Islam contro Islam, lo scontro delle civiltà
di Antonio Donno
Ideazione di settembre-ottobre 2006

In un fondamentale libro del 1999, Efraim ed Inari Karsh avevano sostenuto che la storia del Medio Oriente nel Ventesimo secolo, con le sue turbolenze e le sue crisi, fosse stata scritta non tanto e non solo dalle grandi potenze europee, quanto dagli attori locali. A cominciare dal crollo dell’Impero Ottomano, in conseguenza della sconfitta nella prima guerra mondiale, per giungere fino agli avvenimenti attuali, «gli attori mediorientali non furono le vittime sfortunate della politica predatoria delle potenze imperiali ma parti attive nella ristrutturazione della regione»1. Con il termine “ristrutturazione” i Karsh intendevano la violenza, l’approccio violento che le forze endogene nel Medio Oriente avevano esercitato per risolvere i problemi interni della regione o, meglio, per conseguire la supremazia. In sostanza, la violenza interna allo scenario mediorientale non fu il prodotto del nazionalismo europeo, ma parte integrante della cultura politica della regione ben prima della nascita del nazionalismo europeo alla fine del Diciottesimo secolo ed eredità della tradizione millenaria imperiale propria del Medio Oriente.
Questo, dunque, è il punto. Secondo l’analisi dei Karsh, a partire dai grandi imperi del Mediterraneo e del Crescente Fertile, attraverso gli imperi islamici, fino all’Impero Ottomano, ed oltre, la storia del Medio Oriente è stata costantemente caratterizzata da una lotta per la supremazia interna in cui quello europeo è stato solo uno dei fattori in gioco. L’imperialismo europeo ha avuto un suo ruolo ma non in opposizione ad un presunto nazionalismo arabo, bensì ad un vero e proprio imperialismo arabo ed islamico.
Quando, ad esempio, scoppiò la cosiddetta “grande rivolta araba” contro il dominio ottomano negli anni della Grande Guerra, tale rivolta, dimostrano i Karsh, non tese a liberare gli arabi dal giogo ottomano, non ebbe, cioè, il carattere di una guerra di liberazione nazionale, ma fu il tentativo di Hussein di sostituire al potere imperiale ottomano quello della propria dinastia. Si trattò, perciò, di uno scontro tra due imperialismi.

Fanatismo jihadista e imperialismo arabo
Se si parte da questa premessa interpretativa di fondo, il recente volume di Carlo Panella2 appare decisivo per fornire un’interpretazione finalmente lontana dai triti stereotipi in voga da troppo tempo non solo presso il mondo islamico, ma anche in Occidente, dove l’autofustigazione per i “misfatti” compiuti ai danni dei popoli mediorientali ha ormai raggiunto livelli di masochismo insopportabili. E chiarisce, infine, il ruolo, il significato e le finalità della violenza come fattore endogeno nella storia dei popoli mediorientali almeno a partire dal crollo dell’Impero Ottomano. In sostanza, Panella interpreta la violenza mediorientale come ricerca e pratica del jihad, sin dall’ingresso dell’Impero Ottomano nella prima guerra mondiale, che fu proclamato, appunto, come guerra santa contro gli infedeli. Su questo obiettivo anche gli sciiti, che non riconoscevano l’autorità del califfo sunnita, si mossero uniti, in quanto la lotta contro i cristiani era prioritaria rispetto alle divisioni interne al mondo islamico. Così, Panella concorda con i Karsh nel dire che la “grande rivolta araba” fu ben misera cosa di fronte alla chiamata alle armi per il jihad.
Quando, infine, l’Impero Ottomano crollò, questo crollo non fu attribuito al secolare processo di esaurimento della società islamica e delle sue istituzioni, ma alla perfida alleanza tra l’imperialismo cristiano ed il sionismo: di qui il radicarsi del desiderio di revanscismo nella forma del jihad. È bene chiarire la tesi centrale del libro di Panella: con l’esclusione della guerra del Yom Kippur, che Sadat combatté per riacquistare il Sinai, tutti i conflitti combattuti dai popoli arabo-islamici sono stati «guerre in cui l’elemento di rivendicazione o di conquista territoriale appare secondario rispetto al principio religioso o ideologico. Il fine è quello di imporre la superiorità di un modello di società [e di religione, n.d.a.] (panarabo, panislamista, sciita, sunnita) su un altro»3. Questo concetto rappresenta il filo rosso che percorre tutto il libro di Panella; in sostanza, egli usa il concetto di jihad sia per significare i conflitti interni al mondo arabo ed islamico, sia il più generale e planetario conflitto contro gli infedeli, cioè contro i cristiani e gli ebrei.
