Quasi
200 anni fa, il 6 agosto 1806, l’imperatore d’Austria Francesco
II deponeva la corona tedesca sotto la pressione della campagna vittoriosa
di Napoleone in Europa contro l’alleanza, senz’altro significativa,
di Austria, Russia e Inghilterra. Si concludeva così il Sacro Romano
Impero della nazione tedesca durato per secoli. Un Impero che, a ben vedere,
non era né sacro, né romano, né tedesco, ma che, per
un periodo considerevole di tempo, aveva comunque rappresentato una costituzione
sopranazionale, non dell’Europa ma in Europa.
Allora non si parlava né di identità europea né di
integrazione europea. Quando l’Impero giunse alla sua fine ingloriosamente,
silenziosamente, quasi in sordina, si chiuse un’era e in Europa iniziò
un’epoca nuova, caratterizzata dall’esigenza vitale della fondazione
degli Stati nazionali. In quella fase, sia la Germania sia l’Italia
hanno trovato la loro identità nazionale. L’epoca della fondazione
degli Stati nazionali europei ha risolto alcuni dei vecchi problemi del
continente creando al contempo problemi nuovi.
Alla fine, per la stessa dinamica insita negli Stati nazionali forti e rivali,
moltiplicata per la megalomania dei dittatori, dopo due conflitti mondiali
originati in Europa, il continente stava per farsi saltare in aria. Successivamente,
a mio avviso, l’unico tentativo, veramente nuovo e serio, di trarre
dalle esperienze di una storia comune le conclusioni per un futuro diverso
è stato il Trattato di Roma del quale, il prossimo anno, celebreremo
il cinquantesimo anniversario.
Il Trattato di Roma è stato concluso tra sei Stati fondatori, tra
cui la Germania e l’Italia, e all’epoca nessuno avrebbe immaginato
che, cinquant’anni dopo, la Comunità avrebbe avuto 25 Stati
membri – 27 dall’1 gennaio del prossimo anno – e che sarebbe
stata superata la divisione dell’Europa, occasione e motivo, insieme
ad altri fattori, della fondazione della Comunità. Ad una prima lettura
superficiale, cinquant’anni di Comunità europea appaiono come
un’unica storia ininterrotta di successi. In effetti, nella storia
europea, nessuno dei paesi interessati ha vissuto un periodo tanto lungo
di pace e di libertà, lo sviluppo di un mercato comune e, infine,
l’introduzione di una moneta unica, l’espressione quasi classica
della sovranità degli Stati nazionali. Oggi, tutte queste conquiste
ci appaiono un fatto scontato. Uno dei singolari talenti degli europei è
quello di considerare gli eventi ritenuti impossibili per decenni, una pura
ovvietà nel momento in cui essi divengono realtà. I tedeschi
hanno sviluppato questo talento in una straordinaria perfezione, come possiamo
osservare non da ultimo, e in modo particolarmente deprimente, nel modo
in cui è stata affrontata la riunificazione della Germania.
Anche se – o forse proprio perché – la Comunità
europea è stata una storia di cinquant’anni di successi, oggi
assistiamo a un costante indebolimento dell’entusiasmo dei cittadini
per questa Comunità, un indebolimento che, nei nuovi paesi di adesione,
avviene in modo drammaticamente più rapido e palese che nei vecchi
Stati membri. In Polonia e nella Repubblica Ceca, subito dopo l’adesione
alla Comunità, i partiti hanno condotto, e hanno vinto, le campagne
elettorali su posizioni decisamente eurocritiche. Attendersi da questi paesi
iniziative specifiche per l’ulteriore sviluppo della Comunità,
può essere definito soltanto una pura proiezione del pensiero.
I tre errori dell’Unione
Nell’imminenza
del suo cinquantesimo anniversario, la Comunità europea non è
stata mai così estesa ed è stata raramente tanto debole. È
difficile non rilevare che alla crescita di dimensioni non fa riscontro
un corrispondente aumento di forza. A mio avviso, il provvisorio fallimento
del trattato costituzionale è l’espressione, ma non è
l’essenza, della crisi in cui versa oggi la Comunità europea.
A mio giudizio, in relazione al trattato costituzionale sono sfuggiti almeno
tre errori rilevanti, per varie responsabilità, che contribuiscono
a spiegare il fallimento del processo di ratifica.
Il primo aspetto, e il più importante, è stato lo svolgimento
di referendum non necessari in due Stati fondatori della Comunità
europea, in Francia e in Olanda, che non sono stati indetti unicamente per
motivi di politica europea né sono falliti unicamente per motivi
di politica europea.
