In un fondamentale libro del 1999, Efraim ed Inari Karsh avevano sostenuto
che la storia del Medio Oriente nel Ventesimo secolo, con le sue turbolenze
e le sue crisi, fosse stata scritta non tanto e non solo dalle grandi potenze
europee, quanto dagli attori locali. A cominciare dal crollo dell’Impero
Ottomano, in conseguenza della sconfitta nella prima guerra mondiale, per
giungere fino agli avvenimenti attuali, «gli attori mediorientali
non furono le vittime sfortunate della politica predatoria delle potenze
imperiali ma parti attive nella ristrutturazione della regione»1.
Con il termine “ristrutturazione” i Karsh intendevano la violenza,
l’approccio violento che le forze endogene nel Medio Oriente avevano
esercitato per risolvere i problemi interni della regione o, meglio, per
conseguire la supremazia. In sostanza, la violenza interna allo scenario
mediorientale non fu il prodotto del nazionalismo europeo, ma parte integrante
della cultura politica della regione ben prima della nascita del nazionalismo
europeo alla fine del Diciottesimo secolo ed eredità della tradizione
millenaria imperiale propria del Medio Oriente.
Questo, dunque, è il punto. Secondo l’analisi dei Karsh, a
partire dai grandi imperi del Mediterraneo e del Crescente Fertile, attraverso
gli imperi islamici, fino all’Impero Ottomano, ed oltre, la storia
del Medio Oriente è stata costantemente caratterizzata da una lotta
per la supremazia interna in cui quello europeo è stato solo uno
dei fattori in gioco. L’imperialismo europeo ha avuto un suo ruolo
ma non in opposizione ad un presunto nazionalismo arabo, bensì ad
un vero e proprio imperialismo arabo ed islamico.
Quando, ad esempio, scoppiò la cosiddetta “grande rivolta araba”
contro il dominio ottomano negli anni della Grande Guerra, tale rivolta,
dimostrano i Karsh, non tese a liberare gli arabi dal giogo ottomano, non
ebbe, cioè, il carattere di una guerra di liberazione nazionale,
ma fu il tentativo di Hussein di sostituire al potere imperiale ottomano
quello della propria dinastia. Si trattò, perciò, di uno scontro
tra due imperialismi.
Fanatismo jihadista e imperialismo arabo
Se si
parte da questa premessa interpretativa di fondo, il recente volume di Carlo
Panella2 appare decisivo per fornire un’interpretazione finalmente
lontana dai triti stereotipi in voga da troppo tempo non solo presso il
mondo islamico, ma anche in Occidente, dove l’autofustigazione per
i “misfatti” compiuti ai danni dei popoli mediorientali ha ormai
raggiunto livelli di masochismo insopportabili. E chiarisce, infine, il
ruolo, il significato e le finalità della violenza come fattore endogeno
nella storia dei popoli mediorientali almeno a partire dal crollo dell’Impero
Ottomano. In sostanza, Panella interpreta la violenza mediorientale come
ricerca e pratica del jihad, sin dall’ingresso dell’Impero Ottomano
nella prima guerra mondiale, che fu proclamato, appunto, come guerra santa
contro gli infedeli. Su questo obiettivo anche gli sciiti, che non riconoscevano
l’autorità del califfo sunnita, si mossero uniti, in quanto
la lotta contro i cristiani era prioritaria rispetto alle divisioni interne
al mondo islamico. Così, Panella concorda con i Karsh nel dire che
la “grande rivolta araba” fu ben misera cosa di fronte alla
chiamata alle armi per il jihad.
Quando, infine, l’Impero Ottomano crollò, questo crollo non
fu attribuito al secolare processo di esaurimento della società islamica
e delle sue istituzioni, ma alla perfida alleanza tra l’imperialismo
cristiano ed il sionismo: di qui il radicarsi del desiderio di revanscismo
nella forma del jihad. È bene chiarire la tesi centrale del libro
di Panella: con l’esclusione della guerra del Yom Kippur, che Sadat
combatté per riacquistare il Sinai, tutti i conflitti combattuti
dai popoli arabo-islamici sono stati «guerre in cui l’elemento
di rivendicazione o di conquista territoriale appare secondario rispetto
al principio religioso o ideologico. Il fine è quello di imporre
la superiorità di un modello di società [e di religione, n.d.a.]
(panarabo, panislamista, sciita, sunnita) su un altro»3. Questo concetto
rappresenta il filo rosso che percorre tutto il libro di Panella; in sostanza,
egli usa il concetto di jihad sia per significare i conflitti interni al
mondo arabo ed islamico, sia il più generale e planetario conflitto
contro gli infedeli, cioè contro i cristiani e gli ebrei.