Dopo il crollo dell’Impero Ottomano, fu Jamal al Din al Afgani a teorizzare il dovere del musulmano di combattere il jihad contro l’Occidente cristiano e colonialista. In questo senso, il rifiuto di accogliere l’elemento sionista in Medio Oriente rappresentò la cartina di tornasole della volontà del mondo arabo-islamico di combattere non per la terra, cioè per una finalità nazionalistica, ma per la vittoria totale in nome della fede. Si gettarono, così, le basi di quella ideologia estremistica, radicale, fondamentalista che, ai nostri giorni, troverà in bin Laden il suo paladino.
A partire dal 1922 i palestinesi, capeggiati dal Gran Muftì di Gerusalemme, dopo aver eliminato, anche fisicamente, l’elemento arabo favorevole ad un compromesso con i sionisti, si posero al fianco dei nazisti per combattere la guerra santa contro gli ebrei: una comunanza di interessi ideologici veramente rimarchevole: il “jihad” antisemita nazista forniva un perfetto background ideologico per il jihad palestinese contro i sionisti. Fu l’inizio di una decennale lotta ideologica araba contro Israele: rifiuto della politica del compromesso, cioè, in sostanza, di ogni opzione genuinamente nazionalistica in favore del jihad contro gli ebrei. Dal Gran Muftì a Nasser, da Saddam Hussein ad Arafat, il jihad contro Israele fu la parola d’ordine del mondo arabo ed islamico, con le conseguenze disastrose che ne deriveranno per gli arabi. Ma tali disastri, per una perversa coazione a ripetere, non faranno altro che radicalizzare ulteriormente il fanatismo jihadista, e via di questo passo. «Fu l’elemento religioso – afferma Panella – a determinare il rifiuto della politica, del compromesso possibile, e la scelta permanente della via militare, dell’eliminazione dell’avversario»4, cioè il jihad.
Dunque, la scelta palestinese di combattere il jihad contro i sionisti al fianco dei nazisti non solo era dettata da un comune intento, ma si inseriva anche nella tradizione del mondo islamico, a partire dal jihad dichiarato dalla Sublime Porta in occasione della Grande Guerra, e avrebbe trovato conferma in tutte le scelte successive compiute dai vari raìs arabi, fino a Khomeini ed Hamas, ed oggi bin Laden. La stessa Lega Araba, nata nel marzo del 1945, per quanto percorsa da feroci controversie interne dovute alle aspirazioni egemoniche delle varie dinastie arabe in lotta fra di loro, aveva come scopo principale il jihad contro gli ebrei di Palestina. Anzi, con la nascita dei nuovi Stati arabi indipendenti, il jihadismo fu conteso dai vari capi arabi come prerogativa esclusiva dell’uno o dell’altro per conseguire la supremazia sul mondo arabo nella prospettiva dell’unità panaraba o addirittura panislamica.
Questo fu il retroterra di violenza che Panella definisce come jihad interno, di cui porta svariati esempi, tra cui cruciale per tutte le avventure successive (sempre in nome del jihad) fu la lotta cruenta contro il diretto antagonista interno, che Panella chiama costituzionalismo, cioè quelle forze moderate, minoritarie se non marginali, che, comunque, erano espressione di una visione moderata ed incline al compromesso sia con il sionismo che con lo stesso Occidente. Fu il caso del tunisino Bourghiba, la cui proposta politica di riconoscere Israele rimase inascoltata.
Un esempio clamoroso, e sempre equivocato dagli occidentali, fu quello di Nasser. Il “socialismo arabo” del raìs egiziano, che in troppi hanno definito laico per comodità di approccio e forse per illudersi che fosse qualcosa di diverso dal mainstream radicale e fondamentalista, «aveva poco a che vedere con le teorie socialiste e di sicuro non segnò una svolta laicista che allontanasse la società islamica dall’alveo islamico»5. In sostanza, la politica nasseriana era perfettamente in linea con l’ideologia di Al Fatah, dell’Olp, di Arafat, «di cui l’Europa – afferma molto giustamente Panella – ha sempre sottovalutato la profonda matrice islamica e jihadista». Per Panella, la concezione della società e della storia di Nasser, Saddam Hussein, Hafez al Assad e Yasser Arafat è sempre stata rigidamente musulmana e per questo motivo la violenza, interna ed esterna, da loro messa in atto non può che definirsi jihad. Così, per molti anni, il “socialismo arabo” fu soltanto la foglia di fico per mascherare una visione islamista, jihadista della lotta politica per la supremazia nel Medio Oriente.
