Il finanziamento
dei partiti in Italia avviene, in gran parte, mediante i contributi pubblici:
nel 2005 circa 160 milioni di euro. La cifra varia di anno in anno, perché
i contributi si collegano alle tornate elettorali (nel 2005 le elezioni
regionali). Le spese annuali dei partiti, stando ai dati dello scorso anno,
sono circa 228 milioni. L’autofinanziamento, nel 2005, ha rappresentato
41 milioni circa. Dunque c’è stato un deficit di circa 28 milioni.
Forza Italia ha avuto un’entrata di 51 milioni contro 54 milioni di
spese. E i partiti, in misura diversa, sono indebitati, in parte per l’eccesso
delle spese effettive sulle entrate, in parte per l’accumulo di interessi
passivi sui prestiti. Ciò dipende, in parte, dal fatto che le erogazioni
pubbliche han luogo come “rimborsi”, quindi ex post rispetto
alle spese effettuate dai partiti che, pertanto, s’avvalgono di anticipazioni
bancarie. Ma in parte maggiore dipende dal fatto che i deficit di esercizio
si trasformano in debiti e questi generano interessi passivi. Attualmente
il volume dei debiti dei partiti è di circa 225 milioni, di cui 180
dei ds e 113 di Forza Italia (quest’ultima, per altro, ha una garanzia
fideiussoria del suo presidente Silvio Berlusconi di 75 milioni). Insomma,
il partito più indebitato è il maggiore della sinistra, quello
più strutturato e articolato sul territorio e per funzioni, che ha
anche le maggiori spese per il personale. Al secondo posto, c’è
la Margherita che, evidentemente, ha ereditato la robusta struttura organizzativa
della sinistra dc.
Queste cifre ufficiali, pur nella loro opinabilità, dovuta ai variabili
criteri di registrazione delle spese e delle entrate, a volte per competenza
e a volte per cassa, sono per difetto, in quanto una parte dei costi e dei
ricavi dei partiti non viene registrato nei loro bilanci, si svolge mediante
gestioni extra bilancio. Sul lato dei costi fuori bilancio è molto
importante la propaganda gratuita per certi partiti e candidati effettuata
– non solo durante le campagne elettorali, ma in modo continuativo,
così da generare opinioni condivise – da giornali e gruppi
editoriali amici, in collegamento con lobbies economiche. Essa è
tanto più efficace in quanto non si svolge mediante vera pubblicità,
ma con gli editoriali, le articolesse, i servizi dei giornalisti e i sondaggi
d’istituti che lavorano, per contratto, per quei gruppi editoriali
o/e a cui essi danno risalto. Infatti, se s’osservano le spese per
la propaganda elettorale del 2005 si nota che Forza Italia – che,
nonostante le tv di proprietà del suo leader (soggette alla regolamentazione
pubblica della par condicio), dispone in misura molto limitata di giornali
e servizi di informazione nazionali e regionali – ha speso in propaganda
e servizi ben 33,5 milioni di euro, mentre i ds – che contano su una
ampia macchina editoriale amica, costituita da giornali (anche tramite il
sindacato dei giornalisti), case editrici, librerie – hanno speso
solo 16 milioni di euro. E la Margherita – che è il beniamino
del maggior complesso editoriale-industriale-bancario italiano e può
contare su uno stuolo d’intellettuali che la sostengono, nella pubblica
opinione, coi media della stampa, le informazioni Internet, i sondaggi d’opinione,
i convegni (ripresi dai media) e le opere librarie, in evidenza nelle librerie
dei gruppi amici – è riuscita a cavarsela con 9,7 milioni.
an – che non ha alcun sostegno di lobbies editoriali della stampa
d’opinione e di svago “indipendente” o nell’editoria
libraria e nelle librerie – ha speso, per propaganda e servizi, 17,6
milioni. Dunque più dei ds e molto di più della Margherita.
Ma la presenza dei politici e delle opinioni dei ds e soprattutto della
Margherita è stata di gran lunga maggiore di quella di an.