Dopo il crollo dell’Impero Ottomano, fu Jamal al Din al Afgani a teorizzare
il dovere del musulmano di combattere il jihad contro l’Occidente
cristiano e colonialista. In questo senso, il rifiuto di accogliere l’elemento
sionista in Medio Oriente rappresentò la cartina di tornasole della
volontà del mondo arabo-islamico di combattere non per la terra,
cioè per una finalità nazionalistica, ma per la vittoria totale
in nome della fede. Si gettarono, così, le basi di quella ideologia
estremistica, radicale, fondamentalista che, ai nostri giorni, troverà
in bin Laden il suo paladino.
A partire dal 1922 i palestinesi, capeggiati dal Gran Muftì di Gerusalemme,
dopo aver eliminato, anche fisicamente, l’elemento arabo favorevole
ad un compromesso con i sionisti, si posero al fianco dei nazisti per combattere
la guerra santa contro gli ebrei: una comunanza di interessi ideologici
veramente rimarchevole: il “jihad” antisemita nazista forniva
un perfetto background ideologico per il jihad palestinese contro i sionisti.
Fu l’inizio di una decennale lotta ideologica araba contro Israele:
rifiuto della politica del compromesso, cioè, in sostanza, di ogni
opzione genuinamente nazionalistica in favore del jihad contro gli ebrei.
Dal Gran Muftì a Nasser, da Saddam Hussein ad Arafat, il jihad contro
Israele fu la parola d’ordine del mondo arabo ed islamico, con le
conseguenze disastrose che ne deriveranno per gli arabi. Ma tali disastri,
per una perversa coazione a ripetere, non faranno altro che radicalizzare
ulteriormente il fanatismo jihadista, e via di questo passo. «Fu l’elemento
religioso – afferma Panella – a determinare il rifiuto della
politica, del compromesso possibile, e la scelta permanente della via militare,
dell’eliminazione dell’avversario»4, cioè il jihad.
Dunque, la scelta palestinese di combattere il jihad contro i sionisti al
fianco dei nazisti non solo era dettata da un comune intento, ma si inseriva
anche nella tradizione del mondo islamico, a partire dal jihad dichiarato
dalla Sublime Porta in occasione della Grande Guerra, e avrebbe trovato
conferma in tutte le scelte successive compiute dai vari raìs arabi,
fino a Khomeini ed Hamas, ed oggi bin Laden. La stessa Lega Araba, nata
nel marzo del 1945, per quanto percorsa da feroci controversie interne dovute
alle aspirazioni egemoniche delle varie dinastie arabe in lotta fra di loro,
aveva come scopo principale il jihad contro gli ebrei di Palestina. Anzi,
con la nascita dei nuovi Stati arabi indipendenti, il jihadismo fu conteso
dai vari capi arabi come prerogativa esclusiva dell’uno o dell’altro
per conseguire la supremazia sul mondo arabo nella prospettiva dell’unità
panaraba o addirittura panislamica.
Questo fu il retroterra di violenza che Panella definisce come jihad interno,
di cui porta svariati esempi, tra cui cruciale per tutte le avventure successive
(sempre in nome del jihad) fu la lotta cruenta contro il diretto antagonista
interno, che Panella chiama costituzionalismo, cioè quelle forze
moderate, minoritarie se non marginali, che, comunque, erano espressione
di una visione moderata ed incline al compromesso sia con il sionismo che
con lo stesso Occidente. Fu il caso del tunisino Bourghiba, la cui proposta
politica di riconoscere Israele rimase inascoltata.
Un esempio clamoroso, e sempre equivocato dagli occidentali, fu quello di
Nasser. Il “socialismo arabo” del raìs egiziano, che
in troppi hanno definito laico per comodità di approccio e forse
per illudersi che fosse qualcosa di diverso dal mainstream radicale e fondamentalista,
«aveva poco a che vedere con le teorie socialiste e di sicuro non
segnò una svolta laicista che allontanasse la società islamica
dall’alveo islamico»5. In sostanza, la politica nasseriana era
perfettamente in linea con l’ideologia di Al Fatah, dell’Olp,
di Arafat, «di cui l’Europa – afferma molto giustamente
Panella – ha sempre sottovalutato la profonda matrice islamica e jihadista».
Per Panella, la concezione della società e della storia di Nasser,
Saddam Hussein, Hafez al Assad e Yasser Arafat è sempre stata rigidamente
musulmana e per questo motivo la violenza, interna ed esterna, da loro messa
in atto non può che definirsi jihad. Così, per molti anni,
il “socialismo arabo” fu soltanto la foglia di fico per mascherare
una visione islamista, jihadista della lotta politica per la supremazia
nel Medio Oriente.