In particolare, Panella individua saggiamente le fasi cruciali del jihad nasseriano: la creazione con la Siria della Repubblica Araba Unita, sotto la sua egida; l’abbattimento dei regimi costituzionalisti in Iraq, Giordania e Libano e la loro sostituzione con regimi filo-nasseriani nella prospettiva della creazione di una grande nazione araba con a capo il raìs egiziano; la distruzione di Israele, come dimostrazione del ruolo egemone dell’Egitto nella guerra contro il sionismo. Le operazioni condotte da Nasser in Medio Oriente, afferma Panella, fallirono ma furono seguite da analoghi tentativi da Assad in Siria e più tardi da Saddam Hussein in Iraq. In sostanza, «ad affermarsi […] sarà il panarabismo con le caratteristiche totalitarie delle componenti egizio-iracheno-siriana, in apparenza laica, e saudita, dichiaratamente musulmana»6 e jihadista. Questa componente totalitaria di matrice islamica troverà un’utile sponda nel totalitarismo sovietico, per quanto le analisi americane del tempo assicurassero – quale errore! – che il cosiddetto nazionalismo arabo fosse sordo alle sirene del comunismo. Così, Nasser, sostenuto dai sovietici e grazie anche al denaro americano, continuò il suo jihad laico, puntando sulla guerra «come settore primario di investimento, innanzitutto ideologico»7.
La stessa logica ha ispirato per decenni l’azione di Arafat. Arafat non fu mai un leader nazionalista nel senso classico del termine, il suo obiettivo non era la creazione di uno Stato palestinese da perseguire attraverso gli strumenti della politica. La politica, per Arafat, era solo la copertura per un obiettivo ben più ambizioso. Come giustamente hanno sostenuto Barry Rubin e Judith Colp Rubin, «i suoi modelli non erano i leader o i teorici nazionalisti arabi, ma le lotte dei primi musulmani per i quali era accettabile soltanto la vittoria totale sugli infedeli e sui crociati»8. Arafat, sostiene Panella, fu il nuovo Gran Muftì dei palestinesi e da quest’ultimo egli ereditò il radicale antisemitismo, ruotante intorno all’eterno cliché del “complotto ebraico”. La posizione di Arafat era chiara, in quanto non si discostava per nulla dal «rifiuto religioso, coranico, metastorico, dell’ipotesi stessa che gli ebrei, i dhimmi, coloro che complottano da sempre contro la polis musulmana, possano avere un loro stato, a Gerusalemme»9. Anche nel Libro nero Panella dedica pagine importanti al jihadismo di Arafat, come pure al continuatore del jihadismo laico di Nasser, l’iracheno Saddam Hussein.

Dalla crisi del califfato a Osama bin Laden
Con l’ascesa al potere di Khomeini in Iran, il jihad teocratico compì un salto di qualità. Nello stesso tempo, la posizione ambigua del Pakistan e la diffusione, in quello Stato, del verbo dell’ayatollah contribuì in modo sostanziale alla diffusione del modello khomeinista di jihad. In Afghanistan i talebani proposero ed applicarono con il massimo rigore la loro versione del jihad. Che la gente fosse di fede sunnita o sciita, il jihad, dopo la rivoluzione khomeinista, si rafforzò, anche teoricamente, come strumento privilegiato di lotta sia all’interno che verso l’esterno. All’interno del mondo arabo i movimenti espansionistici di Saddam Hussein crearono una frattura profonda: la sua lotta contro i regimi arabi “laici” per l’egemonia sul Medio Oriente favorì la crisi verticale della legittimità politica ed ideologica di quegli stessi regimi e la conseguente ascesa impetuosa dell’opzione fondamentalista come vera opzione unificante del mondo islamico. Da questo punto di vista, Panella afferma che le due risposte che nel corso degli anni furono date alla crisi del califfato, quella fondamentalista wahabita-salafita (bin Laden) e quella “laica” (Nasser, Assad, Saddam Hussein), a partire dal 1990 finirono per intrecciarsi e coincidere «in una comune scelta totalitaria e jihadista»10. Fu Hassan al Turabi a suggellare l’intesa. Il 25 aprile 1991 egli organizzò a Khartoum una conferenza che sancì la riunificazione dei due filoni jihadisti: erano presenti gli emissari di Saddam, quelli di Osama, i Fratelli Musulmani, Arafat, lo stesso al Turabi e i capi di molte tra le più importanti moschee d’Europa. Quando a Camp David, nel luglio del 2000, Arafat rifiutò un accordo storico con Israele, lo fece in nome del nuovo jihad. Questa volta lo strumento non furono le pietre, ma i martiri suicidi: l’ideologia khomeinista, veicolata attraverso gli Hezbollah e Hamas, aveva trionfato nel contesto palestinese. La rivoluzione iraniana era divenuta il vero modello generale per il mondo arabo ed islamico; con essa «l’integralismo islamico si impone mobilitando sotto le sue bandiere milioni di iraniani e – soprattutto – riesce a fondare un modello di Stato musulmano radicalmente nuovo che fornisce un concreto e attivo punto di riferimento»11.