L’altro finanziamento extra bilancio molto rilevante dei partiti,
soprattutto di quelli con una grossa macchina organizzativa sul territorio
(particolarmente utile per le elezioni regionali e locali), che ne riduce
i costi registrati in bilancio, è costituito dall’impiego di
personale di enti pubblici, di privati, di sindacati che lavora informalmente
o con “distacco gratuito” nelle varie sedi del partito o nei
suoi organismi collaterali, mentre è pagato dal proprio datore di
lavoro. Ciò, ad esempio, è possibile quando un partito è
collegato a potenti organizzazioni cooperative, che ricambiano l’appoggio
politico mediante il distacco permanente o temporaneo di personale. In modo
un po’ meno corretto, ciò può avere luogo mediante il
distacco di personale di imprese ed enti pubblici comunali, regionali, parastatali.
Sul lato dei ricavi
extra bilancio, si segnala la pubblicità sugli organi e nei convegni
di partito, effettuata da imprese, organizzazioni ed enti. Anche qui sono
importanti i rapporti simbiotici con imprese cooperative e quelli con le
amministrazioni regionali e locali.
Nonostante esistano questi finanziamenti extra bilancio, dai dati di bilancio
dei partiti, che abbiamo appena visto, risulta che i partiti non possono
vivere senza finanziamenti derivanti dai privati ma che l’attuale
finanziamento di privati, registrato di bilancio o fuori bilancio, non basta
a coprire la differenza fra finanziamento pubblico e spese. E, d’altra
parte, si può rilevare che l’autofinanziamento di bilancio
è tanto più necessario quanto meno il partito dispone di lobbies
amiche, nel mondo dell’informazione e della cultura e può fare
affidamento su personale stipendiato da organismi collaterali e lobbies
amiche.
Nell’impostazione tradizionale (quella per cui il finanziamento dei
partiti da parte dei privati si denomina ancora “autofinanziamento”)
i partiti si finanziavano con le tessere degli iscritti che, a loro volta
(nei partiti democratici), erano molto importanti in quanto gli organi del
partito periferici e centrali venivano eletti dai tesserati. Il partito
era dunque concepito come un grande club che si regge principalmente sulle
quote associative degli iscritti. Le erogazioni liberali di sostenitori
avevano soltanto un ruolo integrativo. Attualmente la situazione s’è
invertita, non tanto perché sia diminuito il numero di tesserati
(un fenomeno reale) o perché siano diminuite le quote associative
(un fenomeno limitato a pochi casi), ma perché sono aumentati i costi
della politica. E i proventi delle tessere, quindi, non hanno più
il ruolo di un tempo. Nei bilanci attuali dei partiti i proventi derivanti
dal tesseramento rappresentano una quota modesta delle entrate e (a fortiori)
delle spese. Nel 2005 Forza Italia, su 10 milioni di finanziamento privato
(pari al 20 per cento delle entrate), ha incassato per tesseramento solo
4,2 milioni d’euro.
Da tutto ciò si desume che per il finanziamento dei partiti è
indispensabile un importante flusso di finanziamento privato, costituito
dalle erogazioni liberali. Ciò tanto più, quanto meno un partito
può far appello su costi e ricavi fuori bilancio di organismi collaterali
e lobbies amiche. Il complesso rapporto fra lobby e finanziamento dei partiti
acquista tanta più trasparenza, quanto più questo tipo di
finanziamento si sviluppa e non viene ostacolato da erronee impostazioni
giudiziarie. In un sistema democratico evoluto con economia di mercato le
erogazioni liberali sono il sale del finanziamento del “terzo settore”.
Dovrebbero esserlo anche del finanziamento della politica. Ma, al riguardo,
ci sono enormi diffidenze, in parte derivanti da incomprensioni ideologiche,
in parte strumentali.
È, certo, difficile immaginare che le erogazioni liberali ai partiti
possano pervenire, in misura rilevante, da donazioni di persone, società
commerciali e organismi associativi completamente disinteressati, o che
effettuano tali donazioni per scopi puramente ideali e non hanno alcun rapporto
diretto o indiretto con gli organismi pubblici in cui i partiti a cui erogano
i propri fondi hanno o possono avere una influenza rilevante.