In particolare, Panella individua saggiamente le fasi cruciali del jihad
nasseriano: la creazione con la Siria della Repubblica Araba Unita, sotto
la sua egida; l’abbattimento dei regimi costituzionalisti in Iraq,
Giordania e Libano e la loro sostituzione con regimi filo-nasseriani nella
prospettiva della creazione di una grande nazione araba con a capo il raìs
egiziano; la distruzione di Israele, come dimostrazione del ruolo egemone
dell’Egitto nella guerra contro il sionismo. Le operazioni condotte
da Nasser in Medio Oriente, afferma Panella, fallirono ma furono seguite
da analoghi tentativi da Assad in Siria e più tardi da Saddam Hussein
in Iraq. In sostanza, «ad affermarsi […] sarà il panarabismo
con le caratteristiche totalitarie delle componenti egizio-iracheno-siriana,
in apparenza laica, e saudita, dichiaratamente musulmana»6 e jihadista.
Questa componente totalitaria di matrice islamica troverà un’utile
sponda nel totalitarismo sovietico, per quanto le analisi americane del
tempo assicurassero – quale errore! – che il cosiddetto nazionalismo
arabo fosse sordo alle sirene del comunismo. Così, Nasser, sostenuto
dai sovietici e grazie anche al denaro americano, continuò il suo
jihad laico, puntando sulla guerra «come settore primario di investimento,
innanzitutto ideologico»7.
La stessa logica ha ispirato per decenni l’azione di Arafat. Arafat
non fu mai un leader nazionalista nel senso classico del termine, il suo
obiettivo non era la creazione di uno Stato palestinese da perseguire attraverso
gli strumenti della politica. La politica, per Arafat, era solo la copertura
per un obiettivo ben più ambizioso. Come giustamente hanno sostenuto
Barry Rubin e Judith Colp Rubin, «i suoi modelli non erano i leader
o i teorici nazionalisti arabi, ma le lotte dei primi musulmani per i quali
era accettabile soltanto la vittoria totale sugli infedeli e sui crociati»8.
Arafat, sostiene Panella, fu il nuovo Gran Muftì dei palestinesi
e da quest’ultimo egli ereditò il radicale antisemitismo, ruotante
intorno all’eterno cliché del “complotto ebraico”.
La posizione di Arafat era chiara, in quanto non si discostava per nulla
dal «rifiuto religioso, coranico, metastorico, dell’ipotesi
stessa che gli ebrei, i dhimmi, coloro che complottano da sempre contro
la polis musulmana, possano avere un loro stato, a Gerusalemme»9.
Anche nel Libro nero Panella dedica pagine importanti al jihadismo di Arafat,
come pure al continuatore del jihadismo laico di Nasser, l’iracheno
Saddam Hussein.
Dalla crisi del califfato a Osama bin Laden
Con l’ascesa
al potere di Khomeini in Iran, il jihad teocratico compì un salto
di qualità. Nello stesso tempo, la posizione ambigua del Pakistan
e la diffusione, in quello Stato, del verbo dell’ayatollah contribuì
in modo sostanziale alla diffusione del modello khomeinista di jihad. In
Afghanistan i talebani proposero ed applicarono con il massimo rigore la
loro versione del jihad. Che la gente fosse di fede sunnita o sciita, il
jihad, dopo la rivoluzione khomeinista, si rafforzò, anche teoricamente,
come strumento privilegiato di lotta sia all’interno che verso l’esterno.
All’interno del mondo arabo i movimenti espansionistici di Saddam
Hussein crearono una frattura profonda: la sua lotta contro i regimi arabi
“laici” per l’egemonia sul Medio Oriente favorì
la crisi verticale della legittimità politica ed ideologica di quegli
stessi regimi e la conseguente ascesa impetuosa dell’opzione fondamentalista
come vera opzione unificante del mondo islamico. Da questo punto di vista,
Panella afferma che le due risposte che nel corso degli anni furono date
alla crisi del califfato, quella fondamentalista wahabita-salafita (bin
Laden) e quella “laica” (Nasser, Assad, Saddam Hussein), a partire
dal 1990 finirono per intrecciarsi e coincidere «in una comune scelta
totalitaria e jihadista»10. Fu Hassan al Turabi a suggellare l’intesa.