Ma questo esito può essere considerato soltanto come la risposta del mondo islamico all’imperialismo occidentale? O è soprattutto il frutto di un movimento interno a quel mondo fin dalla nascita dell’Islam? Efraim Karsh nel suo ultimo libro fornisce un quadro convincente ed assai documentato di questo fenomeno, confermando e rafforzando le tesi di Panella12. Secondo Karsh, le influenze esterne non costituirono le forze principali che causarono la crisi della società mediorientale, bensì la lunga tradizione imperiale – ed imperialistica – presente nella regione da tempo ben più lungo rispetto alla controparte europea. Karsh è esplicito a questo proposito: «Dal primo impero arabo-islamico della metà del Settimo secolo sino agli Ottomani, l’ultimo grande impero musulmano, la storia dell’Islam è stata la storia dell’ascesa e della caduta di imperi universali e, fatto non meno importante, di sogni imperialisti»13. Questa storia secolare fu caratterizzata da una lotta intestina in cui la potenza dominante tendeva al controllo pieno della regione per mezzo della sottomissione delle forze endogene concorrenti, le quali, tuttavia, non furono mai soggiogate in modo così completo da non provocare processi degenerativi di frammentazione. Tutto ciò fu particolarmente evidente negli ultimi anni del potere ottomano, quando il sogno imperiale della Sublime Porta si infranse a causa della disastrosa decisione di entrare nella Grande Guerra e della contemporanea emersione di potenti forze centrifughe disgreganti.
L’analisi di Panella prende le mosse proprio da questo periodo cruciale, condividendo in pieno l’assunto iniziale di Karsh, secondo il quale «le due dottrine in competizione del pan-islamismo e del pan-arabismo hanno tentato di riempire il vuoto lasciato dal collasso dell’Impero Ottomano»,14 per quanto il pan-arabismo abbia avuto ambizioni meno universalistiche rispetto al pan-islamismo. Ma, alla stessa stregua dei secoli precedenti, anche il periodo successivo alla fine della prima guerra mondiale vide il trionfo della violenza intestina al mondo arabo ed islamico; la tensione tra il centro e la periferia si manifestò – afferma Karsh – nel tentativo di ascesa al potere regionale ed all’ambizione imperiale di dinastie locali o di raìs nazionali, come dimostra anche l’analisi di Panella. Dunque, la retorica tutta occidentale sul presunto nazionalismo arabo non ha fondamento. Ancora Karsh: «I leader arabi e gli ideologi islamisti convinsero sistematicamente i loro popoli a pensare che l’esistenza indipendente dei loro rispettivi Stati era un’aberrazione temporanea che sarebbe stata sanata in breve tempo»15. Le pagine che Panella dedica alle mire “imperiali” dei leader “laici” come Nasser, Assad, Saddam Hussein, della dinastia saudita, e di tutti gli ideologi islamisti, fino al successo dell’impresa di Khomeini ed oggi alle ambizioni di un bin Laden di ridar vita al califfato, dimostrano come la storia del Medio Oriente, prima e dopo il crollo della Sublime Porta, sia stata un susseguirsi di violente crisi interne per il potere sull’intera regione.
Mentre Karsh parte da molto lontano, dalla conquista della penisola arabica da parte di Maometto, Panella concentra la sua analisi sul periodo che va dal crollo della Sublime Porta ad oggi. Ma il taglio interpretativo è il medesimo. Per i due autori il jihad, interno ed esterno, è stato lo strumento, ma anche il fine, dell’imperialismo islamico; infatti, il jihad, la guerra santa, per il fatto di essere il veicolo della diffusione della vera fede per tutta l’umanità, conteneva in sé gli elementi finalistici di una conversione globale che avrebbe dato vita alla umma universale. Ma, argomentano i due autori, questo finalismo non poteva che diffondere uno stato perenne di violenza sia all’interno della comunità islamica che all’esterno.