Osservando la realtà delle democrazie, possiamo distinguere i finanziatori
dei partiti in tre “modelli” via via meno distorcenti del processo
politico e di quello economico e sociale: a) gli organismi e gli enti collaterali,
che finanziano il “proprio” partito, con apporti fuori bilancio
e di bilancio, in un rapporto simbiotico da cui traggono un mutuo vantaggio;
b) i gruppi d’interesse e di potere che finanziano i partiti amici,
con operazioni fuori bilancio o di bilancio, per i propri fini, senza un
rapporto organico, ma spesso con un collegamento sistematico. c) i mecenati,
che finanziano, in modo trasparente, cioè con operazioni che compaiono
nel bilancio o fuori bilancio palesi e non interferenti, uno o più
partiti, o iniziative collaterali, che rispondono alla loro ideologia o/e
all’immagine che desiderano dare di sé. In questo terzo modello,
di mecenatismo, il donatore non interferisce con le linee politiche dei
partiti finanziati, a differenza che nel secondo; né è legato
da un rapporto simbiotico personale e organizzativo col partito finanziato.
Possiamo prendere, quale
esempio concreto del primo modello, i vari organismi collaterali dei partiti
di sinistra storici (comunisti, socialisti e socialdemocratici): cooperative,
sindacati, organizzazioni di lavoratori autonomi (artigiani, commercianti,
eccetera) e egli organismi collaterali analoghi, ma con finalità
religiose, dei partiti democratici cristiani storici. Nell’economia
dirigista, un fecondo rapporto simbiotico era quello con le imprese pubbliche
statali. Il rapporto simbiotico è rimasto con le imprese pubbliche
locali.
Protagonisti del secondo modello sono le banche, i grandi gruppi industriali,
le associazioni bancarie e di industriali ed i gruppi economico-editoriali;
qui i gruppi di potere e di interesse assumono, spesso, anche una leadership
di tipo parapolitico, vuoi tramite i propri media e i propri intellettuali,
vuoi tramite organismi rappresentativi degli interessi, come le associazioni
di categoria (Confindustria, Associazione Bancaria Italiana, eccetera).
Per il terzo modello è possibile individuare due tipologie: 1) quegli
operatori economici, da giovani simpatizzanti o tesserati di un partito,
che hanno avuto successo ed hanno conservato, col partito, un legame di
simpatia; 2) quegli operatori economici che ritengono che certi movimenti
politici o partiti, non necessariamente nel medesimo schieramento, siano
più consoni allo sviluppo dell’economia in cui essi operano
e, pertanto, li finanziano per fini di interesse generale e, nel contempo,
utilizzano il rapporto che così si crea per accrescere la propria
immagine e reputazione e per cercarsi simpatie.
Si può argomentare che, generalmente, il finanziamento liberale dei
partiti da parte di singoli mecenati, per quanto rilevante, è una
quota limitata del loro fabbisogno finanziario globale. E si può
arguire che, sia per questo sia per il fatto che questi mecenati non interferiscono
con le scelte politiche e culturali delle attività finanziate, le
loro erogazioni non appaiono determinanti per la politica pubblica nazionale
o regionale. Dunque, non si può sostenere che la singola erogazione
liberale sia realmente ripagata, in termini di quadro politico generale
con un effetto commisurato al costo dell’erogazione. Il finanziamento
a un partito, mediante atti di liberalità singoli, anche se molto
consistenti, dunque, è in larga misura un “bene pubblico”.
Ma è errato desumere da ciò che, pertanto, queste erogazioni
celino, per loro natura, un tornaconto occulto in termini di specifici benefici
economici. Infatti esse, comunque, generano un rilevante effetto d’immagine
vantaggioso. E, da ciò, i mecenati traggono un vantaggio economico
di carattere generale, in termini di reputazione e simpatia. Analogamente,
senza considerare l’importanza di questo effetto, non si spiegherebbero
le grandi erogazioni liberali a fondazioni benefiche, assistenziali, artistiche
e culturali e il mecenatismo sportivo.