Il secondo motivo, a mio avviso rilevante, è costituito da una straordinaria
mania di perfezione rilevabile nella stesura del testo, come in una competizione
reciproca al rialzo che, alla fine, ha sottoposto ai cittadini dell’Europa
non una Magna Carta della nostra idea di Comunità ma piuttosto un’enciclopedia
delle direttive europee.
Infine, proprio a questo compendio enciclopedico è stata attribuita
la pretesa di essere una Costituzione, una pretesa che il testo non riesce
a soddisfare né sotto il profilo formale, né sotto il profilo
sostanziale. In questa discrepanza tra volume e sostanza, lo scetticismo
era addirittura pre-programmato e ha avuto come conseguenza quasi logica
il fallimento dei referendum.
Adesso, tutti i governi degli Stati membri interessati si sono imposti una
pausa di riflessione che, a quanto pare, è anche urgentemente necessaria.
La domanda è se e quali risultati otterremo da una tale pausa di
riflessione.
In Senza radici, un libro sulla crisi delle culture europee scritto insieme
all’allora Cardinal Ratzinger – un libro che mi ha molto colpito
– il senatore Pera parla del disagio dell’Europa: «ricca,
ma insicura e incapace di risolvere il problema della propria identità
e del proprio futuro». Nello stesso contesto ha parlato della disaffezione
dell’Occidente nei confronti dei suoi principi e i valori.
Temo che la diagnosi sia corretta. Prima, con riferimento al trattato costituzionale,
ho detto che, a mio avviso, il fallimento non costituisce l’essenza
bensì l’espressione della crisi. Ho detto questo perché
ritengo che, invece, l’essenza vada ricercata nella descrizione del
Senatore Pera: in una forte insicurezza dell’Europa nei confronti
della propria identità.
Di conseguenza, nessuna domanda è più urgente del chiarimento
del seguente quesito: quale Europa vogliamo realmente? Abbiamo realmente
un’idea comune di Europa? Vogliamo porre realmente un’idea comune
dell’Europa alla base di una costituzione comune? La prospettiva di
una comunanza, non soltanto di regole ma anche di convinzioni, aumenta realmente
con il numero dei partecipanti che devono e/o vogliono essere parte della
stessa organizzazione?
Personalmente ritengo che, tra qualche anno, gli storici si occuperanno
intensamente del quesito e, con ogni probabilità, discuteranno anche
accanitamente sul fatto se l’unico gravissimo errore, peraltro storico,
dei cinquant’anni di storia della Comunità europea non sia
stato affrontare l’allargamento della Comunità a nuovi Stati
membri prima del suo approfondimento, finendo praticamente con il privilegiare
l’allargamento rispetto all’approfondimento. Da uno sguardo
obiettivo sulla reale costituzione di questa Comunità a 25, e prossimamente
a 27, appare comunque evidente che la prospettiva di un approfondimento,
la prospettiva di adottare le necessarie riforme istituzionali che assicurino
la capacità di agire di una Comunità che vuole essere qualcosa
di più di un club o di un’associazione politica, si è
enormemente ridotta con l’aumento del numero degli Stati membri. Per
la verità, ciò non è affatto dovuto unicamente all’aumento
del numero degli Stati membri, ma alla specifica esperienza storica di tali
Stati, non identica all’esperienza che ha indotto gli Stati fondatori,
e alcuni paesi dell’Europa occidentale che hanno aderito successivamente,
a fondare questa Comunità. Anche se sono consapevole del fatto che
i confronti storici sono raramente calzanti, consentitemi, a titolo puramente
illustrativo e senza alcuna pretesa di prova, di ricordare che, alla fine,
neanche l’Impero Romano è crollato a causa di una rapida contrazione,
ma è crollato a causa di una dinamica intrinseca di crescita che
è divenuta incontrollabile.