I movimenti centrifughi che hanno costellato la storia del Medio Oriente musulmano ed i tentativi di ricreare un’unità sotto l’egida del raìs “laico” di turno o dell’ideologo islamista lo stanno a dimostrare; ma dimostrano anche che la progressiva decadenza degli imperi arabi, fino al crollo di quello ottomano, sono dovuti solo in misura minore all’intervento del mondo cristiano ed in massima parte al processo di continua disgregazione dovuta alla violenza endemica interna al mondo islamico, di cui Karsh e Panella portano esempi numerosi e convincenti16. Prima dell’esito vittorioso della rivoluzione di Khomeini, fu Nasser, il Cesare arabo, come lo definisce Karsh, a compiere il tentativo più importante per riportare il Medio Oriente arabo sotto una stessa matrice. Non vi riuscì perché il suo messaggio non aveva un sufficiente richiamo religioso all’unità dei credenti e perché il suo “imperialismo anti-imperialista” aveva troppe collusioni sia con gli americani che con i sovietici, il che gli alienò il sostegno degli islamisti.
Nello stesso tempo, il vasto appeal esercitato dalla rivoluzione iraniana, al di là della contrapposizione tra mondo sciita e mondo sunnita, può produrre consenso tra le masse islamiche ma deve fare i conti con le realtà statali esistenti nel Medio Oriente. Infatti, per quanto una certa storiografia terzomondista occidentale si ostini a ripetere stancamente che le frontiere dei paesi mediorientali furono tracciate in Europa, esse invece furono l’esito altamente conflittuale di attori regionali interessati a dividersi le spoglie dell’Impero Ottomano, attori che «a dispetto della loro chiara inferiorità rispetto alle grandi potenze, spesso ebbero il sopravvento»17. Ed è molto difficile, ora, che rinuncino a ciò che i loro predecessori avevano ottenuto dopo il crollo della Sublime Porta.
In definitiva, come afferma Karsh, mentre Atatürk fu il solo a separare la Turchia dalla sua eredità, abolendo il sultanato ed il califfato e dando vita ad uno Stato moderno, «i leader del Medio Oriente e gli ideologi islamisti sono rimasti nell’incantesimo del sogno imperiale»18. Di qui l’eterno mito della violenza per tornare ai fasti del passato. «Il vero problema – conclude Panella – è la concezione jihadista della politica e della fede e non i pretesti che di volta in volta vengono presi per innescarla. […] La volontà di sopraffazione è insita in una parte dell’Islam, che si pretende religione naturale dell’uomo […] e che non ammette di essere messa in discussione»19.


Note
1. Efraim Karsh and Inari Karsh, Empires of the Sand: The Struggle for Mastery in the Middle East, 1789-1923, Cambridge, Mass. & London, Harvard University Press, 2001, p. 2.
2. Cfr. Carlo Panella, Il libro nero dei regimi islamici. 1914-2006: oppressione, fondamentalismo, terrore, Milano, Rizzoli, 2006.
3. Ibid., p. 49.
4. Ibid., p. 74.
5. Ibid., p. 147.
6. Ibid., p. 169.
7. Ibid., p. 179.
8. Barry Rubin, Judith Colp Rubin, Arafat. L’uomo che non volle la pace, Milano, Mondadori, 2005, p. 31.
9. Carlo Panella, Il “complotto ebraico”. L’antisemitismo islamico da Maometto a Bin Laden, Torino, Lindau, 2005, p. 32.
10. Carlo Panella, Il libro nero, cit., p. 307.
11. Carlo Panella, Piccolo atlante del Jihad. Le radici del fondamentalismo islamico, Milano, Mondadori, 2002, pp. 61-62.
12. Cfr. Efraim Karsh, Islamic Imperialism: A History, New Haven and London, Yale University Press, 2006.
13. Ibid., p. 5.
14. Ibid., p. 6.
15. Ibid., p. 7.
16. Sull’argomento cfr. anche Barry Rubin, The Tragedy of the Middle East, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, in particolare il capitolo “Force and Violence in Middle Eastern Policy” (pp. 138-167).
17. Ibid., p. 190.
18. Ibid., p. 229.
19. Carlo Panella, Il libro nero, cit., pp. 373-374.

Antonio Donno, professore di Storia dell’America del Nord all’Università di Lecce.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuilleton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006