Il 25 aprile 1991 egli organizzò a Khartoum una conferenza che sancì
la riunificazione dei due filoni jihadisti: erano presenti gli emissari
di Saddam, quelli di Osama, i Fratelli Musulmani, Arafat, lo stesso al Turabi
e i capi di molte tra le più importanti moschee d’Europa. Quando
a Camp David, nel luglio del 2000, Arafat rifiutò un accordo storico
con Israele, lo fece in nome del nuovo jihad. Questa volta lo strumento
non furono le pietre, ma i martiri suicidi: l’ideologia khomeinista,
veicolata attraverso gli Hezbollah e Hamas, aveva trionfato nel contesto
palestinese. La rivoluzione iraniana era divenuta il vero modello generale
per il mondo arabo ed islamico; con essa «l’integralismo islamico
si impone mobilitando sotto le sue bandiere milioni di iraniani e –
soprattutto – riesce a fondare un modello di Stato musulmano radicalmente
nuovo che fornisce un concreto e attivo punto di riferimento»11.
Ma questo esito può essere considerato soltanto come la risposta
del mondo islamico all’imperialismo occidentale? O è soprattutto
il frutto di un movimento interno a quel mondo fin dalla nascita dell’Islam?
Efraim Karsh nel suo ultimo libro fornisce un quadro convincente ed assai
documentato di questo fenomeno, confermando e rafforzando le tesi di Panella12.
Secondo Karsh, le influenze esterne non costituirono le forze principali
che causarono la crisi della società mediorientale, bensì
la lunga tradizione imperiale – ed imperialistica – presente
nella regione da tempo ben più lungo rispetto alla controparte europea.
Karsh è esplicito a questo proposito: «Dal primo impero arabo-islamico
della metà del Settimo secolo sino agli Ottomani, l’ultimo
grande impero musulmano, la storia dell’Islam è stata la storia
dell’ascesa e della caduta di imperi universali e, fatto non meno
importante, di sogni imperialisti»13. Questa storia secolare fu caratterizzata
da una lotta intestina in cui la potenza dominante tendeva al controllo
pieno della regione per mezzo della sottomissione delle forze endogene concorrenti,
le quali, tuttavia, non furono mai soggiogate in modo così completo
da non provocare processi degenerativi di frammentazione. Tutto ciò
fu particolarmente evidente negli ultimi anni del potere ottomano, quando
il sogno imperiale della Sublime Porta si infranse a causa della disastrosa
decisione di entrare nella Grande Guerra e della contemporanea emersione
di potenti forze centrifughe disgreganti.
L’analisi di Panella prende le mosse proprio da questo periodo cruciale,
condividendo in pieno l’assunto iniziale di Karsh, secondo il quale
«le due dottrine in competizione del pan-islamismo e del pan-arabismo
hanno tentato di riempire il vuoto lasciato dal collasso dell’Impero
Ottomano»,14 per quanto il pan-arabismo abbia avuto ambizioni meno
universalistiche rispetto al pan-islamismo. Ma, alla stessa stregua dei
secoli precedenti, anche il periodo successivo alla fine della prima guerra
mondiale vide il trionfo della violenza intestina al mondo arabo ed islamico;
la tensione tra il centro e la periferia si manifestò – afferma
Karsh – nel tentativo di ascesa al potere regionale ed all’ambizione
imperiale di dinastie locali o di raìs nazionali, come dimostra anche
l’analisi di Panella. Dunque, la retorica tutta occidentale sul presunto
nazionalismo arabo non ha fondamento. Ancora Karsh: «I leader arabi
e gli ideologi islamisti convinsero sistematicamente i loro popoli a pensare
che l’esistenza indipendente dei loro rispettivi Stati era un’aberrazione
temporanea che sarebbe stata sanata in breve tempo»15. Le pagine che
Panella dedica alle mire “imperiali” dei leader “laici”
come Nasser, Assad, Saddam Hussein, della dinastia saudita, e di tutti gli
ideologi islamisti, fino al successo dell’impresa di Khomeini ed oggi
alle ambizioni di un bin Laden di ridar vita al califfato, dimostrano come
la storia del Medio Oriente, prima e dopo il crollo della Sublime Porta,
sia stata un susseguirsi di violente crisi interne per il potere sull’intera
regione.
Mentre Karsh parte da molto lontano, dalla conquista della penisola arabica
da parte di Maometto, Panella concentra la sua analisi sul periodo che va
dal crollo della Sublime Porta ad oggi. Ma il taglio interpretativo è
il medesimo. Per i due autori il jihad, interno ed esterno, è stato
lo strumento, ma anche il fine, dell’imperialismo islamico; infatti,
il jihad, la guerra santa, per il fatto di essere il veicolo della diffusione
della vera fede per tutta l’umanità, conteneva in sé
gli elementi finalistici di una conversione globale che avrebbe dato vita
alla umma universale. Ma, argomentano i due autori, questo finalismo non
poteva che diffondere uno stato perenne di violenza sia all’interno
della comunità islamica che all’esterno.