Alla ricerca dell’identità perduta
È
mia profonda convinzione che l’Europa debba rispondere urgentemente
a una serie di domande che, per motivi più o meno validi, abbiamo
rimandato per anni. Domande che non abbiamo posto o alle quali non abbiamo
comunque dato una risposta. Tra le altre domande, è anche essenziale
chiedersi se l’Europa ha realmente delle frontiere e, se la risposta
è affermativa come indicano alcuni fattori, dove si collocano tali
frontiere. Già da questo punto di vista, ma non soltanto da questo
punto di vista, la decisione concernente l’adesione della Turchia
all’Unione Europea rappresenta una questione-chiave per dare una risposta
effettiva al quesito, qual è la nostra idea di Europa. Se perdura
la tendenza a rinviare le risposte sulla coerenza interna e sull’identità
della Comunità Europea, alla fine, ad una risposta sulla questione
dell’adesione della Turchia potrebbe sostituirsi una risposta data
in precedenza. Comunque, non può sussistere alcun dubbio serio sul
fatto che con la decisione, positiva o negativa, dell’adesione della
Turchia, alla Comunità Europea si apriranno prospettive completamente
diverse sotto il profilo quantitativo e qualitativo. Ciò è
in un qualche rapporto con il numero dei futuri Stati membri ai quali, a
mio avviso, non sarebbe seriamente possibile negare l’accesso, né
per considerazioni di natura geografica, né per considerazioni di
natura storica o culturale, se la Turchia è un serio candidato all’adesione
e, ovviamente, se viene presa in considerazione la questione centrale dell’identità
culturale dell’Europa. Accentuando un po’ i toni, in ultima
analisi, il quesito si riallaccia anche alla domanda se l’Europa diverrà
realmente una comunità politica che tutela gli interessi comuni sulla
base di convinzioni comuni e supera le sfide comuni, oppure se si trasformerà
in una versione ridotta e più elegante delle Nazioni Unite, non con
il suo numero elevato di Stati membri, ma con la stessa insignificanza operativa.
Non soltanto a causa dell’anniversario – che è di per
sé un motivo sufficientemente valido – dobbiamo pensare alle
basi spirituali sulle quali ha poggiato la fondazione di questa Comunità
Europea e sapere se vogliamo renderle nuovamente attive come base della
Comunità in futuro, oppure se pensiamo di potervi rinunciare, con
le conseguenze già accennate sull’ulteriore processo di sviluppo
di questa Comunità.
Vorrei dire due parole, per chiarire perché la rivitalizzazione delle
basi culturali della Comunità Europea mi appare così importante
e perché la ritengo la questione chiave nel futuro di questo continente.
Non soltanto per l’Europa, ma anche per i suoi singoli Stati nazionali
si è ripetutamente posto il quesito se il moderno Stato costituzionale
democratico possa garantire se stesso, oppure se esso poggi su premesse
normative che non è in grado di creare da solo, ma senza le quali
non può assicurare la propria esistenza. Ogni volta che tale domanda
è stata oggetto di una discussione seria, la risposta è stata
immancabilmente che lo Stato secolare non crea le sue basi normative dalle
proprie risorse e, pertanto, non potrebbe rinnovarle autonomamente, ma dipende
da tradizioni ideologiche e religiose, e comunque da tradizioni etiche collettivamente
vincolanti. Se si esaminano tali tradizioni nei diversi paesi, in Germania,
in Italia e in Francia anche nelle convinzioni riportate nella letteratura
scientifica, si rileva che nei nostri paesi e nell’opinione pubblica
europea praticamente inesistente, la discussione pubblica in merito manca
palesemente di coraggio. Essa è caratterizzata da un attento rifiuto
di ogni presa di posizione. A questa esigenza di evitare una presa di posizione
si contrappone un riconoscimento espresso, e spesso prioritario, del multiculturalismo,
della propensione al dialogo e della tolleranza, quale che sia il significato
preciso di questi termini.
Del resto, la propensione al dialogo come requisito minimo presuppone un
proprio punto di vista. Tuttavia, in determinate occasioni, è difficile
sottrarsi all’impressione che la richiesta di dialogo sia presentata
sempre più spesso in sostituzione di un proprio punto di vista.
Sono fermamente convinto del fatto che dobbiamo fare attenzione a non cadere
vittime di una delle due grandi esagerazioni riscontrabili attualmente in
tutto il mondo. Innanzitutto, la presunzione di voler realizzare le convinzioni
religiose con zelo fondamentalista rendendole al tempo stesso universalmente
vincolanti come prescrizioni obbligatorie dello Stato – una grande
tendenza globale con la quale ci confrontiamo da anni. Dall’altro
lato, vi è la leggerezza di considerare le convinzioni religiose
irrilevanti, insignificanti o inconsistenti. Il secondo errore non è
meno pericoloso del primo. Troppo a lungo, alcuni intellettuali in Europa
hanno rivendicato o promosso la seconda esagerazione prendendo, a ragione,
le distanze dalla prima. Forse ciò dipende anche dalla doppia insicurezza
dell’uomo moderno che si esprime al contempo nella nostalgia per valori
generalmente vincolanti e nella resistenza a contrarre legami. Sarebbe bello
se qualcosa risultasse vera ed esatta una volta per tutte, e sarebbe ancora
molto più bello non dover prendere posizione in merito.