Mi sembra evidente che il primo modello di finanziamento privato sia scarsamente
accettabile in un sistema politico “liberale” ad economia di
mercato, dove gli organismi sindacali, le cooperative, le associazioni religiose
dovrebbero essere indipendenti dai partiti e dove il finanziamento dei partiti
da parte di privati dovrebbe essere trasparente. Così come trasparenti
dovrebbero essere le attività lobbistiche. Ma, per loro natura, il
finanziamento di partito e il lobbismo che s’instaurano e rafforzano
tramite la simbiosi fra partiti ed organismi collaterali, con annesse “porte
girevoli”, per i dirigenti degli uni e degli altri, non sono trasparenti.
E generano effetti perversi, tramite i finanziamenti extra bilancio dei
partiti e il rafforzamento del neocorporativismo. Quando un ministro delle
Attività Produttive ds liberalizza i farmaci da banco consentendo
che vengano venduti, oltreché dalle farmacie, anche (ma solo) dai
supermercati, in larga misura, in Italia, gestiti da cooperative della Lega
delle cooperative, a quale fenomeno s’assiste, considerando la simbiosi
finanziaria fra ds e coop?
In un sistema politico
liberale ad economia di mercato il secondo tipo di lobbismo è inevitabile,
dato che gli interessi organizzati hanno diritto di influire, peraltro in
modo trasparente, sulle scelte pubbliche democratiche. Ma in quel tipo di
sistema non dovrebbe però essere ammesso il rapporto che in Italia
esiste tra banche-giornali e industrie-giornali e politica, con gruppi di
interesse economici che, per tale via, dettano la linea politica ai partiti
e indicano, anzi, chi debba assumere le massime cariche dello Stato.
Il lobbismo del primo e del secondo modello, in Italia, ha anche prodotto
la crescita anomala della “concertazione” delle politiche pubbliche
nazionali, in cui le organizzazioni sindacali e quelle degli industriali
si accordano, con un rapporto trilaterale, col governo. Questo neocorporativismo
comporta un potere anomalo e ambiguo delle lobbies (fra le quali rientrano,
ormai, gli organismi sindacali) che inquina e deforma la politica, svilendo
il ruolo degli organismi della democrazia rappresentativa.
è evidente che in un sistema politico liberale il finanziamento privato
ai partiti più consono è quello del terzo modello. La legge
italiana sul finanziamento consente le liberalità a favore dei partiti
sia da parte di persone fisiche che di persone giuridiche e associazioni,
ma condiziona queste seconde alla pubblicità. È accaduto,
ai tempi di Tangentopoli, che l’onorevole Citaristi, segretario amministrativo
della dc, dichiarasse l’elenco dei finanziamenti ricevuti, sia quelli
non resi pubblici e sia quelli resi pubblici a norma di legge, e che il
giudice penale perseguisse alcuni operatori economici che avevano effettuato
finanziamenti regolari per reati di corruzione riguardanti appalti e forniture
pubbliche, sulla semplice presunzione che un operatore economico che ha
finanziato un partito di governo ed ottiene una commessa pubblica sia, per
ciò stesso, autore di un illecito, assieme all’uomo politico
o/e ai funzionari che hanno gestito il contratto. Alcuni casi si sono conclusi
con condanne, altri con assoluzioni. Il fenomeno s’è ripetuto
recentemente. La presunzione che un atto di liberalità a favore di
un partito implichi, per sua stessa natura, un interesse illecito di chi
la fa contraddice la norma che considera leciti questi finanziamenti, se
dichiarati, e genera un grosso colpo al miglior modello di finanziamento
privato dei partiti in una democrazia liberale.
Francesco Forte, uno dei massimi esperti di finanza e analisi economica, è stato ordinario di Scienza delle finanze nelle più prestigiose università italiane.
(c)
Ideazione.com (2006)
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