I movimenti centrifughi che hanno costellato la storia del Medio Oriente
musulmano ed i tentativi di ricreare un’unità sotto l’egida
del raìs “laico” di turno o dell’ideologo islamista
lo stanno a dimostrare; ma dimostrano anche che la progressiva decadenza
degli imperi arabi, fino al crollo di quello ottomano, sono dovuti solo
in misura minore all’intervento del mondo cristiano ed in massima
parte al processo di continua disgregazione dovuta alla violenza endemica
interna al mondo islamico, di cui Karsh e Panella portano esempi numerosi
e convincenti16. Prima dell’esito vittorioso della rivoluzione di
Khomeini, fu Nasser, il Cesare arabo, come lo definisce Karsh, a compiere
il tentativo più importante per riportare il Medio Oriente arabo
sotto una stessa matrice. Non vi riuscì perché il suo messaggio
non aveva un sufficiente richiamo religioso all’unità dei credenti
e perché il suo “imperialismo anti-imperialista” aveva
troppe collusioni sia con gli americani che con i sovietici, il che gli
alienò il sostegno degli islamisti.
Nello stesso tempo, il vasto appeal esercitato dalla rivoluzione iraniana,
al di là della contrapposizione tra mondo sciita e mondo sunnita,
può produrre consenso tra le masse islamiche ma deve fare i conti
con le realtà statali esistenti nel Medio Oriente. Infatti, per quanto
una certa storiografia terzomondista occidentale si ostini a ripetere stancamente
che le frontiere dei paesi mediorientali furono tracciate in Europa, esse
invece furono l’esito altamente conflittuale di attori regionali interessati
a dividersi le spoglie dell’Impero Ottomano, attori che «a dispetto
della loro chiara inferiorità rispetto alle grandi potenze, spesso
ebbero il sopravvento»17. Ed è molto difficile, ora, che rinuncino
a ciò che i loro predecessori avevano ottenuto dopo il crollo della
Sublime Porta.
In definitiva, come afferma Karsh, mentre Atatürk fu il solo a separare
la Turchia dalla sua eredità, abolendo il sultanato ed il califfato
e dando vita ad uno Stato moderno, «i leader del Medio Oriente e gli
ideologi islamisti sono rimasti nell’incantesimo del sogno imperiale»18.
Di qui l’eterno mito della violenza per tornare ai fasti del passato.
«Il vero problema – conclude Panella – è la concezione
jihadista della politica e della fede e non i pretesti che di volta in volta
vengono presi per innescarla. […] La volontà di sopraffazione
è insita in una parte dell’Islam, che si pretende religione
naturale dell’uomo […] e che non ammette di essere messa in
discussione»19.
Note
1.
Efraim Karsh and Inari Karsh, Empires of the Sand: The Struggle for Mastery
in the Middle East, 1789-1923, Cambridge, Mass. & London, Harvard University
Press, 2001, p. 2.
2. Cfr. Carlo Panella, Il libro nero dei regimi islamici. 1914-2006: oppressione,
fondamentalismo, terrore, Milano, Rizzoli, 2006.
3. Ibid., p. 49.
4. Ibid., p. 74.
5. Ibid., p. 147.
6. Ibid., p. 169.
7. Ibid., p. 179.
8. Barry Rubin, Judith Colp Rubin, Arafat. L’uomo che non volle la
pace, Milano, Mondadori, 2005, p. 31.
9. Carlo Panella, Il “complotto ebraico”. L’antisemitismo
islamico da Maometto a Bin Laden, Torino, Lindau, 2005, p. 32.
10. Carlo Panella, Il libro nero, cit., p. 307.
11. Carlo Panella, Piccolo atlante del Jihad. Le radici del fondamentalismo
islamico, Milano, Mondadori, 2002, pp. 61-62.
12. Cfr. Efraim Karsh, Islamic Imperialism: A History, New Haven and London,
Yale University Press, 2006.
13. Ibid., p. 5.
14. Ibid., p. 6.
15. Ibid., p. 7.
16. Sull’argomento cfr. anche Barry Rubin, The Tragedy of the Middle
East, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, in particolare il capitolo
“Force and Violence in Middle Eastern Policy” (pp. 138-167).
17. Ibid., p. 190.
18. Ibid., p. 229.
19. Carlo Panella, Il libro nero, cit., pp. 373-374.
Antonio Donno, professore di Storia dell’America del Nord all’Università di Lecce.
(c)
Ideazione.com (2006)
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