Tuttavia, la capacità di contrarre legami non è soltanto espressione
di libertà, ma probabilmente è anche la premessa per la libertà,
così come la disponibilità al consenso è la premessa
per la capacità di una società di risolvere i propri conflitti.
È questo uno dei grandi temi che abbiamo trascurato troppo a lungo
in politica. Proprio quando si vuole una società liberale, quando
si vuole la libertà individuale, non soltanto come figura retorica
ma come realtà di tutti i giorni, riconoscere la libertà individuale
significa riconoscere l’inevitabilità dei conflitti. Una società
può permettersi i conflitti se esiste un minimo di comunanza che
le garantisce la capacità di risolverli pacificamente. Senza un minimo
di comunanza, una società non può sopportare alcuna diversità.
Per questo motivo, una delle alternative fittizie e insensate, anche se
molto diffuse e sollevate continuamente nella discussione, è ritenere
possano esistere alternativamente la diversità o la comunanza, la
pluralità o l’identità.
Uno sguardo illuminato a questo complicato rapporto evidenzia con chiarezza
l’impossibilità di avere l’una senza l’altra. L’integrazione
presuppone l’identità, comunque già come processo individuale,
e certamente come processo della società nel suo complesso. In Germania,
ormai da diversi anni viviamo esperienze estremamente difficili con i problemi
di integrazione posti dall’immigrazione di individui provenienti da
contesti culturali diversi. Con un forte appoggio dei media moderni, che
in una certa misura rendono perfetto l’isolamento della nuova patria
dal mondo di origine, abbiamo interi quartieri delle città tedesche
nei quali esiste la tanto descritta società parallela. Nei quali
l’integrazione non può più fallire per il fatto che
nessuno cerca più di realizzarla. Lì, gli individui vivono
gli uni accanto agli altri in contesti perfettamente isolati e l’integrazione
non può avvenire perché nessuna delle parti la cerca seriamente,
perché non esiste un minimo di comunanza che costituisce la premessa
per la comprensione, ed è di per sé la premessa minima per
l’integrazione.
Se, con lo sguardo rivolto al trattato costituzionale europeo più
volte citato, mi sono dichiarato favorevole alla rivitalizzazione delle
basi culturali di questa Comunità Europea, l’ho fatto perché,
ad un esame attento, risulta che le costituzioni sono, per loro essenza,
norme culturali e null’altro.
Le costituzioni non cadono dal cielo. Né sono conservate in cielo,
quando sulla terra i tempi divengono turbolenti. La premessa di ogni costituzione
è la cultura. Del resto, è per questo che le costituzioni
del mondo sono tanto diverse tra di loro. Le costituzioni sono sempre espressione
delle esperienze storiche vissute da un paese. Sono espressione delle convinzioni
che si sono sviluppate in un popolo nel corso di generazioni. Sono espressione
delle convinzioni religiose che esistono, o non esistono, in un determinato
territorio. Le costituzioni durano finché durano queste basi culturali.
L’idea che una costituzione possa affermare la propria esistenza come
sovrastruttura autonoma, indipendente dalla base culturale dalla quale è
nata, equivale alla convinzione ingenua che quando gli alberi crescono rigogliosi
non è più necessario occuparsi delle radici. Ma gli alberi
sono rigogliosi finché hanno radici intatte.
Affinché l’Europa della diversità mantenga le identità
nazionali e, al tempo stesso, sviluppi un’identità collettiva,
è necessaria un’idea-guida politica, un fondamento comune di
valori e di convinzioni. Una tale idea-guida europea può riferirsi
unicamente a valori culturali comuni, a una storia comune, a tradizioni
religiose comuni. Questo fondamento che unisce resta l’elemento costitutivo
per l’identità europea e comunque per l’Europa che intendo
quando parlo di Europa. Per me l’Europa non è una denominazione
geografica. Forse è anche una denominazione geografica. L’Europa
è qualcosa di più di un’unione di Stati nazionali, l’Europa
è qualcosa di più di un mercato, l’Europa è qualcosa
di più di una comunità economica e certamente è qualcosa
di più di un regolamento comune sui prezzi del latte e di sovvenzioni
congiunte per il carbone, l’acciaio, il vino o per altro. L’Europa
è un’idea, l’Europa è una disposizione interiore,
l’Europa è un modo di vedere degli individui, l’Europa
è una concezione del diritto degli individui a partecipare agli affari
che li concernono. L’Europa è un’idea di autoresponsabilità
degli individui, un’idea della necessità e della possibilità
di organizzare, a livello di Stato, i rapporti tra individui autoresponsabili.
