per una discussione più approfondita, si veda Biddle, Military
Power, chap. 3.
16. Andres, Wills e Griffith sostengono inoltre che l’airpower ha
costretto i talebani alla dispersione, in quanto avrebbe indebolito le loro
difese per un attacco di terra. In primo luogo, la dispersione in quanto
tale non indebolisce la difesa convenzionale. Al contrario, essa è
essenziale per sfruttare la copertura offerta dal terreno e per ridurre
la propria esposizione al fuoco nemico, tanto che è stata parte integrale
di tutti i sistemi tattici che hanno avuto successo a partire dalla prima
guerra mondiale. Si veda Biddle, Military Power, chap. 3. Certo, la dispersione
può risultare, se eccessiva, controproducente. Ma la copertura da
un attacco aereo non deve necessariamente trasformarsi in una dispersione
incontrollabile (che quindi non permetta più il controllo delle truppe
da parte di chi ne ha il comando, ndt): quella necessaria per nascondersi
da un attacco aereo non è infatti radicalmente più grande
di quella necessaria per contrastare un attacco di terra: le posizioni “disperse”
di al Qaeda nella valle Shah-i-kot, nel marzo 2002, hanno dimostrato di
essere sufficienti sia da neutralizzare l’efficacia dei bombardamenti
americani che da sconfiggere l’avanzata degli alleati usa nel giorno
d’inizio dell’operazione Anaconda. Il luoco comune per cui una
minaccia di terra costringerebbe il nemico alla concetranzione, offrendo
così degli ottimi bersagli per gli attacchi aerei, è totalmente
falso. La minaccia di terra aumenta l’efficacia dell’airpower
ma costringendo il nemico al movimento, movimento che la forza aerea può
interdire, non certo costringendo il nemico a combattere all’aperto
(cosa che creerebbe un’esposizione suicida al fuoco nemico sia di
terra che aereo). Si noti inoltre che la differente concentrazione che chi
invade un teatro di guerra utilizza per creare un vantaggio numerico in
un determinato punto di attacco non richiede un’elevata densità
di truppe sul terreno (visto che essa impedirebbe loro di coprirsi). Esso
è tipicamente ottenuto replicando multiple ondate di attacco che
colpiscono le difese nemiche in modo sequenziale, cosa che permette ad ognuna
di esse lo spazio necessario per restare coperti e camuffati. Per un’analisi
più dettagliata, si veda Stephen Biddle, David Gray, Stuart Kaufman,
and Dennis DeRiggi, Defense at Low Force Levels: The Effect of Force to
Space Ratios on Conventional Combat Dynamics, IDA P-2380 (Alexandria, Va.:
Institute for Defense Analyses, 1991).
17. In linea di principio, l’interdizione può anche prevenire
il rifornimento, “affamando” così le difese nemiche senza
neppure un’invasione di terra. Le preoccupazioni di carattere umanitario
limiteranno però la volontà americana di affamare i civili
che inevitabilmente si troveranno tra le difese urbane nemiche, come accaduto
in Iraq. In pratica, quindi, l’interdizione è stata raramente
in grado di affamare le difese nemiche senza che vi sia stata anche la pressione
di un attacco di terra: in Afghanistan, per esempio, questa tattica ha avuto
poco successo fino a quando le forze di terra non hanno minacciato Mazar-e-Sharif.
Biddle, Afghanistan, pp. 21-23, 34-35.
18. On the skills of Afghan combatants, see ibid., pp. 13-16, 19-21, 26-43.
19. Nota del traduttore: di qui in avanti tutte le affermazioni del dr.
Biddle sono confermate da una serie di interviste che egli stesso ha condotto
e che hanno riguardato decine di militari di diversi gradi che hanno partecipato
alle battaglie in discussione (sia in Afghanistan che in Iraq). Esse sono
disponibili presso la U.S. Army Military History Institute Operation Enduring
Freedom Research Collection, e Iraqi Freedom. Per brevità e siccome
il materiale è tutto in inglese, evitiamo di riportare le note relative.
Esse appaiono comunque nella versione originale di questo testo, apparsa
sulla rivista International Security.
20. Nota del traduttore: in questo caso la versione di Biddle, e derivante
dalle interviste ch’egli ha sostenuto, differisce nettamente da quella
proposta da Andres, Wills, e Griffith, “Winning with Allies,”
p. 140 n. 67, i quali affermano invece che Konduz fu presa senza combattimenti
ravvicinati.
21. Si noti che a Tora Bora, i combattenti di al Qaeda cercarono di scappare,
non di mantenere le loro posizioni (come cercarono invece di fare durante
Anaconda, nel 2002); e ci riuscirono. Andres, Wills e Griffith, “Winning
with Allies,” p. 149, si veda questa fuga come evidenza del fatto
che anche alleati poco motivati possono guadagnare terreno grazie al fuoco
del modello afgano. È comunque tutt’altro che chiaro se Tora
Bora costituisca o meno un caso di assalto contro un nemico che vuole tenere
le proprie posizioni. Al di là di come stiano realmente i fatti,
come Andres, Wills e Griffith convengono, la missione Americana mirante
a prevenirela fuga dei combattenti qaedisti non ha evidentemente avuto successo.
22. Andres,Wills e Griffith offrono un secondo caso, il Passo di Debecka,
senza rilevare alcuna asimmetria tattica, cosa che quindi non permettere
di suffragare la loro tesi.
23. O dove un’opposizione inetta non rende necessaria la presenza
di truppe ben addestrate, ndt.
24. Questa affermazione (per cui la guerriglia sarebbe causata da un attacco
di tipo convenzionale) è abbastanza superficiale. In Afghanistan,
infatti, la guerriglia è presente. Inoltre, molti analisti ritengono
che la guerriglia irachena oggi sarebbe molto meno forte se nel 2003 fossero
stati portati in Iraq più, non meno, militari. In ogni caso, comunque,
l’analisi di Andres, Wills e Griffith non prova che la differenza
tra la guerriglia (molto più massiccia, ndt) in Iraq e quella afgana
è attribuibile al ricorso al modello afgano.
International
Security, vol. 30, No. 3, Winter 2005/2006, pp. 161-176.
Titolo originale: “Allies, Airpower and Modern Warfare: The Afgan
model in Afghanistan and Iraq”.
(Traduzione
dall’inglese di Valeria Bauducco, adattamento di Andrea Gilli)
Stephen D. Biddle è Senior Fellow for Defense Policy al Council on Foreign Relations ed Elihu Root Chair of Military Studies presso lo Strategic Studies Institute dello U.S. Army War College di Carlisle, Pennsylvania.
(c)
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