Solo una tale Europa giustifica gli sforzi resi inevitabili dall’unione
di Stati nazionali, ciascuno con una propria storia secolare e degna di
rispetto. Temo che anche nella percezione esterna della Comunità
Europea in molti altri paesi sia sorta l’impressione che questa Unione
non sa con certezza cosa vuole e cosa vuole essere.
È di nuovo il disagio di cui ha scritto il senatore Pera. È
anche la disaffezione nei confronti dei propri valori e delle proprie convinzioni
che non si osa più portare avanti per timore che risultino offensive.
È certamente l’esitazione ad accettare legami e a concepirli
non solo come imposizione ma anche come premessa per collocarsi in un mondo
nel quale si ha bisogno di trovare il proprio posto, soprattutto quando,
attorno a noi, la situazione cambia ad una velocità sempre maggiore.
Nei suoi discorsi e nelle sue prediche, il defunto Papa Giovanni Paolo II
ha sempre ricordato che, «l’identità del continente europeo
senza il Cristianesimo non è comprensibile».
Certamente il minimo che, con ogni evidenza, occorre tener presente è
che la storia di questo continente non può essere scritta, raccontata
e compresa senza la storia del Cristianesimo. La domanda politicamente più
avvincente è stabilire se un tale contesto sia necessario soltanto
per la comprensione, o non sia necessario anche per l’identità.
Anche in proposito ho trovato una straordinaria frase del collega Pera che
vorrei sottoscrivere con una leggera variante. Il senatore Pera, nel suo
libro ha scritto che «il Cristianesimo, per la sua essenza, è
talmente legato all’Occidente che un abbandono del Cristianesimo avrebbe
conseguenze devastanti».
Una tale affermazione non potrebbe conservare la propria validità
nella variazione seguente? L’Occidente è per sua essenza talmente
legato al Cristianesimo che lo scioglimento di un tale legame potrebbe avere
conseguenze devastanti per entrambi?
Intuisco che non sono pensieri popolari tra i mass media. Ma, personalmente,
non ho il minimo dubbio sul fatto che si tratta di quesiti centrali che
non dobbiamo rimandare ulteriormente e ai quali dobbiamo dare una risposta.
Non dobbiamo più voler convincere noi e gli altri che la questione
si chiarirà da sola. Ho una precisa intuizione su come sarebbe la
risposta che, in assenza di una domanda posta consapevolmente, emergerebbe,
al posto di una posizione chiara, in questa Comunità di 25, poi di
27 e, in un prossimo futuro, di oltre 30 Stati membri.
Papa Benedetto, il Papa venuto dalla Germania, che per il suo percorso di
sacerdote, vescovo, studioso e teologo, e per la sua partecipazione agli
eventi di un paese che ha vissuto un’esperienza particolarmente amara
con la perdita del rapporto tra regole politiche e convinzioni culturali,
prima e dopo l’assunzione al Pontificato, anche e specificamente con
uno sguardo al trattato costituzionale europeo, ha ripetutamente richiamato
l’attenzione su questo deficit palese. Nel discorso tenuto al Senato
italiano due anni fa, descrisse la dignità umana e i diritti umani
come valori che precedono qualsiasi giurisdizione. Questi valori codificano
in modo essenziale un’eredità cristiana, che invece viene rivendicata
soltanto timidamente come fondamento, accanto ad altre tradizioni culturali,
e non viene dichiarata universalmente vincolante. La rimozione mentale dei
nessi trova la propria espressione, non più percepita come problema,
nell’indifferenza nei confronti della rivendicazione dei valori cristiani
come principi autonomi di una comunità europea, senza neppure il
coraggio di evidenziare l’esistenza di tale nesso. Al contrario: a
un esame più attento, l’accurato occultamento di questo nesso
risulta essere stata una delle premesse per il raggiungimento di un accordo
sul testo costituzionale.
Papa Benedetto scrive: «L’Europa, per sopravvivere, ha bisogno
di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di
se stessa». L’Europa ha bisogno di una accettazione critica
e umile di se stessa, se vuole sopravvivere. Sul fatto che l’Europa
voglia sopravvivere, non ho alcun dubbio. Sul fatto se l’Europa abbia
sufficiente chiarezza circa le premesse della sua sopravvivenza, è
consentito un dubbio. Ed è nostro compito comune eliminare tali dubbi.
(L’articolo
è tratto dal discorso tenuto a Roma il 18 giugno 2006 in occasione
della Lettura Annuale della Fondazione Magna Carta)
Norbert Lammert, politico di primo piano della Cdu è attualmente presidente del Bundestag tedesco.
(c)
Ideazione.com (2006)
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